L’arte di essere amici

Roberto Barzanti

26/11/2015



L’analisi critica di un autore sfociava spesso in un rapporto diretto, che si modulava magari in durature amicizie, e così Cesare Brandi fu attorniato, lungo il suo febbrile itinerario di incontri e scoperte, da una brigata di artisti dei quali era attento interprete e acuto testimone. Non stupisce che nell’anno che celebra il centenario della nascita di Alberto Burri – a Città di Castello, il 12 marzo 1915 – si sia organizzata a Siena una mostra singolare, sotto il titolo ammiccante “Brandi e Burri. Un’amicizia informale”. Dove l’aggettivo allude ad una ruggente stagione creativa non meno che all’affabilità di un’intesa memorabile tra le accese dispute estetiche del secondo Novecento. Il teorico senese nutrì una passione militante per le vicende artistiche e sullo scontroso e cordiale umbro ha lasciato pagine definitive. Metteva conto che, a umile eco dell’esposizione fulcro che s’avvolge su per la spirale del Guggenheim a New York, nascessero appuntamenti incentrati su luoghi e persone che hanno costruito la fortuna di chi all’inizio fu dileggiato con sufficienza. E Cesare Brandi – di nove anni maggiore per età del maestro oggi universalmente riconosciuto – non fu affatto tra gli entusiasti della prim’ora. È restata famosa, e si tramanda nella malevola tradizione orale, la furiosa invettiva che lanciò liquidando con irriferibili epiteti Burri Morlotti e Vedova, tre promettenti giovani accomunati – era il 1957 – nella galleria romana La Salita. E sì che erano passati dieci anni dall’esordio pubblico italiano di Burri, ma ancora la sua rivoluzione non era accolta. Le Combustioni in plastica inorridirono molti. Brandi vi riscontrava una clamorosa conferma della tesi avanzata nella sua “Fine dell’Avanguardia”. A fargli cambiare idea fu Giorgio Morandi, ascoltatissimo e da Brandi ammirato – sottolinea Vittorio Brandi Rubiu – non solo per la sua opera.
 
Il migliore dei moderni - Come un apostolo che tenti con pacata  sentenza di convertire un agguerrito incredulo, il casto Morandi sostenne impavido che Burri era a suo parere «il migliore dei moderni»: proseguiva una ricerca di essenzialità che si spingeva fino a negare la pittura e a ritrovarla, farla emergere dai materiali più banali e quotidiani, da operazioni che rifiutavano qualsiasi indugio decorativo e perfino le estrose macchinazioni dei futuristi e dintorni. La materia conservava intatta il suo peso. E neppure veniva assunta per farne simbolo d’una sorta di “correlato oggettivo” di stati d’animo e di emblematiche situazioni. Brandi era solito difendere con accanimento le sue posizioni, ma era pronto a mutarle davanti all’esame di un manufatto, ai risultati di un’esperienza. Nacque così la sua monografia su Burri del ’63, che segnò una svolta e non solo per la ricezione del rustico asceta di Città di Castello. Basta risfogliarla per cogliere la via seguita e gli approdi raggiunti. Non era ignorata, di Burri, la dolorosa detenzione nel campo di concentramento di Hereford, in Texas, e la scelta di darsi, lui medico, alla pittura per dire senza parole uno smarrimento che l’aveva isolato dalle parti in guerra. Fu una liberatrice “azione catartica” l’intervento esercitato su elementi destinati alla consunzione: «Ho scelto – ha confessato Burri in una delle rare interviste concesse – materiali poveri per dimostrare che possono ancora essere utili. La povertà del materiale non è un simbolo: è un pretesto per dipingere». Ed ecco la sequenza di Catrami, Muffe, Sacchi, Pelli, Gobbi, Cretti, Legni, Lamiere, Carte, Ferri, Combustioni che si susseguono a riscattare nel segno di una “classicità umbra”, severa e nuda, una condanna alla dimenticanza. C’è un che di francescano, di miracolosa manipolazione in Burri. Il suo studio assomigliava ad un antro zeppo di arnesi da tortura. Maneggiava la fiamma ossidrica “come un pennello infernale”, dice Brandi, per ricavare bruciature, lacerazioni, strappi, trasparenze, ferite che formassero un universo di geometriche rispondenze e intoccabili equilibri.
 
La mostra a Siena - Nella mostra senese, tra le 21 opere di artisti della collezione (De Pisis, Guttuso, Manzù, Mastroianni, Afro, Donghi, Scialoja, Romiti, Sadun, Morandi, Tàpies)  spiccano quattro testi dello scontroso amico e son doni di devoto affetto: una minuscola Combustione (1960), un Cretto bianco (per il Natale ’77), un curioso Cippo bianconero (1972) e un grande Cellotex del 1981. Queste due ultime inamovibili opere vanno viste in sede: erano fatte apposta per Vignano, la villa peruzziana di Brandi a due passi dalla città. Posto all’ingresso com’è, il nero lucido che sovrasta la parte opaca del Cellotex sembra accoglierti con rispettosa e silente solennità illuminandosi d’improvviso: un abbraccio dopo lunga assenza. Alberto Burri, artista dei due mondi, non si toglieva dalla testa la collina verde dell’infanzia e quando poteva faceva una scappata a Vignano. «Qui solita vita – scriveva a Brandi da Los Angeles nel dicembre ’65 –, quasi sempre in casa, ‘lavoricchio’ a piccole cose su carta che penso di riportare, e conto i giorni, soprattutto conto i giorni che mancano al ritorno».
 
Articolo pubblicato sul “Corriere Fiorentino” del 19 novembre 2015                                                                                               
 
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Roberto Barzanti

Roberto Barzanti
è un politico italiano. È stato parlamentare europeo dal 1984 al 1994, dal 1992 ha ricoperto la carica di vicepresidente del Parlamento europeo. Dal 1969 al '74 è stato sindaco di Siena. Dal 2012 è presidente della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena. Ha pubblicato "I confini del visibile" (Milano, 1994) sulle politiche comunitarie in tema di cinema e audiovisivo. Suoi saggi, articoli e recensioni tra l'altro in economia della cultura, il Riformista, L'indice dei libri del mese, Gli argomenti umani, Testimonianze, Gulliver, Il Ponte, rivista quest'ultima della cui direzione è membro. Scrive per Il Corriere Fiorentino.
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