Da Siena a Cagliari e ritorno. Il Maestro di Bisso e quelle storie di là dal mare

Massimo Granchi

09/02/2016



Sono un autore sardo che vive in Toscana. Ho un’origine mista e la mia esistenza racconta un intreccio di culture: padre senese, madre cagliaritana. L’ambiente sardo di nascita mi ha formato profondamente, nonostante le influenze toscane abbiano intriso la mia vita fin dall’infanzia: sangue, parlata, abitudini. Ho ricevuto un’educazione informale di storia e comunicazione molto eterogenea. In casa mia, la memoria e la necessità di comprensione attraverso la condivisione, mi hanno fatto innamorare di due città lontane tra loro: Cagliari e Siena. Sono luoghi così diversi da colmare riccamente il mio patrimonio esperienziale. Il sardo, come molti sanno, è una lingua appartenente al gruppo romanzo delle lingue indoeuropee. All’ascolto, per i non sardi, può apparire aspra e spigolosa. A me sembra musica evocativa di atmosfere ancestrali. È la stessa musica che percepisco ogni volta nel vento di maestrale e nel rumore del mare quando torno all’isola. Proprio come la musica, Cagliari ispira le mie opere. Pietro Clemente ha scritto nel bel libro Cartas de logu (CUEC, 2007), “mi sono sentito cagliaritano a pieno, solo dopo un po’ di anni che mi ero trasferito”.

A me è successa la stessa cosa. La scrittura è diventata una necessità impellente e terapeutica per recuperare il mio sardismo. Vivo a Siena da quindici anni, mia moglie è monteronese. Ho scelto la zona del senese come seconda patria. Solo di recente ho cominciato a scrivere della Toscana, e l’ho fatto raccontando le opportunità di riscatto, la bellezza del paesaggio, ma soprattutto l’accoglienza e la condivisione. Il ritorno a Cagliari sprigiona in me ricordi su questi temi talmente potenti da lasciarmi stordito. In particolare, proprio l’accoglienza e la condivisione sono motivo di commozione. Recentemente sono stato in Sardegna a pubblicizzare il mio nuovo romanzo dal titolo "Occhi di sale" (Palabanda, 2015). Dopo la prima tappa sassarese, sono stato a Cagliari, Quartu, Flumini e Sant’Antioco. La risposta delle persone è stata entusiasta. I viaggi attraverso il Campidano sono ritemprati. Vedere i sardi è sempre come sfogliare un album di vecchie fotografie di famiglia. Ricordo un incontro, in particolare, che non potrò dimenticare. “Come ti chiami?”, mi ha chiesto gravemente il Maestro di Bisso Chiara Vigo, vedendomi sulla soglia del suo laboratorio, a Sant’Antioco. Chiara è molto impegnata ed è spesso assente. Incontrarla è stato come essere testimone di un presagio.

Mi sono presentato e solo allora lei ha sorriso. Ho immaginato che preparasse un rito nella sua testa. Ha aperto la porta del Museo sulla quale un cartello invita chi ha fretta a non entrare. All’interno mi hanno accolto odori di legno, tintura e tessuti. «Siedi», mi ha intimato. Abbiamo discusso a lungo sulle difficoltà della politica di comprendere la cultura e sul fatto che essa va condivisa senza chiedere nulla in cambio. Era infuriata perché il suo Museo rischia la chiusura. «E io chiudo il 24 febbraio, se vogliono così!», ha dichiarato con dignità sprezzante. Ha ripreso a tessere il Bisso, narrando la tradizione attraverso nenie cantate quasi sotto voce, un occhio rivolto a una grande lente d’ingrandimento che le facilitava il compito, e sguardi intermittenti lanciati a misteriosi fantasmi. Ha lavorato concedendomi interludi di storia, quella del Bisso che si perde nella notte dei tempi. «La Bibbia ne parla come tessuto del Re Salomone, della Regina Ecuba, così come pure Aristotele ne racconta. Io posso dire che ha fatto parte della mia vita e ne farà parte finché vivrò e terrò fede al giuramento dell’acqua che lo accompagna. Il passaggio e le consegne delle leggi della Maestria avvengono attraverso un giuramento che ne vieta l’utilizzo per arricchimento personale. Il Bisso deve rimanere bene di tutti come il mare».

«Io ho scritto un libro», le ho confidato d’un fiato, sentendomi in debito per quella rivelazione, «sono qui per regalarglielo». Chiara si è fermata per saperne di più. Gliel’ho mostrato e lei lo ha preso. Dopo aver osservato la copertina, lo ha aperto e ha saggiato le prime pagine con le dita. Ha riso ancora e ha chiesto una dedica. «Lo metterò qui, in mezzo agli altri doni che mi hanno fatto», mi ha detto descrivendoli uno a uno. «Ciò che viene donato al Maestro è di tutti. Parlerò anche del tuo Occhi di sale», ha promesso; poi ha continuato «Desidero che contatti l’Università di Siena e voglio che dica che sono disposta a tenere un corso gratuito di colore a freddo per tessuti». Ho annuito senza replicare. Mi è sembrata un’idea straordinaria. In quel momento di dislocazione assoluta, in cui per un attimo ho rinsaldato i miei legami con la città del Palio, è entrata una comitiva di turisti. Il Maestro, accogliente ma mai ossequioso, li ha fatti sedere. «Sentite bene. Oggi questo giovane è venuto da me», ha esordito, «si chiama Massimo Granchi e mi ha regalato il suo nuovo libro». Lo ha mostrato a tutti. «E ora vieni qui», mi ha ordinato. L’ho raggiunta al centro della sala. Mi ha stretto a sé e prima di congedarmi definitivamente mi ha sussurrato all’orecchio «ricorda: la cultura è un bene di tutti e deve essere condivisa»
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