Desiderio di compagnia e bisogno di solitudine, contraddizioni dell’adolescenza

Francesco Ricci

21/11/2016

“Nessuno è molto serio quand’ha diciassette anni. / I caffè strepitanti dalle luci splendenti, / Le bibite e le birre d’improvviso t’annoiano, / E allora vai a spasso per il viale dei tigli”. Solamente il genio di Arthur Rimbaud poteva compendiare in quattro versi, freschi e perfetti come un celeste mattino di inizio primavera, una delle contraddizioni più vistose dell’adolescenza: il desiderio di compagnia e il bisogno di solitudine. Sotto questo aspetto, poco o nulla è cambiato da allora (era il mese di settembre del 1870, il poeta di Charleville fuggiva per la prima volta da casa e raggiungeva Parigi, la guerra franco-prussiana iniziava a fare i suoi morti). Ciò non significa, ovviamente, che nel frattempo non abbiano subito delle trasformazioni sia il modo di vivere il divertimento in gruppo sia la maniera di fare esperienza della solitudine: il progresso, infatti, non solo cambia la fisionomia delle città, ma muta anche abitudini e comportamenti. Ad esempio, negli anni Ottanta il trascorrere il tempo libero coi propri coetanei, formando grandi compagnie, stando seduti sulla sella della propria vespa e ascoltando la musica che usciva dalle casse poste nel bauletto della stessa, costituiva per molti di noi la forma più piena e appagante dello stare insieme. In questo Terzo Millennio, invece, le strade e le piazze sono tornate ad essere per lo più un luogo di passaggio, di transito, non di una sosta splendidamente lenta e pigra.

Anche il volto della solitudine mostra tratti differenti rispetto al recente passato, se è vero che questa da privata si è fatta pubblica, da nascosta è divenuta manifesta. A lungo, infatti, la solitudine è stata esperita e vissuta, anche dai giovani, secondo due modalità principali, che hanno trovato nel “Canzoniere” di Francesco Petrarca la loro espressione letteraria più compiuta. Da un lato, si è avuta la ricerca di luoghi naturali isolati, non frequentati da altre persone (“Solo et pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi et lenti”); dall’altro, si è avuto il rifugiarsi nel segreto della propria stanza, della propria camera, lontano dalla curiosità degli altri uomini (“O cameretta che già fosti un porto / a le gravi tempeste mie diurne”). Poi, negli ultimi anni, a queste due modalità di stare soli se ne è aggiunta una terza: quella di esserlo stando in mezzo alla folla, di esserlo mentre si siede a tavola in famiglia, di esserlo mentre con gli amici si ritorna da scuola, di esserlo mentre si aspetta alla fermata l’autobus, di esserlo mentre si attende l’inizio del concerto. Da questo punto di vista, il senso di separazione e di chiusura che afferra i giovani mentre attraversano una vociante piazza cittadina non è diverso da quello che provano percorrendo un sentiero montano o stando sdraiati sul loro letto, con lo sguardo fisso al soffitto.

