Il senso di giustizia per i giovani, tra verità astratte ed errori riconosciuti

Francesco Ricci

30/01/2017

Tra gli obblighi verso l’essere umano, verso ogni essere umano, rientrano due tipi di bisogni: i bisogni fisici e i bisogni dell’anima. I primi includono la protezione contro la violenza, il mangiare, il vestiario, l’abitazione, il caldo, le cure quando si è malati, l’igiene. I secondi annoverano l’ordine, la libertà, il radicamento, la responsabilità, l’uguaglianza, la verità, l’onore. Sono tutti bisogni terrestri, sono tutti bisogni vitali; perciò, se non vengono soddisfatti, ha scritto Simone Weil in un suo bellissimo libro, “La prima radice”, l’uomo cade a poco a poco in uno stato più o meno analogo alla morte, più o meno simile a una vita puramente vegetativa.

All’interno dei bisogni legati non alla vita fisica, ma alla vita morale, la giustizia occupa un posto di assoluto rilievo. Prova ne è che poche cose turbano maggiormente dell’essere vittima, o anche solo testimone, di un’azione ingiusta. Vorremmo, infatti, che le nostre esistenze, pur fragili e imperfette, potessero almeno essere dette esistenze giuste, esistenze nelle quali, vale a dire, ciò che abbiamo avuto e ciò che abbiamo perduto è stato, in ogni caso, meritato, al pari di quanto abbiamo compiuto e di quanto abbiamo subito. Ancor di più, vorremo che la società nella quale viviamo fosse una società equa, una società nella quale la distribuzione della ricchezza e la possibilità di accedere a determinati servizi essenziali fossero motivo di orgoglio e non di rabbia o di vergogna per i cittadini.

Nei giovani del Terzo millennio quest’ansia di giustizia permane intatta – né potrebbe essere altrimenti, trattandosi di un bisogno dell’anima, ed essendo l’adolescenza una fase della vita nella quale la fiamma dell’ideale ancora arde e riscalda –, ma, rispetto alle generazioni precedenti, i nostri ragazzi incontrano maggiore fatica a tradurla in condotta quotidiana, a causa del collasso delle due agenzie formative fondamentali in passato: la famiglia e la scuola. Oggi l’educazione, infatti, passa attraverso la strada –  nelle realtà urbane più disagiate –  ed attraverso la televisione e la Rete – in ogni angolo del Bel Paese – a prescindere da ogni distinzione sociale o di censo. E se la prima è eminentemente lo spazio di azione del branco, dominato dalla legge del più forte e dalla violenza, le seconde propongono una serie di modelli che si conformano all’etica del guadagno, alla ricerca del successo facile e a ogni costo, all’ostentazione di una fermezza e di un decisionismo che non ammettono ripensamenti. Quando, in realtà, a definire l’uomo giusto, concorre non già la capacità di fare sempre perfettamente quanto la situazione e la morale richiedono, bensì la sincerità nell’ammettere il proprio errore, se viene commesso uno sbaglio, e la volontà di rimediare a quest’ultimo con tenacia e impegno. Sotto questo aspetto, meritano di essere definiti genitori giusti, insegnanti giusti, non coloro che a parole mostrano in cosa consista la giustizia – magari interrogandosi, come già faceva Socrate, se sia meglio commettere o subire un torto –  ma coloro che offrono una testimonianza, anche muta, anche silenziosa, di cosa significhi essere giusti. Ed essere giusti significa anche non vergognarsi di dire “ho sbagliato”: molte volte un errore – ammesso, dichiarato, riconosciuto – sa orientare una vita e un destino molto più di una verità percepita come astratta e distante e che, in ogni caso, non può né potrà mai essere un possesso definitivo.

Ma quando i genitori sono di fatto assenti, per un eccesso di vicinanza o di distanza dai figli, e quando la scuola mostra di avere a cuore soltanto il profitto degli studenti, trascurando completamente i loro desideri, le loro emozioni, le loro proiezioni, finisce che la televisione, il cinema, Internet, i social network, divengono l’unico spazio preposto all’educazione dei più giovani; un’educazione, però, che, non conoscendo la profondità e i tempi lunghi del confronto dialogico basato sul contatto diretto, banalizza anche concetti come bene, male, bellezza, sessualità, etica, giustizia. Allora, a meno che non si voglia credere con Sartre, il Sartre dello studio dedicato a Baudelaire, che ogni uomo a conti fatti ha sempre la vita che merita, l’unica salvezza può essere rinvenuta nel consigliare a un giovane la lettura di qualche libro, come “Giobbe” di Joseph Roth, che concretamente mostri quanto può essere faticoso, ma anche nobile ed esaltante, essere giusto.
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Francesco Ricci

Francesco Ricci

(Firenze 1965) è docente di letteratura italiana e latina presso il liceo classico “E.S. Piccolomini”di Siena, città dove risiede. È autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento, tra i quali ricordiamo: Il Nulla e la Luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento (Siena, Cantagalli 2002), Alle origini della letteratura sulle corti: il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Siena, Accademia Senese degli Intronati 2006), Amori novecenteschi. Saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Pavese, Bertolucci (Civitella in Val di Chiana, Zona 2011), Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, scritto con lo psicologo Silvio Ciappi (Firenze, Mauro Pagliai 2011), Un inverno in versi (Siena, Becarelli, 2013), Da ogni dove e in nessun luogo (Siena, Becarelli, 2014), Occhi belli di luce (Siena, Nuova Immagine Editrice, 2014), Tre donne. Anna Achmatova,...

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