La città celeste. Che bello progettare il futuro vivendo a Trieste

Luigi Oliveto

18/03/2021

“Intorno / circola ad ogni cosa / un'aria strana, un'aria tormentosa, / l'aria natia. / La mia città che in ogni parte è viva, / ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita / pensosa e schiva.” È con questi versi che Umberto Saba chiude la poesia “Trieste” (contenuta nella sezione “Trieste e una donna” del Canzoniere); confidenza d’affetto per la sua città bella e particolare, pervasa da quella “scontrosa grazia” che ammalia e tormenta, che innamora di geloso amore. Una simile dichiarazione d’amore per Trieste (città/donna) si ripropone oggi nel romanzo “La città celeste” di Diego Marani (La nave di Teseo) dove l’autore confida fin dalle prime pagine: “Non pensavo che si potesse piangere per una città. Ma allora non sapevo che le città sono donne e che anche di loro ci si può innamorare e non dimenticarle mai.” Romanzo autobiografico di memorie in cui si racconta di un ragazzo (siamo a cavallo degli anni Ottanta) che per sottrarsi all’ingombrante figura del padre, decide di andare a frequentare l’università a Trieste (Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori). Ed è qui – in questa città di luce, mare, vento, crocicchio di tante anime e culture – che il ragazzo si avvia a diventare uomo. Sperimenta e inventaria dentro sé quanto già gli si palesa come vita: amori, amicizie, tormenti, delusioni, enigmi, falsità, idee, ideali. Quella del protagonista è, del resto, l’età dove tutto appare assoluto, esclusivo, totalizzante. Il libro è dunque il racconto di un’educazione sentimentale, ma a dilatarlo in suggestioni ed epifanie è il continuo rimando alla città che, con il suo essere luogo di frontiera e di con/fuse identità, offre quanto di meglio ci sia per un giovane uomo che progetti il proprio futuro, la propria cittadinanza nel mondo. Al punto da eleggere Trieste a “città celeste”.
 
