Il bosco delle streghe (prima parte)

Marco Vichi

13/03/2020

Amor segretamente imperversando lungimirando vieta indegno amore
(Anonimo di epoca sconosciuta) 

«Senti un po’, ragazzo, non ho inteso bene la domanda, ma forse non è colpa mia, parli come se tu avessi un topo in bocca, quel vino che butti giù stacci attento, non te lo fare troppo amico, dammi retta, che poi sennò ti s’ammollano le gambe e a casa ti riportano col carro, lascia stare me che sono avvezzo, ne ho visti grandi e grossi andare in terra come stracci, roba da far pena, s’arrabattavano a rialzar le ossa coll’unico guadagno di ritornare con la bocca in terra... Bene, vedo che di darmi retta ti va meno che meno, comunque fatti tuoi, ma se ti piace d’essere capito, allora mettici del tuo che d’altrimenti si fa come fra sordi...».
 
Era una domenica di novembre, una domenica triste, non mi va nemmeno di ricordare come mai. Ero salito in macchina con l’idea di andare lontano, in un posto sconosciuto. Dopo qualche ora di curve tra le colline avevo trovato quelle quattro case in cima a un cocuzzolo e mi ero fermato. Non ne potevo più di guidare. Stava facendo buio, e una delle quattro case era un’osteria. Avevo spinto la porta sperando di trovare un po’ di pace, e l’avevo trovata. Una grande stanza tiepida, qualche tavolo e poca gente, anche poca luce, come piaceva a me. L’oste era grasso, e nell’aria si sentiva un forte odore di legna bruciata. Un ceppo di olivo grande come un cucciolo di cane bruciava in un camino immenso con dentro dei ripiani di mattone per sedersi, alla maniera contadina. Sulla cappa era appeso il muso feroce di un cinghiale, e sulla brace fumava una rosticciana intera circondata da salsicce. Non avevo sperato di meglio. In fondo alla sala avevo visto un vecchio con un fiasco sul tavolo e il cappello in testa, aveva un’aria metà contadina e metà risorgimentale, e mi ero seduto davanti a lui. Avevo ordinato un mezzo litro di rosso. Buttare il tempo non mi era mai piaciuto, e dopo due bicchieri avevo chiesto al vecchio se gli andava di raccontarmi una storia, una qualunque che fosse degna di essere ascoltata, ma il vecchio non aveva capito, si era preso la barba in mano e aveva aperto la bocca mezza sdentata.
 
«Te ne stai seduto su quella scranna da mezz’ora, fermo come un orcio e con la faccia buia, non che siano fatti miei ma tanto allegro non mi sembri, te lo dico io. Poi di botto vieni fuori a far domande e come se non bastasse non si capisce un fico».
Ripetei la mia richiesta sforzandomi di parlare chiaro, e finalmente lui capì. Fece ondeggiare il capo e prese la pipa dalla bisaccia, l’accese e tirò una decina di boccate in fila facendo un gran fumo. Sulle guance ossute aveva un’infinità di venuzze rosse che gli salivano verso gli occhi come un rampicante, e due orecchie grandi e un po’ deformi gli sbocciavano tra i capelli folti e grigi. Sotto la giacca logora portava una camicia a righe, e stretto al collo un fazzoletto sporco.
 
«Ho capito, sei uno di quelli che vengono dalla città a far le passeggiate in campagna, non ne potete più di respirare il puzzo e venite fin quaggiù a far provvista d’aria fina, però guarda che secondo me non ti serve a nulla, te lo dico io, un’ora d’aria alla settimana è meno che in gattabuia, ma non ti dico nemmeno che il meglio per te sia di venir fisso in campagna, perché voi di città a vedere i campi sotto la pioggia e a sentire il silenzio della notte vi mettete a piangere, vi piace il sole tutto l’anno e gli schiamazzi, e non vedete l’ora di ritornare a casa, è una faccenda che non ci trovi l’uscita, te lo dico io, comunque lasciamo stare, vuoi che ti racconti qualcosa e io te la racconto, di storie ne so tante da far pieno il capo, ma se mi metto a chiacchiera il motivo è uno, e te lo voglio dire, perché sennò magari credi che in vita mia non abbia fatto altro che raccontare storie ai forestieri, ma invece non è vero, mi son sempre tenuto tutto per me e non mi pento, ma ormai sono in là cogli anni, se continuo così tra poco mi porto tutto sottoterra, e la cosa non mi va, a pensarci mi viene la malinconia, ci ragionavo giusto l’altro giorno, ci sono delle storie che se non le racconto io non le sa più nessuno o giù di lì, i più vecchi son quasi tutti al camposanto, e i giovani di faccende così gl’importa meno che di soffiare il naso alle galline, e se vuoi te ne racconto una, ma avanti di principiare ti voglio dire una cosa, o mi stai a sentire fino alla fine o non se ne fa di nulla, e se si fa tardi è lo stesso, a me le cose a mezzo mi fanno uggia, mi fanno come avere un osso di pollo fermo in gola, allora siamo d’accordo?».
 
Feci di sì con la testa, e buttai giù un altro bicchiere. Il vecchio socchiuse gli occhi e appoggiò la schiena al muro. Alle mie spalle sentivo le risate grasse dell’oste, i litigi usuali e amichevoli di vecchi giocatori di carte. Qualcuno entrò nel camino a girare le salsicce, e buttò nella brace una gran quantità di patate e cipolle avvolte in foglie di cavolo. Una voce nuova entrò nell’osteria, dicendo che fuori si metteva a brutto, ancora mezz’ora e sarebbe venuta giù un’acqua che nemmeno, coi tuoni e tutto, disse. Poi si fece dare un mazzo di carte e andò a sedersi da solo aspettando la cena. Il vecchio davanti a me sembrava addormentato, a parte la pipa che fumava a intervalli regolari, ma a un tratto si animò e si riempì il bicchiere.
 
«Un’altra cosa però te la voglio dire, se a questa storia non ci credi stattene zitto e tientelo per te, perché non c’è di peggio che dire il vero e poi c’è uno che gli sembrano panzane, io mi conosco e va a finire che mi faccio il sangue cattivo, allora siamo d’accordo?».
Risposi ancora di sì, sempre a cenni. Avevo la mente un po’ annebbiata per il vino, e avrei creduto a qualunque cosa. Speravo che fosse una storia antica e misteriosa, e che non finisse mai. Sapevo che prima o poi mi sarebbe venuta una gran fame, e a quanto pareva ero capitato nel posto giusto dove farsela passare con piacere. Il vecchio si era di nuovo immobilizzato, a parte la solita pipa. Cominciò a parlare senza muoversi e senza aprire gli occhi, come se dovesse inseguire la storia che gli scorreva in mente senza nulla che lo disturbasse.
 
