La zona

Carlo Legaluppi

20/03/2020

L’orologio della cattedrale batte il decimo cupo rintocco. Tutt’intorno è silenzio. Nessun rumore turba la fredda quiete serale della cittadina. La spessa foschia e la pioggerella che cade incessante da alcune ore, rendono incerti e spettrali i contorni delle costruzioni e degli alberi. Dall’asfalto bagnato sprizzano scintille sotto la luce dei lampioni e dei neon dei locali chiusi. Nessun autoveicolo in transito. Lungo le vie e nei parcheggi sostano silenti solo le macchine dei residenti. Attraverso le persiane serrate filtra il riverbero dei lampadari e il bagliore degli schermi televisivi, ma non un parlottio, una risata, un suono esce dalle mura domestiche. Nella semioscurità un uomo alto e slanciato cammina spedito, intabarrato in un eskimo scuro con il cappuccio tirato sulla testa, che nasconde i contorni del suo volto. Di tanto in tanto si ferma per girarsi e guardarsi alle spalle, con fare circospetto. Poi riprende a muoversi velocemente, emanando dalla bocca impalpabili nuvolette di alito biancastro.
 
Giunto di fronte a un imponente cancellata di ferro battuto sormontata da una grande croce - unico accesso nel lungo muro perimetrale di cemento e mattoni - prima si genuflette in silenzio e, subito dopo, senza esitare si arrampica e scavalca. Appena tocca terra il buio lo avvolge. Mentre si muove lungo stretti sentieri di ghiaia, impercettibili fiammelle danzano nell’aria e sembrano guidarlo tra le centinaia di lapidi che tappezzano il grande cimitero. Il triste peregrinare termina davanti a una tomba scavata di fresco e non ancora ricoperta di candido marmo. Sulla nuda terra solo una targa con inciso un nome, un cognome e due date: Mirella Rossi 2 gennaio 2015 - 5 marzo 2020. L’uomo si raccoglie in preghiera per alcuni lunghi istanti e, dopo aver gettato una rosa recisa sul tumulo, si allontana ripercorrendo la strada a ritroso. Uscito dal cimitero, si avvicina a un’elegante villetta unifamiliare, a due piani, dalla quale non promano segni di vita.
 
Estrae dall’eskimo un piede di porco e, senza preoccuparsi di non far rumore, scassina brutalmente il portoncino d’ingresso. Penetra nell’androne, con calma sale una breve rampa di scale e forza la porta dell’appartamento. Entra. Accende la luce che illumina un lungo ingresso arredato con mobili di design e pregiati accessori di porcellana e cristallo.
Ignora il salotto, la cucina, i bagni, due ampie camere. Posa infine la mano tremante sulla maniglia di una stanza, la apre titubante, preme l’interruttore del lampadario dai colori sgargianti e punteggiato di personaggi dei cartoni animati. Si guarda intorno con aria smarrita. Apre i cassetti e le ante dell’armadio laccato, butta all’aria giocattoli e vestiti, fruga sopra i ripiani, scosta inutilmente la tenda che scherma la finestra. Quando sta per arrendersi, vede qualcosa spuntare da sotto il lettino. Con il cuore che batte all’impazzata, gli occhi umidi e l’emozione che gli serra la gola e rende arida la bocca, si avvicina e raccoglie quello che sta cercando: la cosa per la quale sta rischiando l’arresto e non solo.
Adesso deve lasciare la casa e dirigersi velocemente verso la periferia.
 
Sa che non sarà facile uscire da quel luogo evitando i posti di blocco di polizia e carabinieri.  Superarli un’ora prima non è stato semplice, ma deve assolutamente provarci.
Tutte le strade che portano alla cittadina sono infatti controllate e pattuglie ispezionano costantemente pure i viottoli di campagna. Arrivato al sentiero utilizzato in precedenza, attende che la ronda sia passata e, non appena scompare dalla sua vista, si getta a perdifiato nello stradello sterrato. Corre, corre, corre, con il petto che gli brucia e il fiato sempre più corto. Ormai è lontano, si sente al sicuro, si ferma piegato dallo sforzo con le mani appoggiate sulle cosce e il sudore che gli impregna i corti capelli e scorre gelido lungo la fronte, le gote e la schiena. Nel sollevare la testa, le luci di numerose torce gli abbagliano gli occhi. Uomini e donne in divisa lo circondano con i volti semicoperti da mascherine e le armi in pugno.
 
