Il levitatore di Adrián Bravi, che una beffarda realtà riporta con i piedi in terra

Luigi Oliveto

26/03/2020

Adrián N. Bravi è uno scrittore argentino di lingua italiana (vive in Italia, a Recanati). Se nei suoi libri è rintracciabile un che di sudamericano, questa cosa è l’eccentricità, il senso dell’assurdo e dell’umorismo, il porre sulla realtà uno sguardo straniante (o, come qualcuno direbbe, ‘magico’). Nel suo ultimo romanzo, “Il levitatore” (Quodlibet), il protagonista è Anteo Aldobrandi, che all’età di quattordici anni scopre la possibilità di levitare e che da allora in poi si riserva di esercitare questo privilegio in spregio alla legge di gravità. Intendiamoci, senza esagerare. A lui bastano pochi centimetri, quel tanto che lo fa sentire con i piedi staccati da terra. Tutto era cominciato a partire da un episodio drammatico, quando suo padre aveva avuto la bella idea di tranciarsi il dito indice della mano sinistra mentre tagliava legna con la motosega. Nel parossismo generale della circostanza, Anteo aveva sottratto il dito paterno e fatto in modo di poterlo conservare dentro un piccolo sarcofago (il «tutankamino»). Era stato proprio dinanzi alla strana reliquia del genitore, seduto su un cuscino, che il ragazzino, un giorno, aveva preso a sollevarsi restando a mezz’aria in quella posizione. E questa prerogativa (l’unica, considerata la sua vita incolore) gli era piaciuto esercitare, finché, giunto a quarant’anni, l’incantesimo viene a rompersi. Dal momento in cui il postino gli recapita una busta verde pastello contenente un’immotivata denuncia di stalking da parte della ex moglie. Comincia così un incubo, gli incontri con l’avvocato, l’avvilimento di un’accusa assurda, il portalettere curioso che continua a recapitargli buste verde pastello, il cane da accudire, la quotidianità spiccia e ineludibile, trovarsi in tribunale davanti a un giudice. Tutto ciò pesa, eccome. Tanto che Anteo non riuscirà più a sollevarsi da terra. Come il trapezista kafkiano, la sua vita era tutta riposta nell’altezza. La precarietà della levitazione lo allontanava dalla caducità delle cose sottostanti. Ora non più. Mai potrà tornare a starsene, in solitudine, sospeso: sul vuoto.
 