«Son passati tanti di quegli anni che a pensarci mi par d’essere vecchio come il cucco, non era molto che Mussolini aveva preso il treno per Roma, ma mi vedo tutto chiaro come fosse ieri, certe cose non te le mandi via dalla testa nemmeno con cent’anni di grappa, a quei tempi ero un bamboccio coi ginocchi sempre sbucciati a sangue, coi compagni si giocava a far le lotte sull’aia e come nulla si cascava in terra, poi un giorno si decise di andare al Bosco delle Streghe per giocare a nascondarella, il Bosco delle Streghe è quella collina bassa dietro la chiesa, si chiama così da sempre, i nonni raccontavano che ai loro tempi ci si vedeva di notte certe fumate strane che puzzavano di zolfo, venivano proprio dalla radura che c’è in mezzo, e quelli che ci passavano la mattina dopo trovavano qua e là dei pezzetti d’osso e figure strambe disegnate nella terra, questo sempre a credere a quei racconti, che però noi più piccoli ci credevamo eccome, e ci faceva venire la pelle d’oca e la notte si sognava cose paurose, insomma una volta si decise di andare proprio là, non si disse nulla a nessuno e si partì in quattro o cinque, la paura c’era a palate, ma era proprio quello che si cercava, e insomma ancora prima di arrivare al bosco ci veniva un pizzicore allo stomaco che però ci faceva ridere, come un vuoto nella pancia che si riempie piano piano di formiche, a tutti uguale, e insieme si sudava e si respirava grosso, man mano che entravamo nel fitto il pizzicore diventava più forte e per farci animo ci si parlava sottovoce, ma la paura non era tanto per le streghe dei nonni, che a dirla giusta ci facevano più effetto a pensarci la sera a letto che di giorno all’aria aperta, e insomma erano roba dei tempi antichi e ci faceva strizza solo per divertimento, ma il fatto è che da quando eravamo nati si sentiva raccontare di un certo vecchio che passava spesso in quel bosco, uno che c’era poco con la testa e che non si sapeva di preciso dove viveva, chi diceva in una caverna, chi diceva sotto terra, ma tutti giuravano che aveva un muso orribile, e che trovarselo davanti era da rimanerci secchi, i più maligni dicevano ai bambini di starci attenti più degli altri, perché quel matto appariva dal nulla e ai piccolini gli strappava il naso e la lingua, ma gratta gratta era più per non farci andare alle Streghe che per cattiveria, perché quel bosco era pieno di trappole della natura, diversi anni prima eran successe disgrazie proprio a dei mocciosi, chi caduto in un fosso, chi nel torrente, e qualcuno c’era anche morto, ma noi a queste cose non ci si faceva caso, ci sentivamo grandi, e poi non ci si andava da soli ma in combriccola, e questo per un ragazzino non è da poco, dico il non esser soli a far qualcosa che non si dovrebbe fare, anche te sarai d’accordo...
 
E insomma dopo una bella scarpinata si arriva alla radura, per noi era la prima volta, ci si sentiva come Colombo alle Americhe, proprio nel centro della collina c’era uno spiazzo calvo, con una pietra nera scolpita giro giro per potersi mettere a sedere, e davanti c’era un’altra pietra sempre nera ma piatta, che sembrava messa a far da tavolo, dappertutto in terra cartucce da caccia e mozziconi, e anche i resti di un focherello, insomma invece delle streghe dovevano venirci in parecchi a sparare ai passerotti, a noi però quel posto ci sembrò lo stesso pieno di mistero, ci piaceva più d’aver paura che di mettersi a contare le cartucce, e se la paura scemava ci si pensava noi a rinfocolarla... E allora a dirci com’era strano quel sasso, o quella penna di fagiano, e i resti del focherello diventavano il foco delle streghe, insomma si giocava a farci venire il pizzicore alla pancia, a turno ci s’inventava cose paurose e si faceva a gara a chi le pensava più brutte, era per scherzo ma chi sparava la sua s’impauriva più degli altri, di giocare a nascondarella nessuno aveva più parlato, far gara di spavento era molto meglio, si grufolava tra i sassi a cercar tracce di magia, si razzolava come i polli, chi trovava qualcosa lo diceva a tutti, e in quel momento era come fosse lui il più importante... Uno diceva di correre a vedere, che nei resti del focherello aveva trovato il dito di un neonato, e tutti lì a guardare, e poi a dargli pacche in testa perché non era un dito ma un legnetto bruciacchiato, e insomma si continuò a far guerra di frottole per un sacco di tempo, in un’ora si trovò più denti di lupo e topi infilzati che coccole di cipresso, piano piano si prese famigliarità col posto e si diventò sempre più chiassosi, si andava su e giù tra quei sassi e ci pareva di pestare dove avevano pestato le streghe, poi ci si stancò e ci si mise seduti col fiato grosso, però si faceva lo stesso a spintoni e ognuno canzonava i compagni dicendo che si erano pisciati sotto, e intanto si vedeva che tutti si rimuginava di come far spavento agli altri quattro, ma uno spavento grosso da rizzare i capelli, sempre per scherzo si capisce, ma i ragazzini a volte perdono la misura, e a me venne in mente di dire che era tardi, dovevo andare a casa e ci andavo da solo, dissi, ma la verità era che volevo nascondermi dietro un albero, aspettare di veder passare i miei compagni e uscire fuori urlando, magari con una frasca davanti per non farmi riconoscere, e già ridevo all’idea di vederli stramazzare in terra bianchi come cenci, e insomma così feci, dissi che dovevo tornare in fretta a casa e me ne andai, appena fuori dalla vista mi nascosi nel fitto che cresceva ai bordi del sentiero, presi una frasca grande abbastanza da coprirmi tutto e mi misi dietro il tronco di un cipresso, con gli orecchi dritti, però non avevo messo in conto che loro erano ancora in gruppo e io invece ero solo, e a un tratto mi prese una pelle d’oca che gli spaventi di prima erano robucce da far dormire le bambine, m’immaginavo dieci streghe che scendevano giù dagli alberi, poi mi sembrò di sentire il fiato grosso di un cane, e poi qualcuno che camminava zoppo e mugugnava, e un fottìo di altre cose che un ragazzino ci sta male solo a pensarle, però mi facevo forza e resistevo, non volevo fare la figura del doddo che prepara la padella e ci rimane cucinato, ma più mi provavo a restare calmo e più mi si scaldava la testa, il cuore mi rintronava negli orecchi come un tamburo da circo, ma di lì a poco il cielo sarebbe imbrunito e non doveva mancare molto che gli altri tornassero a casa, e invece non tornavano, aspettavo e non vedevo nessuno, e nemmeno le voci si sentivano più, allora mi prese lo spavento che fossero già andati via per un’altra strada e che io fossi rimasto da solo in quel bosco, alla fine non ce la feci più, uscii da dietro l’albero e mi misi a correre verso il piazzale delle Streghe, ma non avevo fatto venti sgambate che dal fitto sbuca sul sentiero un pezzo d’uomo tutto peloso, e da quanto correvo gli vado quasi a sbattere addosso... Insomma non erano balle, ce l’avevo davanti, voglio dire il matto che viveva nel bosco, non poteva essere che lui, era fermo in mezzo al viottolo e arreggeva in mano una pelle di coniglio... Brutto era brutto, un naso enorme e sudicio che pareva un fungo, gli occhi neri sprofondati nel capo, e puzzava come un bastone da pollaio, ma a far paura per davvero era tutto nell’insieme, il cappellaccio nero, i vestiti sbrindellati, i piedi nudi incalliti, e quella pelle di coniglio che si rigirava in mano come una frusta, per dirla corta mi pareva d’essere dinanzi a un diavolaccio dell’inferno, non sapevo che fare e restavo lì senza voce, lui fa un passo avanti e mi si china addosso, la faccia a un pelo dalla mia, mi guarda un po’ con due occhi di bestia, poi fa una risata, sai come mi chiamo? mi dice, con una voce bella potente, io faccio no colla testa, e lui, lo vuoi sapere?, io faccio di sì, e lui fa, mi chiamo l’altra faccia della luna, quella che non si vede mai, si tira su e allarga le braccia come volesse abbracciare tutto il bosco, io sempre lì coi muscoli fermi, che non mi riusciva di ripigliare il sangue, e lui continua, questa è la mia casa, qui è tutto mio, chi passa di qua lo deve sapere, io dissi che non ci sarei venuto più, lo giuravo su Dio e sulla Madonna, e nel mentre pensavo che quello era il matto che strappava il naso e la lingua dei bambini e mi tremavano i ginocchi... Lui guardò verso il cielo e scoppiò in un’altra risata, ma si fermò subito, si rattrappì come per una bastonata alla schiena, gli occhi strizzati come se gli avessero offeso la mamma, tutta la pelle della faccia sembrava ammonticchiata intorno a quegli occhi da animale, poi disse, sono libero sai?, sono libero come la pioggia, come gli uccelli, libero come i pinoli che cascano in terra, poi se la prese con la pelle di coniglio e gli ronchiava come un cane, alla fine mi appoggiò una mano sopra il capo e disse, torna a trovarmi, fare due chiacchiere fa sempre piacere, e se non mi trovi urla che vuoi vedere l’altra faccia della luna, e vedrai che arrivo, poi si frugò in tasca, tirò fuori un vetrino azzurro e me lo mise davanti al naso, guarda cosa ti regalo, disse, è una pietra preziosa che vale più dell’oro, tieni, è tua, io la prendo e a fatica trovo la voce per dire grazie, a questo punto lui si mette a canticchiare e se ne va con l’aria di chi fa quattro passi, mi volto a guardarlo e vedo che si china e prendere un ramo secco, lo tronca in due sul ginocchio e ne sceglie un pezzo da usare come bastone, allora mi siedo in terra a ripigliare fiato, intanto guardo la schiena del matto che se ne va tranquillo...
 
