Il custode delle parole. Andrìa salva Yidir, ma anche se stesso

Luigi Oliveto

14/07/2022

Con il romanzo “Il custode delle parole” (Feltrinelli), Gioacchino Criaco ha saputo reinscrivere nell’oggi (tempo di labili geografie e memorie evanescenti) il senso di appartenenza a una terra di forti radici quale è l’Aspromonte, la montagna lucente. Terra – dice l’autore – che “sa d’Oriente e d’Africa insieme, un profumo che ha intriso la carne, ed è inutile che la scuoino, il suo odore resterà per sempre, dovessero scarnificarla fino al centro del pianeta”. A farsi consapevole di questa imprescindibile identità è il protagonista della storia, un quasi trentenne di nome Andrìa. Stesso nome del nonno pastore, depositario di atavici saperi. È lui il custode delle parole di un idioma in via d’estinzione, il grecanico, lingua ellenofona parlata un tempo nella Calabria meridionale. Il giovane Andrìa, come molti coetanei del Sud, vive un presente di scarse aspettative (al momento lavora in un call center). Più che altro sa cosa non vorrebbe fare: restare in quella terra di silenzi, noia e solitudini. A trattenerlo è giusto l’amore per Caterina. È in gita al mare proprio con lei quando Andrìa salva dal mare un giovane libico, Yidir, naufrago di un barcone di migranti che annaspano tra i flutti dello Jonio (“Decine di braccia graffiano un’aria impotente, niente ganci da offrire; increspano un pezzo di Jonio vellutato solo qualche minuto prima”). Andrìa sottrae così Yimir “alle zanne dello Jonio”, lo porta a casa dei nonni dove viene rifocillato, accudito, rassicurato al punto che il nonno decide di prenderlo clandestinamente come aiutante. Per Andrìa è l’inizio di una metamorfosi, di una riconsiderazione di quel mondo dal quale vorrebbe fuggire, e che improvvisamente gli si rivela magico, ‘suo’. Lui e Yidir, ciascuno a proprio modo, aspirano a un cambiamento che non tradisca le loro radici; che non misconosca la memoria, i sentimenti, le eredità che vi sono depositati. Perché “questo siamo e questo saremo, e non saranno diaspore e giuda a trasformarci, tutti, in creature del tramonto”.
 