Il quarantenne - moro, stempiato e con la barba e il pizzetto alla D’Annunzio - alza le mani e, con una certa riluttanza, si lascia ammanettare. Nella concitazione del momento qualcosa gli scivola dalla tasca dell’eskimo e cade nel fango. Uno degli carabinieri involontariamente calpesta il fagotto, mentre un urlo disumano e un’imprecazione escono dalle labbra del fermato: «Noooo! Maledetto!». L’agente, per impedire che l’uomo si lanci contro di lui a testa bassa, lo colpisce con lo sfollagente alla spalla e lo getta a terra. In un attimo intervengono anche i suoi colleghi che bloccano l’individuo e, senza dargli il tempo di proferire parola, lo spingono all’interno di una volante parcheggiata lì vicino, che parte con il lampeggiante acceso. Il fermato, completamente inzaccherato e stretto nell’auto tra due poliziotti, intervalla per un po’ singhiozzi a frasi smorzate: «È stato tutto inutile! Sono un incapace, un fallito! Perdonami Michela…», prima di chiudersi in un tetro mutismo. La vettura raggiunge in pochi minuti la caserma del comando di compagnia. L’uomo viene quindi condotto in una stanza per essere interrogato dal Luogotenente dell’Arma Andrea Serpi, un militare segaligno, glabro e dai modi spicci e decisi.
 
Tutti i tentativi di farlo parlare risultano però vani. Il Sottoufficiale riesce solamente ad appurare le generalità dell’uomo, grazie alla carta d’identità e alla patente rinvenute durante la perquisizione. Si tratta di Marco Travagli, impiegato e residente in un vicino paese dell’entroterra. Una rapida verifica e salta fuori che la persona è coniugata con Anna Valli e padre di una bimba di cinque anni. Trovato il numero del telefono fisso della sua abitazione, Serpi lo compone febbrilmente. Gli risponde una voce femminile carica di ansia: «Pronto… pronto…con chi parlo?».
«Buonasera, sono il Luogotenente Serpi dei carabinieri, parlo con la signora Valli? Mi scusi il disturbo, vorrei sapere se lei è la moglie del signor Marco Travagli…».
«Sì, certo! Gli è forse successo qualcosa? Ha avuto un incidente? Non mi tenga sulle spine!», supplica la donna con un timbro stridulo e alterato.
«Signora si calmi, suo marito sta bene, ma è in stato di fermo».
La donna deglutisce rumorosamente e, dopo essersi schiarita la voce, sbotta quasi meccanicamente: «Nel tardo pomeriggio Marco è uscito da casa molto agitato ed è partito in macchina a grande velocità, senza neppure portare con sé il cellulare. Sentendo squillare il telefono ho temuto che gli fosse capitato una disgrazia. Ma perché Marco è in stato di fermo? Cosa ha combinato?».
 