Dapprima, alla metà degli anni Ottanta, la commercializzazione di walkman a prezzi contenuti, successivamente l’invenzione del telefono cellulare e, soprattutto, la sua continua evoluzione (il passaggio dal segnale analogico a quello digitale, la grafica sempre meglio definita, le fotocamere integrate, il miglioramento dei componenti audio, la facoltà offerta agli utenti di navigare in Internet e di gestire la posta elettronica) costituiscono i fattori di questa “pubblicizzazione” della solitudine. La possibilità di ascoltare musica mentre si è a passeggio e di comunicare attraverso i social network hanno finito per ritagliare al giovane uno spazio, nel quale ci si allontana dagli altri e dal mondo, pur continuando a restare in mezzo agli altri e in mezzo al mondo. Seduti sulla panchina di un giardino, infatti, o nella sala di attesa della stazione, ragazzi e ragazze, sebbene legati da amicizia, anche profonda, si ignorano l’uno con l’altro, mentre gli occhi fissano il monitor del cellulare o dello smartphone e le dita scorrono veloci sulla tastiera, perché se proprio si deve parlare, allora meglio farlo con chi è lontano, magari a migliaia di chilometri: la relazioni “in assenza” s’impone su quella basata sulla vicinanza fisica. Eppure anche questo rifiuto – così moderno, così nuovo –  del contatto diretto, la si deve continuare a chiamare solitudine e non isolamento, tenendo presente la fondamentale differenza che intercorre tra queste due esperienze, e che lo psichiatra Eugenio Borgna ha con grande chiarezza, e a più riprese, evidenziato. Nei giovani, infatti, si conserva intatto lo slancio vitale, permane l’apertura all’altro-da-sé, il futuro seguita a elargire il dono dell’attesa e della speranza, laddove l’isolamento rinviene le sue caratteristiche di fondo nella chiusura al mondo e nel dilagare della dimensione del presente, presente ghiacciato, presente pietrificato e pietrificante. Sulla scia delle note di una canzone o in virtù delle immagini di un video, gli adolescenti sanno, oggi come ieri, sognare, sanno riflettere sul perché l’amore e le parole possono anche fare male, sanno scendere nel profondo di se stessi, dove è possibile distinguere le cose che contano da quelle che non hanno importanza alcuna. D’altra parte, la natura umana è fatta (anche) di costanti e la compresenza nello stesso individuo di desiderio di relazione e di desiderio di solitudine è una di queste. Ecco perché le parole di Baudelaire restano splendidamente attuali e valide: “Sentimento di solitudine, fin dall’infanzia. Nonostante la famiglia, – e fra i compagni di scuola, soprattutto, – sentimento di destino eternamente solitario. Eppure, gusto molto vivo della vita e del piacere”.

“Nessuno è molto serio quand’ha diciassette anni. / I caffè strepitanti dalle luci splendenti, / Le bibite e le birre d’improvviso t’annoiano, / E allora vai a spasso per il viale dei tigli”. Solamente il genio di Arthur Rimbaud poteva compendiare in quattro versi, freschi e perfetti come un celeste mattino di inizio primavera, una delle contraddizioni più vistose dell’adolescenza: il desiderio di compagnia e il bisogno di solitudine. Sotto questo aspetto, poco o nulla è cambiato da allora (era il mese di settembre del 1870, il poeta di Charleville fuggiva per la prima volta da casa e raggiungeva Parigi, la guerra franco-prussiana iniziava a fare i suoi morti). Ciò non significa, ovviamente, che nel frattempo non abbiano subito delle trasformazioni sia il modo di vivere il divertimento in gruppo sia la maniera di fare esperienza della solitudine: il progresso, infatti, non solo cambia la fisionomia delle città, ma muta anche abitudini e comportamenti. Ad esempio, negli anni Ottanta il trascorrere il tempo libero coi propri coetanei, formando grandi compagnie, stando seduti sulla sella della propria vespa e ascoltando la musica che usciva dalle casse poste nel bauletto della stessa, costituiva per molti di noi la forma più piena e appagante dello stare insieme. In questo Terzo Millennio, invece, le strade e le piazze sono tornate ad essere per lo più un luogo di passaggio, di transito, non di una sosta splendidamente lenta e pigra.

Anche il volto della solitudine mostra tratti differenti rispetto al recente passato, se è vero che questa da privata si è fatta pubblica, da nascosta è divenuta manifesta. A lungo, infatti, la solitudine è stata esperita e vissuta, anche dai giovani, secondo due modalità principali, che hanno trovato nel “Canzoniere” di Francesco Petrarca la loro espressione letteraria più compiuta. Da un lato, si è avuta la ricerca di luoghi naturali isolati, non frequentati da altre persone (“Solo et pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi et lenti”); dall’altro, si è avuto il rifugiarsi nel segreto della propria stanza, della propria camera, lontano dalla curiosità degli altri uomini (“O cameretta che già fosti un porto / a le gravi tempeste mie diurne”). Poi, negli ultimi anni, a queste due modalità di stare soli se ne è aggiunta una terza: quella di esserlo stando in mezzo alla folla, di esserlo mentre si siede a tavola in famiglia, di esserlo mentre con gli amici si ritorna da scuola, di esserlo mentre si aspetta alla fermata l’autobus, di esserlo mentre si attende l’inizio del concerto. Da questo punto di vista, il senso di separazione e di chiusura che afferra i giovani mentre attraversano una vociante piazza cittadina non è diverso da quello che provano percorrendo un sentiero montano o stando sdraiati sul loro letto, con lo sguardo fisso al soffitto.

