I giovani e la famiglia nell’epoca della confusione generazionale

Francesco Ricci

12/12/2016

Per chi insegna, la gita scolastica e il tema di italiano costituiscono due occasioni importanti per conoscere a fondo i pensieri degli studenti. La gita, infatti, coi suoi tempi dilatati – rispetto alla normale ora di lezione – e con il clima di confidenza che favorisce tra alunni e docenti, consente di toccare anche quegli argomenti che, almeno il più delle volte, in classe non vengono affrontati. Il tema d’italiano, se concepito come una riflessione intorno alle inquietudini e agli stati d’animo degli adolescenti o alle contraddizioni della società, permette di fermarsi, di ritagliarsi uno spazio proprio di libertà, dove la pagina bianca acquista un significato, che trascende quello di semplice palestra dello scrivere in modo corretto per farsi punto di partenza per scandagliare il proprio Io o per gettare uno sguardo meno frettoloso e distratto del solito su tutto ciò che ci circonda e, mentre ci circonda, ci plasma, ci struttura, ci influenza. Insomma, il consiglio che Pier Vittorio Tondelli rivolgeva agli aspiranti giovani scrittori a me sembra costituire anche un buon punto di partenza per redigere (formulare) le tracce di un tema: “Scrivete non di ogni cosa che volete, ma di quello che fate. Astenetevi dai giudizi sul mondo in generale (…). Raccontate i vostri viaggi, le persone che avete incontrato all’estero, descrivete di chi vi siete innamorati (…). Raccontate di voi, dei vostri amici, delle vostre stanze, degli zaini, dell’università, delle aule scolastiche”.

Nelle conversazioni avute nel corso delle gite, alcune per me davvero indimenticabili, come leggendo quell’intimo colloquio con se stessi che è (dovrebbe essere) il compito di italiano, la famiglia, tanto la famiglia di origine, quanto la famiglia che un giorno andranno a formare, continua a emergere come uno degli argomenti che stanno più a cuore (una delle preoccupazioni di fondo) ai nostri giovani. Per quanto concerne il primo aspetto (la famiglia di origine), il figlio-Edipo, il figlio cioè che conduce “una lotta a morte con il padre”, secondo la definizione che ne ha dato Massimo Recalcati ne “Il complesso di Telemaco”, appare sempre più raro, appare sempre più un’eccezione. A partire dagli anni Ottanta, infatti, col progressivo venir meno perfino del ricordo delle grandi contestazioni del 1968 e del 1977, il conflitto tra le generazioni ha lasciato il posto alla confusione tra le generazioni: l’identità del vestire, dell’esprimersi, del cercare amicizie su Facebook, del far coincidere immaturità e felicità, tradisce una medesima concezione del mondo. È, la nostra, l’epoca del figlio-Narciso, il quale, osserva sempre Recalcati, “si rispecchia nel genitore-figlio e viceversa”. Ma là dove eccessiva risulta la prossimità di ruoli, al punto che questi appaiono interscambiabili, è l’idea stessa del limite, incarnata dal genitore, a venir meno, con la conseguenza che il bambino prima, l’adolescente poi, crescerà incapace di affrontare gli ostacoli, i vuoti, le difficoltà di cui è tramato il nostro vivere. Da qui discende, secondo il noto psicoanalista milanese, la necessità di ripensare anche tali figure di figlio e di genitore.

Per quanto concerne, invece, il secondo aspetto (la famiglia che i giovani formeranno, una volta divenuti adulti), il dato che più colpisce è il desiderio di maternità da parte delle ragazze. Per loro, infatti, vedersi un giorno all’interno di una relazione di coppia significa vedersi con dei figli (preferibilmente due). Possono essere sostanzialmente indifferenti alla natura del legame che stringeranno (matrimonio religioso, matrimonio civile, convivenza). Possono essere fondamentalmente scettiche sulla durata della loro storia d’amore, molte volte percepita come incapace di schiudere un cammino lungo un’esistenza intera. Non hanno dubbi, però, sul fatto che un giorno saranno madri, saranno delle buone madri.  È come se la maternità, questa “grande figura dell’attesa”, come la definisce Recalcati in apertura del suo intenso “Le mani della madre”, finisse col compendiare ogni altro “tendere verso” di cui sono costellati i loro giorni di vita. Dico di proposito compendiare, non attenuare, non cancellare. Le giovani di oggi, infatti, sono giustamente lontanissime dall’idea che la madre possa esaurire la donna, sono orgogliose della loro libertà (anche sessuale) e sono sicure che, quando si parla di formazione universitaria e di lavoro, nessuna meta sia loro preclusa: per loro pensarsi in futuro è pensarsi dotate di un’identità plurima. Di conseguenza, la realizzazione in campo professionale e la maternità non vengono vissuti come due obiettivi inconciliabili, che si escludono, cioè, a vicenda. La cosa importante è saper pianificare e pianificare comporta che si sappia aspettare. Non è un caso che l’età media in cui una donna diventa madre in Italia sia oramai, al primo parto, di trentuno anni.

I maschi, invece, faticano maggiormente a immaginare un possibile modello familiare. Sicuramente pesa su di loro la stagnazione economica, la dolente e inibente percezione del futuro come minaccia e non più come promessa, la difficoltà nel trovare un impiego stabile e ben remunerato (“è l’uomo”, si sente ancora dire, “che deve mandare avanti la famiglia”), il costo elevato degli affitti e il non avere facile accesso al credito bancario per poter acquistare un alloggio. Ma scontano pure gli effetti del modello paterno egemone negli ultimi decenni, quello, come si è visto, che alleva un figlio-Narciso, tenendolo sì al riparo dal conflitto (in primis generazionale), dal dolore, dal traumatico incontro con il reale, dal senso di colpa, ma senza riuscire a proporsi come un genitore adulto, vale a dire come un genitore che si prende cura del proprio figlio e assume tutte le conseguenze delle proprie azioni. L’assenza (simbolica) del padre non può che generare figli che un giorno saranno padri altrettanto assenti o che si sottrarranno completamente alla responsabilità di essere padri. 
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Francesco Ricci

Francesco Ricci

(Firenze 1965) è docente di letteratura italiana e latina presso il liceo classico “E.S. Piccolomini”di Siena, città dove risiede. È autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento, tra i quali ricordiamo: Il Nulla e la Luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento (Siena, Cantagalli 2002), Alle origini della letteratura sulle corti: il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Siena, Accademia Senese degli Intronati 2006), Amori novecenteschi. Saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Pavese, Bertolucci (Civitella in Val di Chiana, Zona 2011), Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, scritto con lo psicologo Silvio Ciappi (Firenze, Mauro Pagliai 2011), Un inverno in versi (Siena, Becarelli, 2013), Da ogni dove e in nessun luogo (Siena, Becarelli, 2014), Occhi belli di luce (Siena, Nuova Immagine Editrice, 2014), Tre donne. Anna Achmatova,...

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