La Forza del destino. Nuova avventura del commissario Bordelli

Marco Vichi

03/11/2011

In anteprima pubblichiamo un brano da "La Forza del destino" (Guanda editore) di Marco Vichi

Fuori era già notte. Abitava in quella vecchia cascina da poco più di un mese, e accendere il fuoco era già diventata una piacevole abitudine. Dopo averci pensato per anni, alla fine ce l'aveva fatta. Era riuscito a vendere la casa di via del Leone e aveva comprato un casale in campagna, nel comune di Impruneta. Una grande casa padronale su due piani a qualche chilometro dal paese, lungo una strada sterrata piena di buche e di sassi dove non passava mai nessuno. Un luogo isolato e selvaggio... Hic sunt leones.

L'acqua veniva tirata su da un pozzo con l'autoclave, come riscaldamento c'era una stufa di ghisa al primo piano e il camino, e per fare allacciare il telefono aveva dovuto aspettare quasi tre settimane. Ma ogni giorno che passava era sempre più convinto di aver fatto la scelta giusta. Adesso che non doveva più andare in giro a mettere il sale sulla coda agli assassini, il tempo non gli mancava. Aveva anche comprato parecchi libri, e a volte passava l'intero pomeriggio a leggere, seduto in poltrona davanti al fuoco. La città era più lontana della luna, anche se per arrivarci ci voleva sì e no un quarto d'ora di macchina. Se pensava a Firenze immaginava sempre le stesse cose: la sudicia e spessa riga di nafta che ancora incrostava le facciate di chiese e palazzi, il fango che stagnava nelle cantine, i negozi sventrati, le botteghe che non avevano riaperto, il puzzo dei gas di scarico... Ma anche i giovani che sfrecciavano su Vespe e Lambrette, e le ragazze che nei mesi caldi portavano minigonne cortissime che facevano l'effetto di un pugno in testa.

Preparando scatoloni e borse per il trasloco aveva trovato un sacco di cose che non vedeva da anni, o che addirittura non sapeva più di avere. Pacchi di fotografie di famiglia, vecchie lettere, due pistole della guerra, i pugnali del San Marco ancora sporchi di sangue, fregi nazisti strappati dalle divise dei cadaveri... Aveva addirittura ritrovato la scheggia di siluro che gli aveva sfiorato la tempia quando era imbarcato sui sommergibili, con un'alga secca impigliata tra le increspature del metallo. L'aveva messa nel cassetto del comodino, per non perderla di nuovo.
Accese la quinta sigaretta della giornata e si mise a guardare la fiamma che divorava la carta, la fascina, i legnetti, le pine, per poi abbracciare i ciocchi con le sue lingue rosse e dorate. Ogni tanto si sentiva uno scoppiettio, e uno sciame di scintille saliva in alto scomparendo nel buio della cappa.
(...) Una volta alla settimana passava il treccone, che adesso invece della bicicletta aveva una Giardinetta con il bagagliaio pieno di ogni genere di cose. Non sempre riusciva a vendere o a scambiare qualcosa, però sapeva riparare gli ombrelli e le persiane che non chiudevano bene, sapeva arrotare i coltelli e le lame del trinciaforaggi, e accettava volentieri un bicchiere di vino facendo due chiacchiere, portando di casa in casa notizie fresche che magari abbelliva a piacere.