Quando lo vidi sparire tra i cespugli mi riprincipiai a respirare, poco dopo m’arrivò la sua voce bella forte che diceva, se ti raccontano che sono matto non gli dare retta, nessuno è matto, ricordatelo bene, nessuno è veramente matto, allora mi alzai e cominciai a correre verso il piazzale delle Streghe, sperando di trovarci ancora i miei compagni, e infatti erano là, da principio a vedermi si spaventarono, poi si misero a ridere, fumavano un sigaro rubato in casa e tossivano a turno, io raccontai alla grossa del matto del bosco, poi misi mano ai particolari e via via che raccontavo li vedevo fare facce strane, ci credevano e non ci credevano, allora tirai fuori il vetrino azzurro e lo feci vedere a tutti, m’ha dato questo, dissi, me l’ha regalato il matto, poi però dissi che non era nemmeno matto e che non faceva paura per nulla, io almeno di paura nemmeno l’ombra, era un vecchio simpatico col naso grosso, tutto qui... Senti un po’, ragazzo, mi sa che è meglio farsi portare un altro fiasco, che per arrivare in fondo alla storia questo vino non ci basta.»
 
Fece un cenno verso il bancone, e dopo un minuto arrivò l’oste con il fiasco, ci chiese anche se volevamo mangiare qualcosa, e il vecchio parlò per sé e per me, mangiavamo eccome, disse, pasta e fagioli per due, ma scodelle grosse, quattro salsicce e dieci stecche di rosticciana, patate e cipolle, pane in abbondanza e una mela a testa per rinfrescare le budella, e il vino in conseguenza, concluse, e ridette fuoco alla pipa.
«E insomma a farla breve quella fu la prima volta che vidi il matto, la prima ma non l’ultima, ormai alle Streghe ci andavamo spesso, soprattutto a fumare di nascosto, il matto lo vedevamo a volte di lontano, col cappellaccio e la pelle di coniglio in mano, non ci faceva più paura come prima, ma nemmeno che gli si andasse dietro come pulcini... Poi una volta mentre camminavo nel campo che il babbo lavorava a mezzadria me lo ritrovo davanti senza avviso, il naso era più mostruoso di che mi rammentavo, il puzzo però era uguale, e anche quel giorno ero solo, lui mi riconobbe e mi salutò con una stretta di mano che sapeva di pollina, e disse, sai cosa mi piace di te?, hai una bella testina tonda, viene voglia di giocarci a bocce, e scoppiò a ridere che gli uccelli volarono dai rami, poi si siede in terra e mi fa cenno di mettermi accanto, sfila di sotto i vestiti una bisaccia sbrindellata, si strofina le mani addosso come per pulirle e dalla bisaccia tira via un pacco di fogli, guarda se ti piacciono, mi fa, se ne vuoi uno te lo regalo, io guardo, erano tutti ritratti di una donna, sempre la stessa, bella e coi capelli gialli come spaghetti, un neo sul labbro che stava anche bene, i colori erano grassi e forti, ma nell’insieme c’era una certa giustezza che faceva piacere, lui mi guardava e aspettava che gli dicessi quale volevo, non mi pareva più un diavolaccio, semmai un matto un po’ diavolo e un po’ santo, di quelli che dentro gli brucia un foco che non li lascia in pace, insomma per non fare il ficoso scelsi un ritratto e glielo dissi, lui me lo tolse di mano, si leccò le labbra e lo baciò tre volte, li ho fatti tutti io, mi disse, è la mia donna, mi aspetta in un posto tutto dorato, e prima o poi mi sa che vado a trovarla, mi dette il ritratto e si sdraiò sulle zolle a braccia larghe, dopo un secondo russava, sembrava un cristo crocifisso in terra, e insomma dopo quella volta la paura m’era passata per intero, il ritratto lo appiccicai sopra il letto, il sorriso di quella donna mi dava il pizzicore, era un sorriso tra il cattivo e l’amoroso... Ora però mi fermo, che arriva il mangiare.»
 
L’oste ci scodellò la zuppa, abbondante. Il vecchio ripose la pipa, e mi fece un cenno con il capo per dare il via alla cena. Aveva una cucchiaiata regolare, lenta e solenne, e mi tenni al passo. Aveva cominciato a piovere, e chi entrava chiedeva uno straccio per asciugarsi la testa. Il vecchio inclinò la scodella e tirò su fino all’ultima goccia di zuppa. Io non lo feci, ma solo perché era troppa. Il vecchio mi guardò nel piatto e fece ondeggiare il capo.
«Si vede che dalla guerra non ci sei passato, ragazzo, ma va bene così, meglio per te, non voglio fare il barbagianni, di quelli che i giovani son tutti pappamolle perché non hanno visto la guerra, io n’ho viste due, una da bambino, una da soldato, e non m’ha fatto punto piacere, né quella né quell’altra, era meglio andare all’inferno a far bistecche, te lo dico io...». L’oste arrivò silenzioso e ci levò le scodelle, e subito dopo ci portò il maiale fumante e un vassoio di patate e cipolle. La locanda si era riempita di gente, vecchi contadini con il cappello in testa che mangiavano e discorrevano a mezza voce. Il vecchio si versò il vino e con calma si preparò il piatto. Imitai i suoi rituali, e cominciai a mangiare subito dopo di lui. Mi domandavo come facesse a masticare con quei pochi denti, ma soprattutto mi chiedevo quanti anni avesse. A fare i conti veniva da pensare almeno a cento. Il vino stava poco nei bicchieri, e dopo le salsicce mi sentivo come se avessi preso un pugno in testa. Però il mio umore di fondo era migliorato, e quando l’oste portò via i piatti accesi una sigaretta. Il vecchio sbucciò la sua mela in un modo tutto personale, girandola nella mano all’infinito. Fece un nastro di buccia intero che depositò sul tavolo con rispetto. Spaccò la mela in due e levò il torsolo lavorando di coltello come per cavare un occhio, poi l’addentò con gusto. Finita la mela riaccese la pipa, e mi chiese se volevo una grappa. Dissi di sì. Lui alzò appena una mano per fare un cenno d’intesa all’oste. Dopo un minuto si posarono sul tavolo due gotti di grappa pieni fino all’orlo. Il vecchio assaggiò, e fece un bel verso di lingua soddisfatta.
 
Si ruttò dentro la mano e disse: «Bene, si può riprincipiare, seguimi bene sennò ti confondi, fai conto che il matto ogni tanto lo trovavo in giro nei boschi, ma capitava che passavano dei mesi che non si faceva vedere, poi riappariva e sembrava sempre più matto, però non aveva sempre la stessa aria, certe volte era allegro e urlava come volesse far gli orecchi agli alberi, invece altre volte me lo ritrovavo davanti mogio e bisbiglioso, e magari succedeva che per fargli piacere gli dicevo di farmi vedere i disegni della donna col neo, allora lui si calava una manaccia sugli occhi e si metteva a far discorsi che ci capiva solo lui, a dirla breve quel matto era sempre una sorpresa, non lo potevi indovinare, ogni volta era come quando ti levi la mattina e guardi fuori per vedere il tempo che fa... E insomma passarono un sacco di Pasque e di Natali, mangiavo come un bue e crescevo bene, a vent’anni ero grande e grosso, parevo un canterano, non mi guardare ora che sembro un olivo secco, ero largo come un uscio, avevo due mani che schiacciavo i pinoli con le dita, e finì che il babbo mi mise a fare il boscaiolo, perché insomma un po’ di soldi non guastavano... Sarà stato il ’32, il Duce era il babbo degli italiani e i suoi figli avevano tutti la camicia nera, ma questo lasciamo stare che la politica mi fa andare di corpo... Insomma una mattina alle prime luci viene in paese un tipo, aveva l’aria del contadinaccio ma parlava come volesse fare il signore, chiedeva se c’era un cristo che venisse a tagliare un cipresso davanti a una villa, nel paese accanto, che distava un quarto d’ora di carro, disse che la paga era buona, e insomma tutti lo mandarono da me, io gli chiesi quanto pagava, e quando me lo disse accettai subito, era davvero una bella manciata di soldi, e insomma saltai sul carro e ce ne andammo laggiù... La villa per esser bella era bella, appoggiata in cima a una collina e grande come un castello, con le finestre grandi e i monumenti in giardino, le fontanelle coi pesci rossi, e tutto intorno alberi di trenta metri, cipressi, querce, cedri... Poteva essere un Paradiso, ma a dormire in quella villa non ci sarei rimasto nemmeno a pagarmi o a bastonarmi... Il giardino era freddo e bagnato, tutto all’ombra, sembrava un camposanto, magari da signori, ma sempre un camposanto, e non mica per i cipressi, che quelli a me mi danno allegria, ma c’era una luce bigia come in quei posti dove il sole non ci fa mai capolino...
 
