Gli spettri della Russia odierna nel romanzo distopico di Vladimir Sorokin

Luigi Oliveto

31/03/2022

Da oltre un mese è in atto una guerra fratricida della Russia di Putin contro l’Ucraina. Su un evento così drammatico nel cuore dell’Europa si fanno analisi e dibattiti. Talvolta le argomentazioni trovano sponda nella letteratura contemporanea di quei Paesi. Esperienze letterarie che hanno un discrimine storico-temporale ben preciso: l’anno 1991. Quando, con il crollo dell’Unione Sovietica, gli scrittori divengono (quasi) liberi da censure e dai canoni del realismo socialista. Possono così affrontare temi fino allora proibiti quali certi trascorsi storici (come lo stalinismo) o più attuali e dirompenti argomenti di natura sociale. Del resto sappiamo bene quali prezzi (repressione, violenza, esilio) abbiano dovuto pagare scrittori e intellettuali russi, prima con lo zarismo, poi con l’Unione Sovietica. E ancora oggi nella finta democrazia putiniana. Tra i titoli che in queste settimane vanno riproponendosi all’attenzione, il romanzo di Vladimir Sorokin “La giornata di un oprichnik” (2006) pubblicato in Italia da Atmosphere Libri con la traduzione di Denise Silvestri. Romanzo distopico in cui si immagina una Russia del 2027 risorta alle grandezze imperiali del passato, isolata dal resto del mondo, difesa da un grande muro che, attraverso il Caucaso, raggiunge i confini della Cina. La monarchia dunque è stata restaurata con una rivoluzione neozarista. Il protagonista, Andrej Komjaga, è un membro della polizia segreta. Un opricnik, come si chiamavano le guardie personali di Ivan il Terribile, temutissime per le crudeltà di cui erano capaci. Gli opricnik del 2027 sono gli agenti scelti di un nuovo Stato repressivo. Viaggiano su Mercedes russe, bevono champagne, frequentano saune, assumono droghe, organizzano orge e stupri, ascoltano Rachmaninov e in tal caso si commuovono. Questo raccontano le pagine di Sorokin descrivendo, appunto, la folle giornata di un opricnik. L’autore, ovviamente, esagera. Secondo la migliore tradizione letteraria russa (Gogol e Bulgakov su tutti) ricorre alla chiave satirica, grottesca. Utilizza una lingua che mette insieme il gergo del business, il linguaggio politico della Russia imperiale e della propaganda sovietica con espressioni della tradizione popolare. Un romanzo profetico? Indubbiamente un libro che evoca i molti spettri della Russia odierna.
 
***
 
Sempre lo stesso sogno: io che attraverso un campo sconfinato, un campo russo, che si estende oltre lorizzonte. Scorgo davanti a me un cavallo bianco, punto verso di lui. Mi rendo conto che non è un cavallo come tutti gli altri, è il cavallo dei cavalli, bello, incantatore, lesto di gambe. Affretto il passo ma non riesco a raggiungerlo, cammino più veloce, grido, lo chiamo, capisco allimprovviso che è tutta la mia vita, il mio destino, tutta la mia fortuna, che quel cavallo mi serve come laria, corro, corro, gli corro dietro, ma lui continua ad allontanarsi, senza far caso a niente e a nessuno, se ne va per sempre, se ne va da me, se ne va per leternità, se ne va allinfinito, se ne va via, va, va, va...
 