Aveva fatto bene a comprare quella grande casa. Compreso nel prezzo c'era anche un ettaro di terreno incolto con un centinaio di olivi abbandonati. La posizione era magnifica, tutta a solatìo e niente a bacìo, come dicevano i contadini della zona. La vista si perdeva lontano, abbracciando lo sfondo di un dipinto di Leonardo. File di cipressi, vigne, oliveti, distese di terra rossastra, colline morbide con i crinali ricoperti di boschi neri che al tramonto diventavano viola, come in certi quadri dell'Ottocento. E pensare che alla fine dei conti gli erano avanzati diversi milioni. Dopo l'alluvione gli appartamenti dal terzo piano in su erano diventati molto più cari. Invece la campagna non la voleva più nessuno. La campagna era l'orrore. Non solo per i figli dei contadini, che scappavano in città dietro a un sogno che li attirava come una bellissima puttana. Anche i padroni volevano disfarsi di quei fabbricati che ormai non valevano più nulla, prima che andassero del tutto in rovina. Vendevano in fretta, senza curarsi troppo del prezzo. Il proprietario che gli aveva venduto la casa, un uomo sui sessant'anni che aveva l'aria di non aver mai lavorato, non si era nemmeno preoccupato di portare via le sue cose. Aveva lasciato tutto, grandi armadi antichi, cassettoni di ciliegio, letti in ferro battuto, stufe di terracotta, una madia che odorava di legno e di farina, tavoli, sedie, credenze intagliate e addirittura due tavolette scortecciate dipinte a olio del Cinque o Seicento, di soggetto religioso. Nulla di prezioso, figuriamoci, ma erano assai piacevoli da guardare. Le aveva appese nella sua camera da letto, e la notte, prima di spegnere la luce, gli capitava di restare a osservarle per qualche minuto cercando di capire a quali maestri si era ispirato l'ingenuo pittore.
La notte il silenzio era assoluto, interrotto ogni tanto dal verso di qualche animale, dal rumore sordo di un branco di cinghiali che correva tra gli olivi, o da uno schianto della brace al piano di sotto. Aveva amato quella casa a prima vista, come gli capitava a volte con una donna che vedeva passare per strada. Si era sentito bene tra quelle mura storte, su quei pavimenti di cotto mezzi imbarcati. Dopo aver vissuto per anni in un appartamento, adesso gli piaceva dover salire una scala e fare una camminata per andare dalla cucina alla camera da letto. In campagna gli sembrava di sentirsi più giovane, a parte quando si guardava allo specchio.
Da una porticina a piano terra si entrava nella parte più campagnola. Una vera cantina con la volta di mattoni, una stalla che ancora puzzava di animali, con vecchie gabbie per conigli costruite alla meglio da qualche contadino. C'era addirittura un vecchio frantoio con la grande ruota di granito e l'asta per attaccarci il ciuco, dove per adesso teneva le cataste di legna da bruciare. Chissà, magari un giorno avrebbe rimesso a posto quelle stanze e la casa sarebbe diventata ancora più grande. Avrebbe potuto viverci con una donna e non vederla per tutto il giorno. Sorrise, ma con amarezza. Quando pensava a una donna pensava ancora a Eleonora...
Sentì in lontananza il motore di una macchina che si avvicinava, e guardò l'orologio appeso al muro. Le sette e mezzo. Puntuale come sempre, pensò. Buttò la cicca nel fuoco, si alzò con calma e mise una pentola d'acqua sul fornello più grande. Sbirciò dalla finestra della cucina. Un lampione arrugginito murato sulla facciata rischiarava appena l'aia, e nell'oscurità s'intravedevano le cime dei cipressi scosse dal vento. La macchina si fermò davanti alla casa, i fari si spensero e si sentì sbattere una portiera. Un'ombra si avvicinò alla porta, e Bordelli andò ad aprire.

da La Forza del Destino (Guanda) di Marco Vichi

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Marco Vichi

Marco Vichi

Marco Vichi nasce a Firenze nel 1957. Nel marzo 1999 esordisce come scrittore con il romanzo L’inquilino (Guanda). Seguono poi Donne donne (Guanda, 2000), Il commissario Bordelli (Guanda, 2002), Una brutta faccenda. Un’indagine del commissario Bordelli (Guanda, 2003), Il nuovo venuto. Una nuova indagine del commissario Bordelli (Guanda, 2004), Perché dollari? (Guanda, 2005), Il Brigante (Guanda, 2006), Firenze nera (con Emiliano Gucci, Aliberti, 2006), Nero di luna (Guanda, 2007), Bloody Mary (con Leonardo Gori, 2008), Per nessun motivo (Rizzoli, 2008), Buio d’amore (Barbès, 2008), Morte a Firenze (Guanda, 2009), il quarto romanzo del commissario Bordelli. Ha curato le antologie Città in nero (Guanda, 2006), Delitti in provincia, (Guanda, 2007). I suoi libri sono tradotti in greco, portoghese, spagnolo e tedesco. Dal 2003 tiene laboratori di scrittura in varie città italiane e presso il corso di laurea in Media e Giornalismo dell’Università...

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