Insomma il contadinaccio mi fece vedere il cipresso da tirare giù, e a me mi prese un colpo, quell’albero era più sano di me, con un tronco massiccio che aveva almeno dugent’anni, e a me tagliare un cipresso così bello mi piangeva il cuore, allora dissi la mia, ma quello disse che così voleva il padrone, quel cipresso dava ombra a una certa finestra e così sia, che insomma tagliassi il cipresso senza troppe ciance, mi lasciò lì e se ne andò a far qualcosa, pagavano più che bene e a casa c’era più che bisogno, e insomma la scelta era poca, povero cipresso, mi misi a tracolla la corda per legarmi, e con un segaccio attaccato alla cintola mi arrampicai su per il tronco del colosso, e intanto gli dicevo una preghiera, chiedevo che mi perdonasse e gli dicevo che la fame è fame, e arrivato in cima mi feci il segno della croce e principiai a tirarlo giù pezzo a pezzo, lavorando di sega e di olio di gomito, il cipresso a seguire la fibra lo spacchi che è un piacere, senza faticare troppo con l’accetta, ma a segarlo in contropelo è una bella sudata, e ogni tanto dovevo mettere mano alla borraccia, l’ultimo pezzo di tronco lo mandai giù a colpi di scure, non mi ero mai immusonito come a tagliare quel gigante di un cipresso, e ancora se ci penso mi viene la malinconia, ero appunto seduto sopra un pezzo di tronco a riprendere fiato, quando vidi un uomo sulla porta della villa, sarà stato a venti passi da me, e mi guardava, anch’io lo guardavo e mi pareva di averlo già visto, era vestito di fino con un mantello scuro addosso, scese in giardino e si mise a camminare come fosse da solo, come se non m’avesse visto, mi passò quasi accanto con gli occhi in terra e lo guardai bene in faccia, e siccome mi pareva davvero di conoscerlo mi venne da salutarlo, ma sul momento non lo feci, lui continuò per la sua strada, e intanto cercavo di ricordare chi era e come e quando lo conoscevo, ma non venivo a nulla, e però ormai ero curioso e pensai di chiedere a lui, e così stavo per andargli dietro quando mi sento prendere per la spalla, era il contadinaccio, disse che quello era il padrone, che non lo dovevo disturbare, te lo vedi così, mi disse, te non gli dai due lire, ma se guardi i campi qua intorno fino all’orizzonte è tutto suo, io gli dissi che mi pareva di conoscerlo ma non mi ricordavo dove e come, lui mise mano alla cipolla e fece un gesto come per dire che era tardi, e insomma che tagliassi il tronco in fretta perché tempo da perdere non ce l’ha nessuno, bene, gli dico, io per tagliare taglio, ma tirare giù un cipresso così è stata una resìa, un cipresso così chi l’ha piantato è già morto da un pezzo e anche i suoi nipoti, di nuovo metti bocca, dice lui, taglia e basta, queste non son cose che ci devi ragionare te, e se ne andò in faccende, così mi rimisi a tagliare il tronco a pezzi e mentre tagliavo cercavo di rammentarmi dove avessi già visto la faccia di quel padrone, ma non c’era verso, era come quando la domenica in piazza vedi vestito a festa il nuovo garzone del macellaio, lo guardi e sai bene che lo conosci, però non ti raccapezzi chi è e chi non è, insomma taglio il cipresso a ciocchi e lo accatasto in un angolo, finito il lavoro viene il contadinaccio e mi paga il promesso, però non ti riporto con il carro, mi disse, devi fartela a piedi, tanto sei giovane, e così ritorno verso casa tagliando per i campi, intanto penso e ripenso e alla fine mi viene tutto chiaro, il padrone della villa aveva la stessa faccia del matto, stesso naso sputato, grande come un fungo, e per l’appunto era matto anche lui, insomma sembrava proprio il matto del bosco, però adesso era vestito da signore e viveva in una grande villa con all’intorno la terra a perdita d’occhio, una faccenda che non me la spiegavo, allora domandai a tutti i vecchi del paese se mi sapessero dire qualcosa sul matto del bosco, e andai a fare due parole anche col barbiere, che se le cose non le sa il barbiere non le sa nessuno, insomma ognuno disse la sua e vennero fuori un sacco di cose, tutte differenti, uno raccontò che il matto aveva fatto un figlio con una suora e che il Papa in persona gli aveva augurato l’Inferno, un altro disse che ai suoi tempi quel vecchio era un gran signore, uno con tanti denari da comprarci una città, che aveva vissuto un mucchio di tempo lassù a Parigi, tutto il giorno a baldoria, e poi era impazzito per via d’una femmina, e aveva smesso di parlare, il barbiere invece tirava in ballo che da giovane il matto era stato pittore, non uno zampe di gallina qualunque ma un grande pittore, le madonne come le faceva lui non le faceva nessuno, sembravano vive che t’aspettavi di sentirle parlare, e insomma non venivo a capo di nulla, poi una volta venne a casa il treccone a ripiombare una grondaia che pisciava acqua e domandai anche a lui, perché era vecchio il giusto e perché col suo mestiere stava sempre in giro e ne sentiva dire da tutti, e lui mi disse che il matto lo aveva incontrato qua e là per diversi anni, ora però era un po’ che non lo vedeva, e mi disse anche che qualche volta gli aveva comprato dei ritratti che lui rivendeva a qualche vecchia, e raccontò di aver sentito dire che il matto era stato in Africa a far guerra da mercenario, e che lungo il cammino aveva seminato figli neri come si fa coi chicchi di grano...
 