***
 
Arrivai a Trieste la prima volta una luminosa mattina d’ottobre. Dopo un lungo viaggio nel grigiore della pianura, il treno era sbucato di colpo fuori dalla nebbia e sotto di noi era comparso il mare. Luccicava immobile, traversato nella lontananza dalla sagoma fumosa di qualche nave. La rupe a strapiombo sulla ferrovia rosseggiava d’un fogliame autunnale che dilagava in boschi fitti appena la roccia si apriva sull’altipiano. Nei passaggi più angusti il treno fischiava per annunciarsi e lo sferragliare dei vagoni cresceva di intensità. Il cielo limpido dava più nitidi contorni al paesaggio e da una curva all’altra una sempre nuova visione ci appariva della città che si avvicinava. Nello scompartimento eravamo rimasti solo io e un signore attempato, dallo sguardo inquieto, che per tutto il tragitto dalla stazione di Mestre dove era salito non aveva fatto altro che guardare con impazienza fuori dal finestrino. Indossava un vestito sgualcito d’una foggia antica, grigio come il soprabito dalle larghe falde che non si era mai tolto. Quando le prime case cominciarono a sfilare davanti ai finestrini, trasse la sua grossa valigia dal portapacchi e si avviò verso l’uscita. Io lo seguii, caricandomi lo zaino in spalla. Solo allora mi accorsi che piangeva. A tratti nascondeva il volto, ma non poteva trattenersi dal guardare la città che di strada in strada si apriva sotto di noi. Girava all’intorno gli occhi lucidi e allarmati. Presto anche gli altri passeggeri che aspettavano di scendere se ne accorsero e tutti distolsero lo sguardo. Il pianto di un uomo disturba. Non suscita compassione come quello d’una donna o di un bambino. Sembra un capriccio, una debolezza. Anziché consolarlo si vorrebbe punirlo.
“Trenta anni che no tornavo! Trenta anni che no vedevo la mia Trieste...” mormorava lui con la voce rotta, pesticciando e sfregandosi le mani. Erano mani callose e sciupate, dita tozze di lavoratore. Sceso sul binario si dileguò fra la folla della stazione lasciando una scia di tristezza nella gioiosa luce di quell’arrivo che per me invece era un approdo, un vertiginoso inizio. Quella scena mi rimase impressa nella memoria e ancora oggi, dopo tanto tempo, la ricordo con un brivido. C’era negli occhi di quell’uomo l’immanità del destino, il rammarico d’una vita già spesa di cui il sole di quella mattina era l’ultimo bagliore. Non pensavo che si potesse piangere per una città. Ma allora non sapevo che le città sono donne e che anche di loro ci si può innamorare e non dimenticarle mai.
Arrivavo a Trieste ubriaco di irredentismo liceale, appreso sui libri di scuola nelle radiose giornate del maggio che aveva preceduto il mio esame di maturità e attizzato da una gita scolastica a Redipuglia con esaltazioni dannunziane. Per approfondire la mia conoscenza mi ero portato dietro il Canzoniere di Saba e La coscienza di Zeno, più una biografia di Francesco Giuseppe che avevo appena cominciato a leggere, tre libri di papà, datati e firmati con la matita copiativa nella pagina del titolo, come gli piaceva fare. Ma della Trieste vera e delle sue tragedie non sapevo niente. Il mio libro di storia del liceo si fermava al 25 aprile 1945, con la foto della bomba di Hiroshima nell’ultima pagina. Così, scendendo fra i palazzi cupi e le rive fatali, nella luce rossa di quell’autunno inoltrato mi parve di venire a contribuire anche io con la mia patriottica presenza al rinsaldamento della città eroica alla madrepatria. Il primo impatto mi confuse subito. Avevo chiesto a un passante la strada per andare all’università.
“Ciò mulo, te son taliàn? Te ga de ciòr la coriera in via del Coroneo!” mi rispose brusco l’uomo. E fu quella domanda, quel chiedermi se fossi italiano a sorprendermi. Non era forse anche lui italiano? Non eravamo nelle terre irredente, conquistate con tanto sacrificio di sangue agli austriaci? E perché rispondermi in dialetto se aveva sentito che venivo da fuori? In più quell’appellativo, quel “mulo” che a me parve sul momento offensivo. Non conoscevo ancora il carattere di quella città, scontrosa come una vecchia incattivita dall’età, il risentimento in cui viveva rinchiusa, desiderosa di riscatto e di vendetta per il male subito, per l’oltraggio di un tradimento di cui ancora non sapevo nulla. E davvero solo di vecchi sembrava popolata. Si muovevano a sciami per le strade, salivano come cavallette sugli autobus, rancorosi, musoni, dispettosi. Si aggrappavano alle maniglie, si abbarbicavano ai sedili spingendo chiunque al loro passaggio e soprattutto noi giovani. Ci detestavano, non perdevano occasione per importunarci, per maltrattarci, come se fossimo un flagello che si era abbattuto su di loro e da cui dovessero difendersi con tutte le forze. Erano vecchi vigorosi e tenaci, mica i fragili vecchietti bisognosi di un sostegno per attraversare la strada, un’altra razza di vecchi che più invecchiava più sembrava irrobustirsi fino ad arrivare così lontano nel tempo che Dio si dimenticava di fulminarli. La vecchiaia a Trieste pareva contagiosa, un’epidemia che dilagava inarrestabile per la città e che copriva di rughe chi ci arrivava, scaraventandolo nel rimpianto e nel risentimento.  
