Confesso che ho una debolezza per entrare nei cinema al secondo tempo. Mi piace quando la sala è già buia, gli spettatori seduti e con lo sguardo fisso sullo schermo luminoso, le voci dei protagonisti che mi intimano di fare presto a trovarmi un posto, sedermi e concentrarmi sulla trama che si sta compiendo. A quel punto, sono obbligato a seguire, con grande attenzione, la storia, a cercare di capire i personaggi in scena e il perché il dramma descritto ha quello svolgimento e quel finale. Poi, a luci accese, mentre tutti si alzano, rimango ad interrogarmi sull’intera storia. E le risposte vengono naturali nel vedere il primo tempo. Non di rado, rimango ancora a vedere il film per intero. A quel punto tutto mi è chiaro, e arrivo a trovare dettagli e particolari che ad una prima visione mi erano sfuggiti.
Mi pare che la stessa debolezza per il secondo tempo ce l’abbia Giampaolo Pansa che, in questi ultimi anni, si ostina a proporci una serie di libri sull’immediato secondo dopoguerra in Italia. L’ultimo della serie, “Il Revisionista”, arriva a parlare soprattutto di sé e delle vicende che lo hanno riguardato come autore scomodo. Certo, va tutto bene.
Ma perché Pansa si ostina a farci vedere sempre il secondo tempo di quel film, senza raccontarci del primo? Perché si accanisce sugli sviluppi di un dramma collettivo e nazionale di cui furono protagonisti gli italiani negli anni ’43-45 e poi, ci dice Pansa, anche in seguito?
Non erano italiani anche le migliaia di soldati mandati a morire dal regime fascista nella guerra? Non erano italiani gli ebrei deportati nei campi di concentramento nazisti con il benestare di Mussolini? Non erano italiani i milioni di nostri compatrioti che per vent’anni dovettero subire le angherie e i soprusi di un regime che, sarà pure stato “all’italiana” se paragonato a quello infernale di Hitler, comunque determinò la soppressione della stampa libera, promulgò le leggi fascistissime, sulla razza e vietò la libera associazione? Tanto per dire alcuni temi sempre attuali in qualunque sistema di governo.
Ho letto tempo fa il primo di questi volumi “Il sangue dei vinti”. E ammetto l’effetto negativo che ha avuto su di me la scoperta di processi sommari, di uccisioni a freddo, di processi del popolo improvvisati. Da quei lavori, Pansa ne ha dati alle stampe altri. Il tenore è sempre lo stesso. Raccontare il secondo tempo dello stesso film.
Mi domando, allora, se non sia il caso che un giornalista onesto e uno storico rigoroso non cominci anche a raccontare il primo tempo di quella lunga e tragica storia. Allora sì che si capiranno meglio i contorni di una vicenda che è stata drammatica da qualunque angolo la si guardi.
Il babbo di mia nonna, ad esempio, era un anarchico. La famiglia viveva a Rosignano Marittimo, vicino a Livorno. Terra di anarchici e socialisti prima e comunisti poi. Patria di quel Pietro Gori che cantò i valori dell’anarchia e con coerenza li subì sulla sua persona.
Ebbene, il babbo di mia nonna, mi è sempre stato raccontato sottovoce perché sembrava una vergogna, ogni volta che nel ventennio c’era una manifestazione pubblica veniva preso e sbattuto in galera. Non già perché violento; solo perché la polizia nel temere disordini preferiva controllare tutti quelli che non avevano abiurato la propria fede e continuavano a manifestarla pubblicamente. Addirittura suo fratello, un tipo un po’ più nervoso forse perché senza figli, venne più volte picchiato pubblicamente e dai fascisti fu persino legato ai binari del treno. Fortuna che riuscì a slegarsi e, a quel punto, darsi alla fuga fuori dall’Italia.
Ebbene, cosa pretende il nostro bravo giornalista d’inchiesta? Che queste persone, una volta caduto il regime tornassero tranquille alle loro occupazioni, e magari al bar giocassero a carte con gli aguzzini di prima della guerra?
Credo proprio di no. In molti, subito dopo la caduta di Mussolini cercarono le proprie rivincite e vendette personali. Un sentimento sbagliato, non c’è dubbio, ma certamente naturale. Proprio a Rosignano incontrai per le scale di casa di mia nonna un anziano signore e ci mettemmo a parlare. Mi raccontò di umiliazioni subite dalla sua famiglia, di fame e miseria del fascismo. E di un gerarca particolarmente odioso che si approfittò di una donna della sua famiglia.
“Appena finita la guerra – mi disse l’anziano – andai a cercarlo a casa e se l’avessi trovato l’avrei ucciso. Fortuna sua volle che non lo trovai. Sennò …”.
Già fortuna sua. E fortuna nostra sarebbe se oggi Gianpaolo Pansa si mettesse a raccontare anche queste storie da primo tempo. Ci aiuterebbe a capire meglio il nostro Paese. Altrimenti si sarà solo limitato a farsi pubblicità per sé e per i suoi prodotti editoriali. Ma che non potranno dirsi né storici né, tantomeno, giornalistici.
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