22/06/2012
Quando vidi per la prima volta quella pergamena scritta a mano, miniata, dai colori sgargianti e dai caratteri ebraici o forse aramaici minuti e perfetti rimasi incantato per ore e ore. Giravo e rigiravo fra le mani quel pezzo di storia antica, talmudica, intarsiato di riti e di tradizioni millenarie. Un documento ampolloso per la sua magnificenza e al contempo semplice per gli ornamenti disegnati da normali matite colorate. La sua matrice arcaica strideva con quel timbro rotondo e moderno della Comunità ebraica di Napoli e con quella data che, riportata al calendario gregoriano, cadeva il 2 dicembre 1946. Era la “ketubah” dei miei genitori. Custodita con amore e attenzione come si fa con le cose preziose della vita. È il contratto di matrimonio. Documento essenziale dell’unione nuziale ebraica. Lì ci sono scritte in maniera evidente i doveri coniugali e gli impegni economici. Nulla è lasciato al caso e tutto è descritto. Nel Talmud, testo che custodisce le norme e le tradizioni ebraiche, si dice che la cifra debba essere di almeno 200 “zuz” e con quella somma la donna ci avrebbe potuto campare almeno un annetto, in caso di morte del marito o di divorzio. Ma le obbligazioni non sono solo di carattere economico. Nella “ketubah” sono esposti tutti i diritti della moglie e le obbligazioni del marito: provvedere al cibo, ad una casa, agli abiti e all’appagamento sessuale. È come un contratto di carattere notarile, firmato dagli sposi e controfirmato dai testimoni che non devono avere alcuna consanguineità con i nubendi. È in sostanza il vero e proprio certificato di matrimonio ebraico e sancisce i principi organizzativi della nuova famiglia in formazione. Sotto il baldacchino nuziale, dopo aver messo l’anello all’indice della mano destra della sposa secondo la legge di Mosè e d’Israele lo sposo porge la “ketubah” all’amata che, come tradizione di molte fedi religiose, consegna tutto alla mamma, che in quanto ai quattrini, spesso ne sa più di tutta la famiglia. Il marito si impegna così per sé e per i suoi eredi, per ciò che ha e che avrà, fino a farsi prelevare se dovesse servire, dice la liturgia, il mantello che porta indosso in vita e in morte.
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