Mi colpì l’aria marziale che regnava per strade e piazze, dove di colpo si alzava il suono di una marcia e un drappello di reduci sfilava in vecchie divise cenciose, a ricordare con nostalgia perfino le sconfitte purché fossero passate. Ecco, Trieste sembrava adorare il passato, qualunque esso fosse. Un tempo indefinito di cui nello schiocco delle bandiere tese nel vento si sentiva ancora il soffio e allora la città intera tendeva l’orecchio per non lasciarselo sfuggire e fecondamente struggersi. Il presente, così ancora troppo vivo e scivoloso, irruente, precipitoso, suscitava in lei un impeto di ripulsa da cui trapelava anche la consapevolezza che tutto passa e solo passando diviene certo, se non accettabile, comprensibile.
[…]
“Agenzia Amsterdam” c’era scritto sul campanello del signor Ugo Cotiga, mio fittavolo. Un uomo piccolo e schivo che portava sempre un basco nero sulla testa e che come condizione per l’affitto aveva preteso che non suonassi la chitarra, non portassi nessuno in camera, non mi facessi crescere la barba e rientrassi al più tardi alle 23.30. Tutti obblighi che mi sentii di assumere. Così per trentamila lire al mese avevo diritto a una delle quattro camere in affitto dell’appartamento, la seconda del corridoio, e all’uso di un cucinino. Appresi poi che la prima camera era affittata al misterioso signor Francesco che ci veniva con l’amante il pomeriggio e quindi non lo incontrai mai, la terza a un operaio della Fincantieri con cui condividevo il cucinino. Un uomo torvo e scontroso, con gli occhiali spessi e le stanghette riparate con il nastro adesivo che destava in me una profonda repulsione. Aveva un che di morboso, di malsano, forse un vizio segreto e, sospettavo, pile di giornali pornografici nascosti nella sua camera dove nessuno entrava mai, neanche la signora Lella, la bovina moglie del signor Cotiga, che nelle altre stanze invece faceva le pulizie. Qualche volta me lo ero ritrovato nel cucinino le rare sere in cui ero tornato a casa per la cena. Ci eravamo sopportati nell’angusto spazio, ognuno a cuocersi il proprio rancio. Io una pasta o una minestra, lui frattaglie puzzolenti e altre robe immonde di cui impestava l’aria, malgrado la finestra che non si chiudeva. Le friggeva in una padella che poi mi guardavo bene dall’utilizzare. Restavo nel cucinino il minor tempo possibile ma dei suoi intingoli mi restava comunque il tanfo nei vestiti. Per fortuna non c’era da fare conversazione, ché il bruto cucinava con l’auricolare della radio infilato in un orecchio e, se parlava, parlava da solo, commentando fra sé le notizie del giornale radio o i risultati delle partite. La quarta camera era sfitta e invano, su richiesta del signor Cotiga, affissi un annuncio sulla bacheca della facoltà. “Affittasi camera singola – uso cucina – ogni comodità in stabile centralissimo – niente meridionali”. Fu forse quella discriminazione, assieme alla sua cognizione di meridione che impedì al signor Cotiga di trovare un inquilino per la quarta camera del suo appartamento. Scoprii poi che non era di sua proprietà ma di un’assicurazione che glielo affittava per una somma irrisoria. Ogni camera era riscaldata da una stufa a gas di cui l’affittuario doveva provvedere la bombola. Il bagno in comune nel corridoio era così grande che vi regnava un freddo glaciale ma per fortuna l’acqua del boiler era sempre bollente e immerso nella vasca riuscivo a riscaldarmi. Nella mia camera mi rifugiavo sotto le coperte ad ascoltare nel buio un nastro di canzoni estive, un caleidoscopio di ricordi con cui mi struggevo sporgendomi il più che potevo sull’abisso della nostalgia. Una clausola del contratto di affitto che all’inizio non avevo preso sul serio prevedeva la provvigione del pranzo domenicale. Mi aspettavo un sacchetto di plastica con dentro tonno in scatola, un panino e un’arancia, come quello che forniva la mensa universitaria, e invece, con mia grande sorpresa, fin dalla prima domenica fui invitato nella cucina della signora Lella per un lauto pranzo a base di ricchi piatti istriani, da cui uscivo puntualmente ubriaco. Ogni volta che arrivavo alla fine del bicchiere colmo fino all’orlo di un vino nero e appiccicoso credendo di essermene liberato, il signor Cotiga lo riempiva di nuovo, con visibile soddisfazione. Era vino di suo fratello, veniva dai vigneti di famiglia rimasti oltreconfine. Pensai che invitandomi alla loro tavola, io solo degli affittuari, i coniugi Cotiga cercassero un poco di compagnia. Forse ricordavo loro il figlio Ivano, scomparso in guerra. Ne tenevano una fotografia assieme ad alcune immagini sacre in un altarino in fondo al corridoio su cui brillava un lumino che rischiavo ogni volta di spegnere al mio passaggio quando, rientrando la sera, dovevo aprire la porta a vetri che veniva chiusa dopo cena. I coniugi Cotiga mi volevano bene e cercavano di proteggermi da quelli che a loro parevano i pericoli della città, sconsigliandomi di avventurarmi nel quartiere di Cavana, noto ricettacolo di prostitute, e soprattutto raccomandandomi di evitare gli sciàvi, quella torma chiassosa e malvestita che scendeva dai treni venuti dalla Iugoslavia e infestava la città i sabato pomeriggio, soprattutto il quartiere della stazione, per venirvi a comprare merci introvabili oltreconfine. Il signor Cotiga me li descriveva come gente senza Dio e durante i pranzi domenicali, con l’eloquio alterato dal vino, mi raccontava della sua casa in Istria da cui era stato cacciato e che era caduta nelle mani di quella gente che non sapeva coltivare niente, che camminava scalza e bruciava i mobili per scaldarsi.
 
[da La città celeste di Diego Marani, La nave di Teseo, 2021]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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