Il successo al di là del bene e del male. L’umiltà per i ragazzi di oggi

Francesco Ricci

06/02/2017

È difficile essere umili quando il resto del mondo celebra la vetta, il palcoscenico, il piedistallo. Sì, è proprio difficile restare umili. Anche perché molte volte ciò che viene presentato come essenziale non è la liceità, non è la correttezza – correttezza morale, correttezza giuridica – del percorso che conduce alla cima, bensì la cima in sé. C’era un obiettivo da raggiungere. È stato raggiunto. Con quali mezzi, in quali modi non conta. È tutto il resto a non contare, a non contare affatto: la vista dall’alto è incomparabile, talmente incomparabile da porsi al di là del bene e del male.

D’altra parte, quale spettacolo si offre agli occhi degli adolescenti quando sfogliano il supplemento settimanale di un quotidiano o seguono un reality show in televisione in prima serata o navigano in rete alla ricerca di qualche notizia o di qualche video o di qualche fotografia? Lo spettacolo di un’umanità sorridente, giovane, alla moda, bella, che vive come un fallimento il non conoscere le luci della ribalta, quasi che la semplicità e l’anonimato di una normalissima quotidianità costituiscano un’onta o un vizio. Lo spettacolo di un’umanità che spesso il successo lo ha conseguito in modo improvviso, al punto che tra l’oscurità e la fama pare esserci un salto – a consentirlo sono esclusivamente il talento naturale e la buona sorte – e non già un cammino fatto di applicazione, di esercizio, di sacrificio, di studio.

Esiste anche un altro aspetto del problema, ancora più inquietante. Il campione sportivo, l’attore o il cantante idolo delle folle, il nostro vicino di casa che, dopo la partecipazione a un programma televisivo, viene invitato dietro lauto compenso in ogni discoteca del Bel Paese, di frequente ostentano superiorità nei confronti dell’altro, sono convinti – e vogliono convincere – che la persona umile sia un debole, abbia una bassissima considerazione di sé, non sappia farsi valere. E purtroppo, a contenere, se non arrestare, questa “esondazione” di superbia e di orgoglio, anche la letteratura può ormai poco, per il semplice fatto che, salvo poche eccezioni, i giovani non riempiono più il tempo libero dallo studio con qualche buon libro, dove potrebbe trovare non poche testimonianze di quanto sia importante per l’uomo praticare l’umiltà, sia nella sua versione ebraico-cristiana sia nella sua accezione secolarizzata. Basti pensare, volendo limitarci all’antichità e al medioevo, alle tragedie di Eschilo, dove appare centrale il concetto di hybris (“tracotanza”), ad alcune pagine dello storico greco Erodoto, alle Satire di Orazio, ai Vangeli, a Tommaso d’Aquino, al Purgatorio di Dante, che, nel loro complesso, ci ricordano che presumere di essere un dio altro non è che la premessa della propria rovina e, non di rado, anche di quella delle persone che ci stanno intorno.

Una volta il grande critico Gianfranco Contini, parlando di Pasolini, scrisse che la qualità che lo scrittore bolognese “possedeva in rara misura era dunque non l’umiltà ma qualcosa di molto più difficile da ritrovarsi: l’amore dell’umile e vorrei dire la competenza in umiltà”. Questo amore e questa competenza sono certamente, prima di tutto, disposizioni naturali; possono venire, però, rafforzate o indebolite per mezzo dell’educazione, un’educazione intesa tanto come testimonianza quanto come discorso teorico. Come testimonianza, perché il giovane ha bisogno di esempi concreti, visibili, tangibili, che gli dimostrino che si possono raggiungere determinati traguardi senza perdere di vista il concetto di limite, senza travalicare la misura. Un conto, infatti, è possedere un adeguato concetto di sé e desiderare che il proprio valore venga riconosciuto anche dagli altri, un’aspirazione, quest’ultima, che Hegel nella sua Fenomenologia dello spirito giudicava un tratto tipico dell’uomo (senza un legittimo orgoglio ogni meta e ogni ambizione ci sono precluse); altra cosa, invece, sono la boria e la superbia di chi si reputa onnipotente. Ma l’educazione all’umiltà deve passare, per i più giovani, a scuola e in famiglia, anche attraverso un discorso teorico. Occorre ricordare loro che la persona umile non è quella che resta legata alla terra, che tiene lo sguardo rivolto costantemente a terra, che non si alza da terra (dal latino humile(m) connesso al sostantivo humus “terra”), bensì è quella che non dimentica mai, nella buona e nella cattiva sorte, che le proprie radici, al pari di quelle di ogni altra creatura, affondano nella terra. E cosa significa questo? Significa che siamo tutti imperfetti, incompiuti, che abbiamo le nostre zone d’ombra e le nostre mancanze, le nostre, avrebbe detto Pavese, “insufficienze colpevoli”. Di conseguenza, l’errore costituisce per ogni uomo molto di più di una possibilità e la caduta rientra nel destino di vita di chi sta raggiungendo (magari ha già raggiunto) la vetta del monte non meno di chi ancora si muove alle sue falde.
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Francesco Ricci

Francesco Ricci

(Firenze 1965) è docente di letteratura italiana e latina presso il liceo classico “E.S. Piccolomini”di Siena, città dove risiede. È autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento, tra i quali ricordiamo: Il Nulla e la Luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento (Siena, Cantagalli 2002), Alle origini della letteratura sulle corti: il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Siena, Accademia Senese degli Intronati 2006), Amori novecenteschi. Saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Pavese, Bertolucci (Civitella in Val di Chiana, Zona 2011), Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, scritto con lo psicologo Silvio Ciappi (Firenze, Mauro Pagliai 2011), Un inverno in versi (Siena, Becarelli, 2013), Da ogni dove e in nessun luogo (Siena, Becarelli, 2014), Occhi belli di luce (Siena, Nuova Immagine Editrice, 2014), Tre donne. Anna Achmatova,...

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