Insomma sembrava che nessuno sapesse nulla di preciso, tranne il babbo del calzolaio, un vecchio ripiegato che diceva di sapere tutta la storia ma che non la poteva dire, e non ci fu verso di farlo sbottonare, era tanto vecchio quanto cocciuto, e insomma la curiosità mi rimase tutta, e qualche giorno dopo passando per i campi tornai di nascosto alla villa del cipresso, mi avvicinai all’inferriata a capo basso, sbirciando nel giardino da dietro la siepe, per vedere senza che mi vedessero, e a ricordarmi del cipresso che avevo tagliato mi veniva lo spasimo, ma quel che è fatto è fatto e a far le lagne non si guadagna un cacherello di capra, e insomma tenevo sempre gli occhi al giardino, la villa era a tre piani, grande come uno spedale, non mi piaceva quel posto, non so perché ma non mi piaceva punto, aveva troppo di qualcosa e troppo poco di qualcos’altro, insomma mi ci trovavo male, stavo perdendo la pazienza, ma alla fine vidi uscire il vecchio, camminava uguale all’altra volta, le mani intrecciate sul deretano e gli occhi in terra, vederlo andare in mezzo a quel giardino scuro faceva rizzare i peli, anche ora se voglio figurarmi un fantasma mi viene in mente lui, lo guardai per un po’ e vedevo che ogni tanto si fermava e faceva un sorriso cupo, poi si rincamminava, e comunque non m’ero sbagliato, la sua faccia era sputata a quella del matto, però arrangiato così ci guadagnava parecchio, nel senso che aveva l’aria del vero signore, anche se sembrava più secco e più curvo, io dapprima non sapevo che fare, ma alla fine mi feci coraggio, trovai un punto dove la siepe era più rada e mi attaccai alle sbarre del cancello, feci un bel saluto al padrone, ma lui nulla, se ne andava per la sua strada a occhi bassi, allora gli urlai se si rammentava di me, del ritratto che m’aveva regalato, quello della donna col neo sul labbro, lui era di schiena e si fermò, alzando di scatto il capo come per un ago nel collo, ma durò poco, subito dopo si mosse e s’allontanò senza fretta, entrò nella villa e richiuse il portone, non ci capivo nulla, ero sicuro che quello era il matto, tanto più che da qualche mese non l’avevo più visto in giro, ma cosa ci facesse in quel posto non mi davo pace, e soprattutto era strano che uno così ricco si conciasse da poveraccio e girasse nei boschi a piedi scalzi, insomma era una faccenda di nulla riposo, e io a vent’anni ero come un mulo a voler sapere le cose fino in fondo, non come ora, che ormai sono vecchio, e quando la terra è troppo dura butto la zappa, tanto ormai ho capito che certe faccende non le puoi comprendere per intero, non si può e basta, è compagno a mettersi in testa di buttare giù una quercia a spintoni, un po’ come voler sapere cosa passa nel capo a una femmina, che se c’insisti troppo va a finire che ti ci ammali, ma a vent’anni la ceppica è dura come una macina, e a sbatterla contro il muro è più piacere che dolore... La prendi anche te un’altra grappa?».
 
Non mi ero nemmeno accorto di aver vuotato il bicchiere, ma in effetti mi sembrava di essere immerso in una nebbiolina. Senza aspettare la mia risposta il vecchio aveva fatto di nuovo un cenno all’oste, e poco dopo arrivarono le grappe. Il vecchio vuotò la pipa e la riempì di nuovo. L’accese con gusto, lentamente, spandendo in aria un fumo così denso che per un po’ non riuscii a vedere la sua testa. Quando il fumo si diradò, vidi che il vecchio si era riappoggiato al muro. «E insomma non mi davo pace, più non capivo e più volevo capire, non che me ne venisse niente, ma te l’ho detto, a vent’anni ero così e non c’era verso di farmi cambiare viottolo, la faccenda che i due matti erano uno solo era la mia preferita, ci mettevo conto come di avere due buchi nel naso, ma quello che non capivo era la faccenda tutta intera, volevo farmi capace di come mai lo stesso matto si vestiva in due modi e faceva due vite che si somigliavano come un cinghiale e un chicco d’uva, e insomma facevo il Tommaso, volevo toccare con mano, m’era venuta una fissazione... Il matto del bosco con la pelle di coniglio cominciai a rivederlo, spesso di lontano, mentre camminava in un campo o nel bosco della collina di fronte, e ogni volta correvo alla villa per vedere se c’era l’altro matto, lo chiamavo da dietro le sbarre, ma lui non veniva, non poteva venire, mi dicevo, perché era nel bosco con la pelle di coniglio, poi magari andavo alla villa così a caso, e due volte su quattro trovavo il matto in giardino a camminare, tutto in ghingheri, e insomma feci i miei conti, che a quel punto mi parevano facili, e così mi ficcai in testa una volta per tutte che i due matti fossero uno solo, non ci pioveva, ero così sicuro che smisi quasi di fare il Tommaso, dico quasi, perché ogni tanto mi riprendeva la smania e se scorgevo il matto del bosco da qualche parte volavo alla villa a cercare di vedere l’altro matto, e una volta di quelle entrai persino nel giardino, mi misi a chiamare e a tirare manate alla porta, ma il padrone non sortì di casa, e allora bene, ero convinto una volta per tutte, un solo matto faceva per tutti e due, però lo stesso non ero soddisfatto, non mi capacitavo di quale fosse il motivo di quella doppiezza, provavo a figurarmi di essere come lui, di fare due vite scompagnate, così per vedere di trovarci un senso, come se a fare finta potessi scoprire il vero, ma più ci pensavo e meno ci capivo... Non t’è successo mai?»
 
Era più una pausa per riaccendere la pipa che una vera domanda, e rimasi zitto, anche perché non volevo sentire la mia voce. Il racconto del vecchio si srotolava come una corda, e a parlare mi sembrava di tagliarla. L’oste andò a mettere un altro ciocco nel camino, sistemandolo in modo che bruciasse lento. Ai tavoli intorno avevano finito di cenare, e si ridavano le carte. Si sentivano dei tuoni lontani, e come sottofondo il brusio della pioggia. Il vecchio vuotò il bicchiere, e questa volta si fece portare la bottiglia. Si riempì il bicchiere e continuò.
«Un giorno successe che il matto del bosco s’infilò nella chiesa del paese, qualcuno venne a dirmelo e io ci andai a corsa... Lo trovo stravaccato su una panca in fondo alla chiesa, coi piedacci all’aria che borbotta preghiere, mi ci metto accanto e aspetto che mi guardi, alla fine lui si volta, sono stanco, mi fa, mi pesano le ossa e anche il capo mi sembra diventato un sasso, io gli dico un paio di grullate, così per farmelo più amico, poi come nulla fosse gli chiedo se alla villa c’è magari un altro cipresso da tagliare, glielo dico a sorpresa e lo guardo per vedere come la prende, e vedo che abbassa i sopraccigli come chi non ha inteso bene, gli ripeto la cosa e lui per risposta si fa il segno della croce, sono stanco, ridice, sono molto molto stanco, si alza e se ne va alla bacinella dell’acqua santa, ci tuffa una mano e ci si spruzza il viso, poi si volta verso di me e fa, non mi seguire, devo andare a fare due chiacchiere con Dio, alla fine esce dalla chiesa e non ho il cuore di andargli dietro...
 
Passò un anno, e nessuno l’aveva mai più visto, e insomma tutti pensavano che fosse morto, qualcuno diceva addirittura di averlo visto penzolare da un ramo, e il prete gli fece anche una messa in fretta, per l’anima sua, ero solo io a credere che non fosse morto, perché ogni tanto andavo alla villa e vedevo il padrone a passeggiare in giardino, sempre colla stessa faccia da camposanto, e siccome per me erano la stessa persona, io che il matto fosse morto non ci potevo credere, e infatti non ci credevo, però non dissi nulla a nessuno, perché anche a vent’anni lo sapevo come vanno queste cose, racconti una cosa che per altri è una mattana e il matto ci diventi te, ti pigliano a rugliate per tutta la vita, e allora zitto, che è meglio, e  insomma passano le settimane e un bel giorno il matto del bosco si rifece vivo, lo trovarono in piazza che dormiva in terra accanto al pozzo, gli si misero tutti intorno come vedessero un’anima del l’aldilà, io allora mi faccio bello e dico che lo sapevo che non era morto, ma nessuno mi fece caso, erano tutti lì a capannello intorno al matto, come fossero allo spettacolo di piazza, poi qualcuno cercò di svegliare il matto e sentì che bruciava di febbre... Le donne allora andarono a chiamare il farmacista e quello arrivò di corsa con la borsa in mano, si mise quell’attrezzo nelle orecchie e gli ascoltò i polmoni, poi gli cercò la vena del polso e contò, non sta bene, disse, va portato subito allo spedale, lo presero in quattro e lo caricarono su un carro, lui però si svegliò e chiese di andare in chiesa, il dottore allora gli andò sotto, gli disse che per ora è meglio il dottore che l’ostia, ma il matto continuava a dire che voleva andare in chiesa, e intanto s’affannava di mettersi ritto sulle gambe, il dottore lo tenne per le braccia e provò a convincerlo, ma lui nulla, in chiesa e basta, in mezzo al capannello c’era anche il prete, e disse che una cosa così andava accontentata, perché l’anima è più preziosa delle ossa, e che nessuno lo dimenticasse, allora in quattro alzarono di peso il matto e lo portarono in chiesa, lo sdraiarono su una panca e lui disse che voleva stare da solo, e così andarono via tutti... E quando tornarono il matto aveva smesso di penare, insomma era morto, pace all’anima sua, s’era rattrappito tutto colle ginocchia sulla pancia, le mani strette sulla pelle di coniglio, puzzava tanto che qualcuno disse di seppellirlo subito, e molti erano d’accordo, ma il prete si mise a urlare che fare di corsa non si poteva, che era una cosa che dispiaceva a
Dio, allora mi feci il segno della croce e li lasciai tutti là a far discussioni... E come d’istinto m’incamminai verso la villa del cipresso, forse per togliermi il dubbio una volta per tutte che i due matti erano solo uno, anche se non me lo dicevo chiaro, ma questa volta non correvo, ci andavo lento apposta, tanto ero sicuro che il vecchio non c’era, non ci poteva essere, mi dicevo, l’avevo appena visto morto, e insomma arrivai laggiù alla villa colle mani in tasca, feci il giro dell’inferriata a guardare il giardino, non c’era anima viva, chiamai a voce alta e fischiai come sapevo io, ma non veniva nessuno, allora entrai nel giardino, andai al portone della villa e ci bussai a mano aperta da cafone, tanto sapevo che in casa non ci poteva essere nessuno, e nel mentre però mi dicevo: se sei tanto sicuro come mai sei venuto fin quassù a far controlli?, però non mi sapevo rispondere, e insomma alla fine feci festa, diedi le ultime manate alla porta e tornai sui miei passi per andare a casa...
 
