In un libro la storia senese di Ante Pavelic, il duce croato

il 15/01/2009 - Redazione

È stato uno dei più sanguinari dittatori del Novecento. Tra i più feroci ad applicare la pulizia etnica, le deportazioni di massa, il genocidio. Si stima che in pochi anni mandò a morte, nei campi di sterminio, 750mila serbi, 60mila ebrei e 26mila gitani. Il più grande genocidio durante la seconda guerra mondiale in proporzione alla popolazione. Ante Pavelic fu, dal 1941 al 1945, duce di Croazia di un regime fantoccio al servizio dei nazisti e del fascismo italiano. Curzio Malaparte raccontò di sevizie disumane, addirittura di ceste piene di occhi strappati ai prigionieri, e altre atrocità. Indro Montanelli, che lo incontrò due volte, semplicemente lo definì “criminale di guerra che più criminale non si può”. Ma prima di salire al potere, l’avvocato Pavelic visse in Italia, clandestinamente organizzando i propri uomini di là dal confine, grazie al sostegno economico di Benito Mussolini. E dall’aprile 1937 al febbraio 1940 dimorò nella tranquilla Siena. Prima alla villa Il Poggiarello fuori porta Romana e poi in viale Cavour, al civico 53. Quasi sicuramente la città non si accorse della sua presenza, che fu sempre discreta e appartata con poche frequentazioni e rare uscite. Ma molto intensa fu al contrario la sua attività di propagandista e condottiero. Proprio a Siena riuscì a pubblicare il proprio “Mein Kempf” sul valore dei regimi fascisti nel combattere il bolscevismo internazionale.

Il libro - La certezza della presenza a Siena di uno dei criminali di guerra più noto al mondo viene confermata dalla pubblicazione di un libro, “Ante Pavelic il duce croato” (edizioni Kappa Vu, 2008, pp 266), curato da Massimiliano Ferrara. Da anni questo giovane ricercatore ne segue le orme e, finalmente, adesso ha raccolto e pubblicato una notevole mole di documenti inediti che gettano nuova luce, sebbene sempre più sinistra, su questo personaggio, sui suoi rapporti con Benito Mussolini, ma anche le sue liasons dangereuses con il Vaticano, prima e soprattutto dopo il suo regime.

Gli anni senesi di Pavelic sono anni in cui il mondo è in fermento, scoppia la Guerra, il regime fascista è all’apice della propria parabola e Benito Mussolini si prepara a giocare le carte per il predominio sulla Jugoslavia. Per questo gli serve avere sotto controllo uno degli uomini che può contribuire a disgregare quello Stato e per questo lo mantiene e ne garantisce la sicurezza in una delle città forse più tranquille d’Italia. A Siena, infatti, Pavelic può ricevere visite e essere sorvegliato. Può, insomma, svolgere la sua attività di condottiero e terrorista, con la copertura della polizia italiana. E questa può altrettanto tranquillamente svolgere il proprio compito, con dettagliate e minuziose relazioni che oggi finalmente possono essere conosciute. 

Pavelic non sembra interessarsi alle cose della città, stando almeno agli scarni resoconti dei militari, ma da qui crea le sue trame di relazioni e contatti con i propri uomini che lo vengono a trovare per ricevere ordini o disposizioni. Colpisce, ad esempio, la relazione con ecclesiastici jugoslavi, ospiti guarda caso proprio in quel periodo del convento dell’Osservanza. Purtroppo la storia si è incaricata di raccontare dei gravi crimini di cui anche il clero si macchiò in quei tragici anni di regime ustascia.
Caduto il regime, Pavelic, grazie a complicità internazionali tutte da svelare, diventa uno degli uomini più ricercati al mondo. Lo stesso Montanelli pochi anni fa rivelò di averlo incontrato nella Pampa argentina. Si era camuffato al mondo con una folta barba bianca, ma le sue grandi orecchia lo tradirono alla vista del giornalista. Vengono i brividi a ripensare come quella regione abbia conosciuto pochi anni fa un’altra stagione di sanguinosa guerra civile, di orribili crimini e di tentativi di genocidi. E di come un criminale, questa volta serbo bosniaco, Radovan Karadžić sia riuscito a nascondersi per anni proprio dietro una barba bianca. Purtroppo, sembra proprio che la storia non insegni nulla. Tranne la perpetuazione della violenza dell’uomo sull’uomo.

Michele Taddei

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