Mi sveglia il cellulofono.
Un colpo di frusta, un grido.
Un altro colpo, un gemito.
Un terzo colpo, un rantolo.
Lo ha registrato Pojarok al Dicastero degli Affari Segreti, mentre torturavano un voivoda dell’Estremo Oriente. Una suoneria che risveglierebbe anche i morti.
Appoggio il cellulofono freddo all’orecchio caldo per il sonno.
“Komjaga”.
“Salute a lei, Andrej Danilovič. Sono Korostylev, perdoni il disturbo”. A rianimarmi è la voce del vecchio scrivano del Dicastero delle Ambasciate, il suo inquieto grugno baffuto parte dal cellulofono e compare subito in aria.
“Che le serve?”
“Mi permetto di ricordarle che il ricevimento presso l’ambasciatore d’Albania è previsto per questa sera. È richiesta la presenza dei dodici”.
“Lo so” borbotto infastidito, anche se a dir la verità me l’ero dimenticato.
“Scusi il disturbo. Era mio dovere”.
Riappoggio il cellulofono sul comodino. Perché diavolo mi ricorda che è richiesta la presenza dei dodici uno scrivano del Dicastero delle Ambasciate? Ah, già... adesso sono loro, quelli del Dicastero, a dirigere il rito dell’abluzione delle mani. Me l’ero scordato...
Tiro giù le gambe dal letto e scrollo il capo senza nemmeno aprire gli occhi: dopo ieri notte ho la testa ancora pesante. Trovo a tastoni la campanella, la scuoto. Sento oltre la parete Fed’ka saltare giù dalla brandina, affaccendarsi, far tintinnare le stoviglie. Resto seduto con il capo chino non ancora pronto a ridestarsi del tutto: ieri mi è capitato di darci dentro di nuovo alla stragrande, sebbene avessi giurato di bere e tirare solo con i nostri, fatto novantanove inchini di penitenza alla Cattedrale della Dormizione e pregato san Bonifacio. Tutto gettato al vento! È più forte di me: al boiardo Kirill Ivanovič non so dire di no. È intelligente, sa dispensare consigli saggi. E, a differenza di Pojarok e Sivolaj, io do molta importanza a chi dà prova di grande intelligenza. Ascolterei i saggi discorsi di Kirill Ivanovič all’infinito, ma senza la sua neve è poco loquace...
Entra Fed’ka:
“Salute a lei, Andrej Danilovič”.
Apro gli occhi.
Fed’ka tiene in mano un vassoio. Come sempre la mattina, ha il muso stropicciato e goffo. Sul vassoio è posato il classico contenuto dei postumi di una sbronza: un bicchiere di kvas bianco, un bicchierino di vodka, mezzo bicchiere di salamoia di cavoli. Bevo la salamoia. Sento il naso pizzicarmi, gli zigomi si contraggono in una smorfia. Espiro, mi rovescio la vodka in bocca. Mi spuntano le lacrime: per un attimo il muso di Fed’ka si fa indistinto. Mi torna in mente quasi tutto: chi sono, dove mi trovo e perché. Indugio, inspirando con cautela. Smorzo la vodka bevendoci sopra il kvas. Passa un minuto di Somma Quiete. Mollo un rutto sonoro, simile a un gemito cavernoso. Mi asciugo le lacrime. Adesso riaffiora alla mente tutto.
Fed’ka afferra il vassoio, si piega su un ginocchio e mi porge il braccio. Mi appoggio a lui per alzarmi. La mattina Fed’ka ha un odore più sgradevole che la sera. È questa la verità del suo corpo, non c’è nulla da fare. Frustarlo non serve a niente. Mi sgranchisco e, gemendo piano, mi avvicino all’iconostasi, per poi accendere il lume e inginocchiarmi. Recito le preghiere del mattino e faccio gli inchini. Fed’ka rimane in piedi dietro di me, sbadiglia e si fa il segno della croce.
Dopo aver pregato, mi alzo appoggiandomi a lui. Vado in bagno. Mi lavo la faccia con acqua del pozzo appena raccolta: vi nuotano dentro pezzettini di ghiaccio. Mi osservo allo specchio: ho il viso leggermente più gonfio, un decoro di venuzze blu sul naso, i capelli arruffati. E un principio di canizie sulle tempie. Un po’ presto per la mia età. Il nostro è un mestiere così, non c’è nulla da fare. Si tratta di un compito statale gravoso...
Espletati i bisogni corporali, entro nella Jacuzzi, inserisco il programma, adagio il collo sull’appoggiatesta caldo e comodo. Guardo l’affresco sul soffitto: fanciulle intente a raccogliere ciliegie in un giardino. È rilassante. Osservo le gambe delle ragazze, il cestino con le ciliegie mature. L’acqua riempie la vasca, l’aria fa montare la schiuma e mi ribolle intorno al corpo. La vodka dentro e la schiuma fuori mi risvegliano lentamente. Dopo un quarto d’ora, il ribollio si interrompe. Resto sdraiato ancora un po’. Premo un pulsante. Entra Fed’ka con un lenzuolo e un accappatoio. Mi aiuta a uscire dalla Jacuzzi, mi asciuga con il lenzuolo e mi imbacucca nell’accappatoio. Vado in sala da pranzo. La Tanjuška sta già servendo la colazione. Sulla parete opposta c’è la bolla delle notizie. La comando con la voce:
“Notiziario!”
Si accende: brilla la bandiera della Nazione azzurro-bianco-rossa con l’aquila dorata a due teste, risuona il campanile di Ivan il Grande. Bevo un sorso di tè al lampone, guardo le notizie: di nuovo ruberie da parte di scrivani e rappresentanti degli zemstvo nel tratto nord-caucasico del Muro Meridionale, il Gasdotto dell’Estremo Oriente resterà sbarrato fino alla supplica dei giapponesi, i cinesi stanno espandendo i loro insediamenti a Krasnojarsk e a Novosibirsk, continua il processo ai cambiavaluta della Tesoreria degli Urali, per il compleanno del Sovrano i tatari costruiranno un palazzo intelligente, i cervelloni dell’Accademia delle Cure stanno portando a termine una ricerca sul gene dell’invecchiamento, i suonatori di gusli di Murom daranno due concerti a Pietrabianca, il conte Trifon Bagrationovič Golicyn ha massacrato la giovane moglie, a San Pietrogrado sulla Sennaja non sono previste fustigazioni per gennaio, il rublo è salito di mezzo copeco sullo yuan.
Tanjuška mi serve frittelle di ricotta, rape al miele cotte al vapore, gelatina. A differenza di Fed’ka, Tanjuška ha un bell’aspetto e un buon odore. Il fruscio delle sue vesti è piacevole.
Il tè carico e la gelatina di ossicocco mi riportano definitivamente alla vita. Sono avvolto in un sudore salutare. Tanjuška mi porge un asciugamano ricamato da lei. Mi asciugo il viso, mi alzo da tavola e, fatto il segno della croce, ringrazio il Signore per il cibo.
E’ ora di mettersi all’opera.
 
[da La giornata di un oprichnik di Vladimir Sorokin, trad. di Denise Silvestri, Atmosphere Libri, 2006]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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