Ero già al cancello, e dietro le spalle sento un rumore di serratura, mi volto a guardare, e non ti dico il caldo che mi venne in testa a vedere il padrone ritto sulla soglia, mi guardava zitto e ondeggiava il capo come un ramo alla brezza, io mi ripiglio dallo ma allora non siete morto, gli dico, poi m’accorgo che non è una cosa bella da dire e chiedo scusa, lui fa un gesto con la mano come spavento e gli vado vicino, a scacciare un moscone dalla faccia, al mio paese, dico, è morto uno che somiglia a voi come uno specchio, ma lui nulla, scuote il capo e richiude il portone, mi lascia lì come un allocco, e insomma m’ero sbagliato della grossa, i matti erano due, ma la faccia era la medesima, ma così uguale che a metterli vicini c’era da pensare d’aver bevuto troppo, allora tornai alla chiesa e ce la misi tutta per fare presto, chi lo sa mai, magari il morto s’era svegliato e se n’era tornato alla villa, e se era così, allora i matti erano uno e non due, e avevo ragione prima... Ma il morto c’era ancora, pace alla sua anima, l’avevano steso in sagrestia su tre sedie in fila, rinfagottato dentro un lenzuolo per quanto era lungo, il prete l’aveva spruzzato d’aceto per calmare il puzzo, e i piedi glieli avevano fasciati uno per uno, la gente andava a vederlo con il cappello in mano, le donne bisbigliavano preghiere, ma a guardar bene erano tutti più curiosi che pietosi... Aspettai che non ci fosse nessuno e mi avvicinai al morto, gli liberai la faccia per guardarlo ancora, aveva la fronte nera e stretta, i denti scoperti fino alla gengiva, e il naso gli sbocciava in faccia come un porcino, grande più di prima, a guardarlo faceva un brutto effetto, e non solo perché era morto, e comunque avevo ragione, era compagno al padrone della villa, parevano due gemelli, ma chissà come uno era ricco e l’altro povero...
 
Dopo un po’ me n’andai a casa, continuando a ruminare la faccenda, la mamma aveva fatto la minestra di pane, che la preferivo a tutte, ma di mangiare avevo poca voglia, e me ne stetti zitto in un canto a bere e fumare, non era la prima volta che vedevo un morto, ma quel poveraccio m’aveva fatto più effetto, mi sentivo come indolenzito nella testa, a vedermi così i miei vecchi non sapevano come pigliarmi, si guardavano in faccia ma a me non mi dicevano nulla, alla fine andai a buttarmi a letto e la mattina dopo mi sentivo già meglio...».
Si fermò perché nella bettola era entrato un tipo con in mano un enorme ombrello gocciolante, che aveva appena chiuso. Era vecchio quasi quanto lui, ma più in carne, con la barba di tre giorni, le bretelle sotto la giacca logora, il naso gonfio e rosso dei bevitori. Il nuovo arrivato scrollò l’ombrello sulla segatura e lo appoggiò in un canto. Il vecchio aspettò di incontrare il suo sguardo e gli mandò un saluto con il mento, l’altro rispose uguale e andò a sedersi a un tavolo di briscola. Ne approfittai per versare la grappa nei bicchieri, e il vecchio mi ringraziò con un cenno. La bottiglia era già a mezzo, mi ronzavano le orecchie, ma avevo dentro un calore che avrei giurato mi facesse bene. Aveva preso a piovere forte, oltre i vetri si vedeva lampeggiare il bagliore dei fulmini, sempre più vicini e più fitti, ma il rumore dei tuoni arrivava ovattato, e per le orecchie assai piacevole da sentire. Era proprio così che doveva essere un’osteria, pensai, un riparo per i viandanti, e intanto aspettavo con pazienza che il racconto riprendesse. Qualcuno andò a mettere delle mele accanto alla brace, e dai tavoli gli gridarono di metterne ancora, che con un tempo così una mela cotta ci stava bene. Il vecchio riprese al l’improvviso, come a metà di una frase.
«... e quando il giorno dopo seppellirono il matto andai al camposanto, detti anche mano a buttargli la terra sopra la cassa, e la cosa mi fece bene e male, bene perché il matto ormai lo tenevo per amico, e a seppellirlo mi sentivo di far giusto, male perché sapevo che non l’avrei mai più trovato in giro a dir bubbole, che poi tanto bubbole non erano, anzi starlo a sentire mi sembrava sempre che m’insegnava qualcosa, anche se non sapevo cosa, e insomma mi pareva che sotto il citrullo ci fosse una materia sana, come certe cipolle, che sopra sono maligne da bruciar lo stomaco, ma nel mezzo ci trovi un cuoricino dolce che a mangiarlo è un piacere, e così era lui, povero cristo, e insomma il cappellano disse in fretta una prece e sul cumulo di terra ci si dovette piantare una croce senza nome, era sempre meglio che essere buttato nella fossa comune, a mescolare le ossa con cani e porci, il prete fece l’ultima spruzzata d’acqua santa e tutti a casa, e insomma la faccenda era chiusa, uno cammina ritto per cent’anni e a coprirlo di terra ci si mette un rutto, ma non ci si poteva far nulla e non era colpa di nessuno, e allora era meglio non pensarci troppo... A me il camposanto mi fa sempre venire una gran fame, e quella sera mi mangiai tre scodelle di ribollita, bevendo di gusto, e ogni tanto mi rivenivano a mente certe volte che avevo incontrato il matto, a star dietro a quei ricordi mi pareva come di fargli compagnia, mi rammentai di un giorno che principiò di piovere senza avvertimento, mentre tornavo a casa passando dai campi, per ripararmi corsi in un fienile là vicino, e dentro ci trovai il matto sdraiato sulla paglia, che disegnava una di quelle sue donne col neo, ma appena mi vide mise via il foglio e i gessi, tirò fuori una fiasca e mi offrì un sorso, mi ci misi accanto e si bevette insieme, dopo un po’ mi venne di chiedergli perché teneva sempre in mano quella pellaccia di coniglio, lui mi guardò con un sorriso, ma si vedeva che però era serio, e dopo un po’ disse che gli piaceva di vivere tenendo sempre a mente il morire, e la pelliccia gli tornava al caso perché la guardava e pensava che una volta quel mucchio di peli sapevano correre e fare all’amore, e invece ora più nulla, era una pelle vuota, e per i cristiani non era troppo diverso, disse, e allora era meglio prenderci l’abitudine e non fare come fanno tanti, che quando si ritrovano la falce sul collo fanno un sobbalzo come se non l’avessero mai saputo... Quella fu una volta che il matto parlò più del solito, e rimasi a sentirlo anche dopo che la pioggia era smessa, aveva una bella voce chiara e sonora, faceva un gran polverone di parole e per pigliare il buono si doveva fargli la tara, ma a conti fatti era meglio che ascoltare il prete, che alla fine diceva sempre le stesse cose e con l’aria di chi non ci crede poi tanto... E insomma il matto era uno che non ce ne sono molti, uno che ogni tanto ti riviene in mente per forza, per la faccia che aveva e anche per quello che diceva, io di quei suoi discorsi ce n’avevo piena la testa, e in quel tempo me li ritornavo a mente e mi ci trastullavo a piacere, che a far così mi pareva che lui fosse meno morto, perché insomma a sapere di non ritrovarmelo più davanti mi faceva malinconia...
 