***
 
[…]
Durante quel periodo di chiusura e di solitudine, mentre ascoltavo i rumori e le urla dei compagni che provenivano dalla strada, era iniziata la gestazione di una fase interiore che poi, più tardi, si è manifestata attraverso la sollevazione del corpo. Tutto era iniziato, volendo creare una genesi di questa faccenda della levitazione, subito dopo che mio padre si era tagliato un dito con la motosega mentre spaccava la legna per il camino. Mai mi sono state chiare le modalità dell’accaduto, fatto sta che aveva iniziato a urlare come un vitello e le persone che erano vicino a lui, per lo più parenti, erano corse per vedere cosa gli fosse successo. Mia madre cercava di soccorrerlo, mio zio Rocco aveva chiamato l’ambulanza, un vicino di casa il cui cane veniva sempre a pisciare nel nostro giardino cercava di tamponargli l’emorragia; il dito, invece, che ormai non apparteneva più a quella mano, era rimasto da solo in disparte, come un grosso verme buttato a terra; si muoveva pure, in modo quasi impercettibile, con leggeri sussulti, come se stesse subendo una piccola scarica elettrica. Allora, visto che nessuno se lo calcolava perché erano tutti intorno a mio padre, preoccupati più per la mancanza del dito che per il dito stesso, lo avevo preso, l’avevo avvolto in un fazzoletto e me lo ero portato via. Con quale coraggio avrei potuto lasciarlo lì da solo? Sapevo che un domani quel dito sarebbe diventato un ricordo tangibile che mi avrebbe fatto, ogni volta, sentire vicino a mio padre. Arrivato a casa lo avevo messo in un barattolo con della formalina dentro, come avevo fatto già altre volte con certi scarafaggi catturati durante le mie esplorazioni notturne. Non era un dito qualunque, si capisce, era l’indice della mano sinistra, dunque un dito importante e significativo, oltre al fatto che era di mio padre. Era così strano, così attraente. Lo guardavo e riguardavo da tutte le parti. Giorni dopo, mi ricordo, avevo scoperto che dopo averlo prelevato, tutti i presenti durante l’incidente si erano messi a cercarlo per attaccarlo alla mano di mio padre. Erano nate congetture fantasiose riguardo la scomparsa del dito. Qualcuno ipotizzava che lo avesse preso una pantegana uscita da un tombino oppure il cane del vicino che veniva a pisciare nel nostro giardino. Se l’avessero trovato, avevo saputo dopo, con grande dispiacere e senso di colpa, forse, con una microchirurgia, glielo avrebbero potuto riattaccare o glielo avrebbero avvitato in qualche modo. Quando avevo scoperto che sarebbe stato meglio se lo avessi dato agli infermieri che lo avevano soccorso, era già tardi e così mio padre aveva vissuto il resto della sua vita senza l’indice della mano sinistra.
Tempo dopo lo avevo portato dal padre di un mio amico che faceva il tassidermista. La sua specialità consisteva nell’imbalsamare uccelli rapaci. Volevo conservare il dito nelle sue forme naturali e fare di questo una specie di tutankamino da mettere dentro un sarcofago fatto su misura, tascabile. Il padre del mio amico mi aveva detto che sarebbe stato difficile riportarlo alla sua forma originaria di dito normale, perché non aveva appigli necessari e la pelle si era afflosciata per via della formalina.
«Va bene lo stesso, come viene, viene; l’importante è che possa riconoscerlo».
Su questo punto non c’era problema, mi aveva fatto capire il tassidermista, poiché ancora conservava l’unghia intatta, la falange e tutti gli elementi che componevano il dito. E mentre il padre del mio amico ci lavorava sopra, io ero andato anche da un falegname a farmi costruire un sarcofaghino di una decina di centimetri di lunghezza e tre di larghezza, giusto per fare entrare il dito imbalsamato, con uno sportellino nell’eventualità mi venisse voglia di vederlo e di toccarlo.
[…]
Il giorno che avevo portato per la prima volta a casa il dito di mio padre, lo avevo appoggiato sopra un mucchio di libri che erano su uno scaffale della libreria e poi mi ero seduto per terra, senza nessuno scopo, gesto che facevo raramente, anzi, quasi mai, tanto meno d’inverno; non c’era ragione di mettermi seduto per terra, con tutte le sedie che avevamo in casa. Era una mattina fredda, d’inverno, avevo una sciarpa avvolta al collo, i guanti imbottiti, gli stivali e un berretto in testa. Sentivo freddo. Avevo incrociato le gambe, più per noia che per trovare una posizione riposante. Chiudevo gli occhi, poi li riaprivo per guardare il sarcofaghino solitario con il dito di mio padre dentro. Mi ero tolto i guanti e li avevo messi accanto a me. A un certo punto, quasi per magia, mi ero sentito circondato da una specie di venticello arrivato non saprei dire da dove, visto che le finestre erano chiuse, come se un angelo cherubino, invece di soffiare sulla sua tromba annunciatrice di sventure o benedizioni, avesse soffiato su di me per tirarmi su. All’inizio mi ero spaventato, non capivo cosa mi stesse succedendo; inoltre, non mi era chiaro se quella sgravità fosse dovuta alla perdita del peso corporeo o se fosse subentrata qualche forza magnetica. Era una situazione da vertigine. Subito dopo avevo capito che quel venticello era abbastanza vigoroso da reggere me e un animale di grossa taglia insieme, se ci fosse stato in quel momento in camera mia. Sentivo di poggiare su una base solida, sulla quale avrei imparato a fare i miei ragionamenti sulla vita e sulla morte o a spostarmi di qua e di là, secondo l’occorrenza. L’importante era mantenere la solita postura: gambe incrociate, respiro profondo, testa appena abbassata, schiena diritta e le mani appoggiate sulle ginocchia.
Quella mattina del mio debutto nel mondo della levitazione non solo ero seduto in quel modo inusuale, come ho già detto, ma portavo anche un cappotto pesante addosso (mi sono chiesto spesso come facessero i santi levitatori a tirarsi su da terra, in mezzo al deserto o rinchiusi nelle loro celle monacali). Era stata una sollevazione rapida e fulminea, rispetto ad altre che avrei avuto in seguito. In un battibaleno ero arrivato, come faceva lo psicocinetico Willi Schneider, quasi fino al soffitto, che non era altissimo, ma superava abbondantemente due metri e mezzo. Forse era stata l’unica volta che mi ero spinto così in alto. In genere mi rialzavo di poco e lentamente, perché, checché se ne dica, l’importante della levitazione non è quanto uno riesca a staccarsi da terra, ma riuscire a staccarsi e a mantenere una propria stabilità. Cinque centimetri o due metri sono la stessa cosa e io, inoltre, per quanto mi riguarda, sono sempre stato un tipo abbastanza morigerato in questo. Altri, sicuramente, sono arrivati più in alto rispetto a me: sette, otto o anche venti metri d’altezza, dipende dalle condizioni climatiche, aspetti che non mi hanno mai riguardato, giacché ho sempre praticato la levitazione al chiuso, nella mia stanza, salvo le poche volte che, per via del caldo o per via delle pulizie, mi nascondevo dietro la siepe del giardino. Qualche volta mi è capitato anche di levitare in riva al fiume, ma qui apriamo un’altra pagina che mi riservo, eventualmente e tempo permettendo, di affrontare più avanti, quando parlerò del mio innamoramento per una ragazza di nome Florenzia. Ebbene, dicevo, non facevo mai lo spaccone quando c’era da sollevarsi. A volare su un palcoscenico alla David Copperfield e ricevere gli applausi e le congratulazioni del pubblico sono tutti bravi. A farlo in silenzio e in solitudine, fuori dagli sguardi indiscreti, celando il proprio segreto, è un altro discorso.
 
[da Il levitatore di Adrián N. Bravi, Quodlibet, 2020]
 
Torna Indietro
Lascia un Commento

Scrivi un commento

Scrivi le tue impressioni e i commenti,
verranno pubblicati il prima possibile!

Ho letto l'informativa sulla privacy e acconsento al trattamento dei dati personali ai sensi dell'art. 13 D. lgs. 30 giugno 2003, n.196

Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

Vai all' Autore

Libri in Catalogo

NEWS

x

Continuando la navigazione o chiudendo questa finestra, accetti l'utilizzo dei cookies.

Questo sito o gli strumenti terzi qui utilizzati utilizzano cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Chiudendo questo banner o proseguendo la navigazione, acconsenti all’uso dei cookie.

Accetto Cookie Policy
X
x