***
 
[…] È il caldo a risvegliarmi, il plaid mi copre la testa per fermare la luce, ma scotta: lo sollevo e mi arriva sul viso una folata rovente. Caterina sta dormendo accanto a me. Mi metto seduto, fra il sole e il mare si è aperto un corridoio: giallo con screzi verdi. Passo la lingua sulle labbra secche, il vento teso arriva da sud, dall’Africa, asciuga la saliva all’istante, s’infila in gola. Una sensazione strana mi sale nello stomaco. Fermo il respiro, chiudo gli occhi e li stropiccio coi pugni, li riapro con prudenza, evito l’abbaglio del cielo, sguardo basso a pelo di Jonio: cavalco le onde, gli occhi alla deriva. Una macchia scura si erge sopra la secca che fa l’acqua bassa a una cinquantina di metri dalla spiaggia. C’è una schiera umana in movimento, la fanteria di un esercito che sta andando a sbattere contro un nemico imprevedibile.
Scatto in piedi. “Nooo,” urlo più forte che posso, “fermi!” li avverto, ma quelli non mi sentono, sono troppo lontano. È un battito di ciglia, il vuoto si apre ai loro piedi. Come la corda insegue l’àncora fino a quando questa non raggiunge il fondo, una fila dopo l’altra, quelle persone finiscono in acqua, solo un piccolo gruppo si ferma in tempo dove la secca termina e il mare riprende a essere profondo. Decine di braccia graffiano un’aria impotente, niente ganci da offrire; increspano un pezzo di Jonio vellutato solo qualche minuto prima. Alcuni tornano indietro, risalgono sul barcone, altri nuotano verso la riva e altri svaniscono nell’acqua e tornano a galla.
Caterina, risvegliata dalle mie grida, è una statua di sale: le mani premute sulla bocca, a metà tra la disperazione e lo stupore. L’elastico che mi blocca finalmente si spezza, m’infilo di corsa fra i capperi del viottolo tortuoso che discende la scogliera su cui abbiamo passato la notte, raggiungo uno spuntone di roccia, faccio un respiro profondo e mi affido al vuoto: quasi venti metri d’aria. Li posso contare centimetro per centimetro. L’impatto con l’acqua interrompe la caduta, ferma il corpo. Poi comincio a salire. Mi dirigo ad ampie bracciate verso il largo, incrocio i fortunati che sanno nuotare, ci urtiamo mentre li supero, arrivo dove c’è un gruppo di uomini che fanno su e giù: afferro il più vicino, lo porto verso l’orlo della secca; le persone che non sono cadute lo prendono per le braccia e lo sollevano.
Divoro aria e sputo acqua, torno a prenderne un altro: anche Caterina si è tuffata, nuota di schiena con un braccio, l’altro cinge una donna incredibilmente scura, le guardo le labbra tinte di un rosa delicato mentre mi passa accanto. Ne salvo un altro, e un altro ancora; poi ne trovo uno che prova a resistere, sale e scende dall’acqua che ha ingoiato i suoi compagni. Lo trascino fino alla secca, lo aiuto a tirarsi su, è giovane, mi sorride, spalanca due grandi occhi verdi, allarga le braccia e le fa salire, come fossero ali, per gonfiare il petto e riempire i polmoni e si ributta in acqua.
“Ma che cazzo fai?!” gli urlo.
Aspetto che riemerga, lo acchiappo per un braccio e lo consegno di nuovo nelle mani dei suoi. Lui si solleva in piedi, sull’acqua bassa sopra la roccia, respira forte, ancora, si divincola e torna in mare. Questa volta non si lascia prendere. Ma cosa vuole fare, questo pazzo? Prova a nuotare, s’inabissa e poi risale, la sua pelle quasi s’imbianca. “Terra,” grida, senza quasi prendere respiro, quando la testa esce fuori dall’acqua. Gli vado davanti, lui tende il braccio, gli stringo il polso e lo avvicino a me. Mi butta l’altro braccio al collo, “terra,” ridice, “terra, please, terra”. Caterina mi sbuca vicino, ha gli occhi di sangue e lo sguardo arreso, scuote la testa; io le passo le mani del naufrago che ho attaccato a me, appena le afferra respiro forte, gonfio il petto, mi spingo in alto, mi capovolgo e scendo di testa.
Lo Jonio è bugiardo, ha un viso innocente e la bocca serrata. Sta negando la sua colpa: se ho contato bene, sono stati almeno tre ad andare giù. Ma non c’è traccia dei poveretti spariti. L’acqua è così trasparente che gli si potrebbe credere. Striscio il petto sul fondo, l’aria lentamente mi scappa dalla bocca, fa bollicine insensatamente allegre. Mi arrendo. Domani o dopo il mostro restituirà i corpi, con comodo, ora è inutile stare al gioco di cui il mare è maestro. Ritorno da Caterina e lentamente trainiamo a riva la preda sfuggita alle zanne dello Jonio. Ci stendiamo sulla sabbia già tiepida di sole, la testa mi gira come quando correvo a perdifiato per vincere le corse, da bambino, con i miei compagni; l’acqua che mi è rimasta in bocca e nel naso scende in gola, brucia. Tiriamo il fiato senza parlare.
Ma il riposo non dura, spezzato dalle sirene affannose di chi arriva per salvare o per rendere inutile un’impresa che è stata straordinaria, nata in chissà quale sabbia scossa dal libeccio, lontana quanto la meteora che svanisce fra i lampi delle stelle. Saltiamo su. Quelli che ce l’hanno fatta da soli a raggiungere la spiaggia si mettono a correre, superano l’arenile, s’inerpicano per la collina. Il ragazzo che ho salvato mi guarda, tenta uno scatto, lo blocco per un braccio, “non da lì, quella via porta alla strada e i tuoi amici finiranno in braccio ai poliziotti”. Chissà che lingua parla, chissà se mi capisce. Lui dà un’occhiata ai fuggitivi, mi fissa ancora; faccio qualche saltello di spalle, Caterina mi imita, e lui sceglie: guarda gli altri ma segue noi. Mi giro e corro in direzione della scogliera, mi fermo sotto, individuo la via più agevole per raggiungere la cima del promontorio, evitando di passare sulla strada, scalo le rocce porose di una parete quasi verticale, lui mi sta dietro senza difficoltà, spinto da sotto dalle incitazioni di Caterina: passiamo sopra la galleria attraversata dalla litoranea, raggiungiamo un pianoro, ci buttiamo a terra, sul plaid dove abbiamo passato la notte.
In basso la strada è bloccata. Fra le auto di passaggio, le ambulanze, le pattuglie di polizia e carabinieri, qualcuno dei migranti prova inutilmente a scappare.
Caterina mi passa una delle bottiglie d’acqua che avevamo con noi, mando giù un sorso e la cedo a lui che se l’attacca alla bocca, la scola fino all’ultima goccia e la rovescia a testa in giù.
Lo guardo. I suoi occhi non hanno il bianco, il verde dell’iride emerge dal rosso dei capillari rotti, scruta la strada, me, Caterina. Cerca la salvezza. Faccio un cenno con la testa, gli indico lo scooter con cui siamo arrivati sul Capo Bruzio durante la notte: lo mettiamo in mezzo, io alla guida e Caterina dietro, corriamo veloci sullo sterrato piatto. Il vento caldo che mi ha svegliato è svanito nei segreti del promontorio e la frescura odorosa ha ripreso il proprio posto sotto gli eucalipti e le acacie. Evitiamo la statale, prendiamo solo strade secondarie e raggiungiamo casa mia, alle spalle del paese. Faccio sedere il ragazzo sulla panca di legno sotto la pergola di uva fragola della veranda. “Aspetta qui,” ordino, rimonto in sella e accompagno Caterina a casa.
“Che pensi di fare, col ragazzo, Andrìa? Fra un po’ dobbiamo andare al lavoro.”
“Lo affido alla cura dei miei,” rispondo. “Nonna di sicuro lo rimetterà un po’ in sesto, prima di farlo andar via.”
 
[da Il custode delle parole di Gioacchino Criaco, Feltrinelli, 2022]
 
 
Torna Indietro
Lascia un Commento

Scrivi un commento

Scrivi le tue impressioni e i commenti,
verranno pubblicati il prima possibile!

Ho letto l'informativa sulla privacy e acconsento al trattamento dei dati personali ai sensi dell'art. 13 D. lgs. 30 giugno 2003, n.196

Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

Vai all' Autore

Libri in Catalogo

NEWS

x

Continuando la navigazione o chiudendo questa finestra, accetti l'utilizzo dei cookies.

Questo sito o gli strumenti terzi qui utilizzati utilizzano cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Chiudendo questo banner o proseguendo la navigazione, acconsenti all’uso dei cookie.

Accetto Cookie Policy
X
x