Passano le settimane e i mesi, io facevo la solita vitaccia del boscaiolo, a tagliare, a segare, e anche a fare il carbone di legna, poi una domenica vado al piazzale delle Streghe a cercare gli asparagi, a un tratto vedo di lontano un cappellaccio nero che passa tra i cespugli e si allontana, e intanto sento fischiettare la melodia delle disturne, rimango un attimo senza fiato, poi mi faccio coraggio e gli corro verso, gli arrivo da dietro, e dalla figura mi pare proprio
il matto, poi gli giro davanti e mi prende un colpo, era proprio lui, col suo naso deforme e la sua pellaccia di coniglio annodata al collo, il malodore e tutto il resto, la cosa era strana, e forse anche paurosa, ma a me mi venne un calore al cuore, quasi gli do una manata sulla schiena dalla contentezza, mi piaceva troppo di rivederlo, al momento non volevo pensare alla stramberia della cosa, ci avrei messo la mente più tardi, e insomma mi tengo al passo con lui, lui invece mi guarda nero e mi fa, sai che ti dico?, se dal cielo invece dell’acqua piovesse cacca di mucca, qualcuno a starci sotto si laverebbe e puzzerebbe meno che di sempre, io capivo e non capivo, e rimasi zitto a camminargli accanto, poi lui si ferma, si guarda in giro e annusa l’aria come gli animali, fa un altro passo come per scegliere bene il posto, e alla fine si siede per terra, sfila una sigaretta da dietro un orecchio e l’accende, tira tre boccate, la spenge contro un sasso e se la rimette all’orecchio, i vizi sono belli quando si fa a miccino, dice, a esagerare non ci si gode nulla, poi si sdraia sulle foglie e gli sale in faccia un sorrisone idiota, fegato d’oca, dice, e anche fegato di porco, zuppa di cipolle, filetto in salsa di tartufi, vino rosso a fiumi, un bel vassoio di formaggi puzzolenti, dolci di marzapane, e alla fine un bello sciampagna, sono mille anni che non bevo uno sciampagna, aveva finito il fiato e gli si chiusero gli occhi, cominciò a russare come un cinghiale, pareva che avesse mangiato e bevuto tutto quello che gli era uscito a parole, provai a chiamarlo, ma continuava a dormire come una tavola, lo lasciai là a digerire e me ne andai tutto in subbuglio, sulla via di casa mi sentivo un po’ contento e un po’ stranito, come poteva essere che l’avevo rivisto?, sapevo per certo che era meglio non dire nulla a nessuno, mi avrebbe tenuto per matto, e magari qualcuno avrebbe tirato fuori i fantasmi, e in effetti se ci pensavo bene mi veniva i brividi sul collo, io il matto del bosco l’avevo seppellito con le mie mani e gli avevo pestato la terra addosso, e non s’è mai visto che un morto ritorni a camminare, a parte Gesù, ma quella è un’altra faccenda... Insomma avevo visto un fantasma, mi dicevo, un morto rinchiuso nella cassa che era tornato a camminare nei boschi, non me la potevo raccontare differente, e a ripensarci mi faceva paura, anche se sul momento mi ero sentito tranquillo, comunque non parlai con nessuno di quello che m’era capitato, per non passare da quello che racconta frottole, però da quella volta riprincipiai a spiare la villa dei cipressi, senza capire bene come mai, ma il padrone non si faceva vedere, poi un giorno provai a chiamarlo e a bussare sul portone, come già avevo fatto altre volte, e dopo un po’ sento aprire una finestra del primo piano e mi viene un brivido, allora faccio qualche passo indietro per vedere meglio, e affacciato al davanzale vedo il padrone della villa, con la faccia nera come sempre, mi faccio coraggio e gli dico, mi dovete scusare, vorrei farvi una domanda, voi siete il gemello di quello che se ne andava in giro per i boschi?, quello che è morto?, e comunque sarà anche morto, continuai, ma io qualche giorno fa me lo sono trovato davanti nel bosco sopra a Canegrasso, sputato a voi com’è ver’Iddio, e se mi metto a contare... Uno è quello che ho appena detto, con voi fanno due, e poi c’è quello che ho aiutato a seppellire, tutti e tre colla stessa faccia, uguali uguali come fatti a stampo, io non ci capisco più nulla, me lo potete spiegare?, lui mi guardava serio, il capo gli tremava e pareva che fosse indeciso se dire di sì o di no, non voglio darvi noia, gli dico, ma non ci dormo la notte, ditemi qualcosa, raccontatemi come stanno le cose, ma lui non parlava, mi fissava e non diceva nulla, poi scosse il capo e serrò la finestra, e non ci fu verso di fargliela riaprire...
 
Alla fine me ne andai, giurando che appena ritrovavo il matto nel bosco lo fermavo e gli chiedevo conto di tutto, maledetto me che non l’avevo fatto l’altra volta, e a forza di ragionare mi figurai che il padrone della villa ogni tanto si arrangiasse coi panni del matto del bosco, anche se non capivo come mai, ma se così non era avevo visto per davvero un fantasma, ci avevo addirittura parlato, l’avevo visto russare, e allora appena potevo me ne andavo a far lunghi giri nei boschi e in mezzo ai campi, ma del matto nemmeno il puzzo, solo una volta vidi l’ombra di un cristiano che scivolava di pedina giù da un burrone, gli andai dietro a corsa ma non trovai nessuno... Il tempo passava e mi veniva l’uggia, mi bastava di ritrovare il matto del bosco un’altra volta, una sola, e finché non mi spiegava la faccenda non lo facevo partire, ma è sempre così, più cerchi e meno trovi, in barba ai proverbi.»
 