Dapprima, alla metà degli anni Ottanta, la commercializzazione di walkman a prezzi contenuti, successivamente l’invenzione del telefono cellulare e, soprattutto, la sua continua evoluzione (il passaggio dal segnale analogico a quello digitale, la grafica sempre meglio definita, le fotocamere integrate, il miglioramento dei componenti audio, la facoltà offerta agli utenti di navigare in Internet e di gestire la posta elettronica) costituiscono i fattori di questa “pubblicizzazione” della solitudine. La possibilità di ascoltare musica mentre si è a passeggio e di comunicare attraverso i social network hanno finito per ritagliare al giovane uno spazio, nel quale ci si allontana dagli altri e dal mondo, pur continuando a restare in mezzo agli altri e in mezzo al mondo. Seduti sulla panchina di un giardino, infatti, o nella sala di attesa della stazione, ragazzi e ragazze, sebbene legati da amicizia, anche profonda, si ignorano l’uno con l’altro, mentre gli occhi fissano il monitor del cellulare o dello smartphone e le dita scorrono veloci sulla tastiera, perché se proprio si deve parlare, allora meglio farlo con chi è lontano, magari a migliaia di chilometri: la relazioni “in assenza” s’impone su quella basata sulla vicinanza fisica.
Eppure anche questo rifiuto – così moderno, così nuovo –  del contatto diretto, la si deve continuare a chiamare solitudine e non isolamento, tenendo presente la fondamentale differenza che intercorre tra queste due esperienze, e che lo psichiatra Eugenio Borgna ha con grande chiarezza, e a più riprese, evidenziato. Nei giovani, infatti, si conserva intatto lo slancio vitale, permane l’apertura all’altro-da-sé, il futuro seguita a elargire il dono dell’attesa e della speranza, laddove l’isolamento rinviene le sue caratteristiche di fondo nella chiusura al mondo e nel dilagare della dimensione del presente, presente ghiacciato, presente pietrificato e pietrificante. Sulla scia delle note di una canzone o in virtù delle immagini di un video, gli adolescenti sanno, oggi come ieri, sognare, sanno riflettere sul perché l’amore e le parole possono anche fare male, sanno scendere nel profondo di se stessi, dove è possibile distinguere le cose che contano da quelle che non hanno importanza alcuna. D’altra parte, la natura umana è fatta (anche) di costanti e la compresenza nello stesso individuo di desiderio di relazione e di desiderio di solitudine è una di queste. Ecco perché le parole di Baudelaire restano splendidamente attuali e valide: “Sentimento di solitudine, fin dall’infanzia. Nonostante la famiglia, – e fra i compagni di scuola, soprattutto, – sentimento di destino eternamente solitario. Eppure, gusto molto vivo della vita e del piacere”.
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Francesco Ricci

Francesco Ricci

(Firenze 1965) è docente di letteratura italiana e latina presso il liceo classico “E.S. Piccolomini”di Siena, città dove risiede. È autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento, tra i quali ricordiamo: Il Nulla e la Luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento (Siena, Cantagalli 2002), Alle origini della letteratura sulle corti: il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Siena, Accademia Senese degli Intronati 2006), Amori novecenteschi. Saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Pavese, Bertolucci (Civitella in Val di Chiana, Zona 2011), Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, scritto con lo psicologo Silvio Ciappi (Firenze, Mauro Pagliai 2011), Un inverno in versi (Siena, Becarelli, 2013), Da ogni dove e in nessun luogo (Siena, Becarelli, 2014), Occhi belli di luce (Siena, Nuova Immagine Editrice, 2014), Tre donne. Anna Achmatova,...

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