Fece una pausa che durò quanto un lungo sorso di grappa.
«Poi un giorno successe una cosa, dovetti andare a far mercato di galline per conto del babbo, in un paese accanto che col carro ci voleva una mezza giornata, era d’estate, di giorno era troppo caldo, non pioveva da settimane e si era all’asciuttore, sicché ci vado il giorno prima, che era sabato, e ci rimango a dormire, in una locanda a poco prezzo, e siccome il giorno dopo era la festa del patrono, la sera c’era festa, ero contento che al mercato avevo venduto tutte le galline, e andò a finire che tra un ballo e l’altro vuotai un paio di fiaschi, vino di quello forte, che vedevo doppio, e così rimasi a dormire ancora una notte, e la mattina alle prime luci salgo sul carro e torno al mio paese... Appena arrivo nella piazza della chiesa sento suonare a morto, porca la miseria, mi dico, non puoi star via tre giorni che ti capita il morto, e insomma volevo sapere chi era, fermo il carro e vado diritto in chiesa, che era quasi vuota, però c’era il prete a dire messa, mi bagno le dita e mi segno, poi m’avvicino piano piano alla cassa per vedere se il morto era un amico, ci guardo dentro e chi ci trovo allungato?, il vecchio della villa, tutto vestito a festa, con un bel fiore all’occhiello... Tra le panche della chiesa c’erano quattro gatti, il più erano vecchie di quelle che non perdevano una novena, e il prete stava dicendo messa a scappa e fuggi, arrivò in fondo e benedì la cassa, quando mi vide mi venne incontro, l’hanno trovato secco stamattina, mi fa, è il padrone di quella bella villa sulla collina di fronte, quella coi cipressi intorno, io faccio di sì per dire che ho capito, l’hanno mandato qui, mi fa, perché il prete di laggiù è a letto con la febbre, io mi faccio coraggio e dico al prete se gli posso fare una domanda, lui mi fa di sì, parla pure figliolo, ti vuoi confessare?, faccio di no, che non è quello, e lo trascino davanti alla cassa, non vi pare, dico, che questo morto abbia la faccia tale e quale a quella di un altro? uno che abbiamo già seppellito?, lui mi guarda storto e mi chiede di che faccia parlo, allora la prendo larga e dico che forse proprio tale e quale è dire troppo, ma che insomma c’è una certa aria di famiglia fra questo qua e il matto del bosco, quello che avevamo seppellito tempo addietro, intanto do un’altra occhiata al morto, altro che aria di famiglia, era compagno all’altro come due vasi fatti alla forma, il prete si china sul morto e si mette gli occhiali, sta un po’ a guardare, e poi fa, dici per il naso?,  guarda che i nasi grossi si somigliano tutti, io allora continuo a dire la mia, e vedo che il prete comincia a perdere la pazienza, come avesse davanti un citrullo che vuol giocare a far misteri, m’immaginai la faccia che avrebbe fatto se gli dicevo che il matto l’avevo rivisto nel bosco dopo ch’era morto, e insomma non mi pareva il caso di star lì a far discorsi, alla fine gli dico che forse mi sbagliavo e me ne vado, si sapeva tutti che il prete ci vedeva poco, ma forse era molto peggio di che si diceva, però gli altri non li capivo, che a nessuno gli fosse venuto il sospetto mi suonava strano, feci un po’ di domande in giro per farmi capace almeno di questo, nella speranza di trovar qualcuno che mi dicesse che aveva visto che i due seppelliti avevano la stessa faccia, e insomma venne fuori che i più avevano visto il matto del bosco di lontano o di sfuggita e non ci avevano mai scambiato una parola, e sapevano, ma solo per sentito dire, che alla villa dei cipressi ci abitava un vecchio un po’ intronato, anche se quasi nessuno l’aveva mai visto, va bene, dicevo, ma che il morto di oggi è uguale al morto che abbiamo seppellito da mesi lo vedete anche voi, il primo era il matto del bosco, e questo è il padrone della villa dei cipressi, sono uguali, hanno la stessa faccia, non l’avete visto anche voi?, ma nessuno se la sentiva di darmi spago, nessuno aveva guardato bene i due morti, dicevano, perché i morti non è mica un piacere a guardarli, allora andai a dar noia ai più vecchi, per chiedere se qualcuno di loro si ricordava di due gemelli uguali spiccicati, nati nel paese accanto, ma scotevano tutti il capo, non ne sapevano nulla, non avevano mai sentito che nelle colline là intorno fossero nati due gemelli, insomma non cavavo un ragno dal buco, e mi dicevo che forse i due matti avevano la medesima faccia per un caso unico della natura, una di quelle cose che se le vedi non ti ci raccapezzi, oppure invece erano gemelli ma nessuno lo sapeva, perché nessuno li aveva mai visti insieme, uno accanto all’altro, ma solo uno alla volta, anche se da credere non era facile, però chissà, a volte le cose che a immaginarle non ci arrivi succedono per davvero...
 
Alla fine pensai di andare a far due parole anche con il becchino, almeno lui doveva aver visto da vicino che i due morti avevano la stessa faccia, il becchino ero uno bravo, uno che non s’occupava solo di seppellire la gente, ma puliva anche le tombe e faceva le casse a poco prezzo, e a volte s’inventava a pagamento la scritta per il marmo... Andai a trovarlo una sera, abitava dentro il camposanto in una casupola di cinque metri per cinque addossata al muro di cinta, col tetto di tegole vere, e il becchino fu contento della mia visita perché a trovarlo non ci andava nessuno, tirò fuori una bottiglia di vin santo e mise le castagne sulla brace, a me però le castagne non mi piacciono punto... ».
Si fermò e si mise ad armeggiare alla pipa, con una ruga sulla fronte. Mi accorsi che al tavolo accanto al nostro era seduta una donna, da quanto tempo non sapevo, aveva spalle strette e spioventi, un fazzoletto legato sotto il mento che le nascondeva il viso in un’ombra nera nera. Si scaldava le mani su una tazza calda, non ci guardava ma mi sembrava che ascoltasse quello che dicevamo. La osservai solo pochi secondi, non volevo disturbare il racconto. Il vecchio si grattò la faccia e si stropicciò gli occhi con le dita, accese la pipa e continuò.
«Il becchino mi disse che sì, a volte capita di vedere due morti che si somigliano, ma disse anche che i morti si somigliano spesso, diventano più uguali insomma, e che per vedere se due sono davvero uguali si devono vedere da vivi, e comunque lui aveva poca memoria, e se anche gli portavano da seppellire lo stesso morto a distanza di una settimana non se ne avvedeva di sicuro, mi disse, chiuse lì il discorso e mi tenne fino a tardi a parlare di come riaggiustava la faccia ai morti prima di metterli nella cassa, e che più spesso di che s’immagina ci si doveva andare di ago e di filo, perché certe volte la bocca o gli occhi non ne volevano sapere di star chiusi, e ai vivi non gli piace di vedere un morto coi denti in mostra, o ancora peggio un morto che ti guarda, soprattutto se è uno che conosci, perché magari ti viene alla mente tutti i torti che gli hai fatto e ci stai male... E insomma a parte la bottiglia di vin santo non ci guadagnai nulla... Ora devo andare a fare un po’ d’acqua, però non ti muovere che non ho finito.»
 
Il vecchio si alzò scricchiolando, attraversò la locanda a passo lento, dritto come un albero, e sparì dietro una porta. Ne approfittai per guardare meglio la donna del tavolo accanto, mi sembrava che si raggomitolasse come per nascondersi, ma forse era solo un’impressione. Teneva ancora le mani avvolte alla tazza, e aveva le dita piene di anelli d’oro sbiadito, molto poco contadini. Sbirciai sotto il tavolo e vidi che portava scarpe con il tacco. L’oste portò al nostro tavolo due mele cotte nella brace e un’altra bottiglia di grappa, lo ringraziai, lui mi fece appena un cenno e continuò a scrivere sul suo taccuino. Riapparve il vecchio nel rettangolo della porta del bagno, accompagnato dallo scroscio del cesso. Tornò al tavolo e si rimise a sedere. Si dedicò alla sua mela con gesti antichi e solenni, e quando finì di masticare si asciugò la bocca con la mano.
FINE PRIMA PARTE

Il racconto - tratto dall'omonima antologia pubblicata nel 2017 per Guanda - rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it "Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus" (per gentile concessione dell'editore) 
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Marco Vichi

Marco Vichi

Marco Vichi nasce a Firenze nel 1957. Nel marzo 1999 esordisce come scrittore con il romanzo L’inquilino (Guanda). Seguono poi Donne donne (Guanda, 2000), Il commissario Bordelli (Guanda, 2002), Una brutta faccenda. Un’indagine del commissario Bordelli (Guanda, 2003), Il nuovo venuto. Una nuova indagine del commissario Bordelli (Guanda, 2004), Perché dollari? (Guanda, 2005), Il Brigante (Guanda, 2006), Firenze nera (con Emiliano Gucci, Aliberti, 2006), Nero di luna (Guanda, 2007), Bloody Mary (con Leonardo Gori, 2008), Per nessun motivo (Rizzoli, 2008), Buio d’amore (Barbès, 2008), Morte a Firenze (Guanda, 2009), il quarto romanzo del commissario Bordelli. Ha curato le antologie Città in nero (Guanda, 2006), Delitti in provincia, (Guanda, 2007). I suoi libri sono tradotti in greco, portoghese, spagnolo e tedesco. Dal 2003 tiene laboratori di scrittura in varie città italiane e presso il corso di laurea in Media e Giornalismo dell’Università...

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