«Suo marito si è introdotto in una cittadina interdetta all’ingresso e all’uscita per i non residenti e quando è stato intercettato dagli agenti ha reagito lanciandosi contro uno di loro, in preda a una furia cieca. Si è quindi rifiutato di fornire spiegazioni in merito al suo comportamento», sintetizza il Serpi, guardando attraverso la parete a specchio il fermato accasciato sulla sedia della stanza degli interrogatori.
«Non è possibile, ci dev’essere un errore. Perché mai non avrebbe rispettato il divieto d’entrata in quel posto?», commenta la signora Valli, assalita nuovamente dall’angoscia.
Quando il carabiniere le dice il nome della località, la donna si sente mancare e con un filo di voce mormora: «Non può essere una coincidenza. È la città dove abita, in via De Biasi 12, la famiglia Rossi. Sono i nostri più cari amici. Ma cosa ci sarebbe andato a fare lì Marco? Se era loro che cercava, sapeva benissimo che non li avrebbe trovati a casa!».
«Signora, mi faccia capire. Dov’è questa gente di cui parla?».
«È una storia straziante. Qualche giorno fa la loro figlia di cinque anni, Mirella, coetanea e amica della nostra bambina, è morta colpita in maniera repentina e virulenta dal morbo che sta devastando la zona. Subito dopo i genitori, che mostravano sintomi analoghi, sono stati ricoverati nel reparto di malattie infettive dell’ospedale regionale, dove versano in condizioni gravi, ma stazionarie».
«E lei come ha saputo tutto questo?», domanda il sottoufficiale sospettoso.
«Ci hanno avvisato alcuni loro compaesani di cui non ricordo il nome…».
«Mmm… Va bene, signora», risponde Serpi, colto dalla sensazione che la signora stia mentendo. «In ogni caso, le lascio l’indirizzo della caserma affinché possa incaricare un avvocato del patrocinio di suo marito e di presenziare al colloquio che il PM avrà con lui domani mattina alle nove e trenta. Buonanotte».
«Grazie, lo farò immediatamente. Un mio cugino lavora in uno studio legale e sicuramente saprà darmi indicazioni al riguardo. Arrivederci».
 
Chiusa la telefonata un’idea assurda comincia a frullare nella testa del carabiniere. Indossa quindi la giacca impermeabile e, dopo aver avvisato il piantone di tenere sotto controllo il fermato, si fa accompagnare con l’auto di servizio alle porte della cittadina dove il Travagli è stato individuato. Confabula per qualche minuto con il collega che comanda il servizio di vigilanza e, dopo essersi messo la mascherina e i guanti, raggiunge a piedi l’indirizzo della famiglia Rossi. I segni di scasso sul portone esterno sono evidenti, come quelli sulla porta dell’appartamento. Con prudenza il carabiniere entra e inizia a ispezionare le varie stanze che non presentano apparenti segni di furto o di manomissione. Solo la cameretta risulta sottosopra. Il Luogotenente avvisa i suoi colleghi affinché provvedano a far riparare gli ingressi della casa, raccomandando loro di non toccare nulla e di non alterare in alcun modo lo stato degli ambienti. Tornando indietro, decide di fare un sopralluogo nello spiazzo dove è avvenuto l’arrestato. Con l’aiuto di una pila elettrica batte palmo a palmo la radura fino a che, sotto uno spesso strato di fango, nota uno strano fagotto. Lo raccoglie e, vedendo di cosa si tratta, un sorriso gli illumina i tratti volitivi del viso.
 
Risale sull’auto di servizio e ritorna celermente in caserma. Nel bagno del suo ufficio lava e asciuga alla meglio quello che ha trovato. Dopodiché si reca nella stanza degli interrogatori. Marco Travagli è ancora seduto scompostamente sulla sedia, nella stessa posizione in cui l’ha lasciato quattro ore prima. La faccia, le mani, i vestiti bagnati e imbrattatati di melma, gli occhi vacui e fissi nel vuoto.                                              
«Questo deve essere suo!», prorompe Serpi, avvicinando al viso dell’uomo quello che tiene nella mano destra.
Il Travagli ha un sussulto e come punto da un nugolo di vespe scatta in piedi e, nonostante le manette che gli stringono i polsi, riesce a prendere tra le mani l’orsacchiotto di stoffa bianca e rossa, macchiata qua e là di fango, sulla cui pancia è disegnato un grappolo di ciliegie scarlatte. Calde lacrime gli sgorgano inarrestabili dalle iridi grigie, mentre sussurra commosso: «Grazie di cuore».
Il Luogotenente gli porge un bicchiere d’acqua, aspetta che la sorseggi e che si calmi, quindi lo fa sedere di nuovo e gli intima puntandogli l’indice all’altezza dello sterno: «Ora mi racconterà tutto dall’inizio».
 
L’uomo lo osserva per qualche istante sbigottito, apre e chiude la bocca indeciso, guarda l’orsacchiotto che stringe nel pugno e che gli rimanda un sorriso ingenuo e, finalmente, si decide a parlare: «Il primo marzo scorso io, mia moglie e nostra figlia Michela ci trovavamo a casa della famiglia Rossi, da noi conosciuta in ospedale durante il parto delle nostre figlie, nate a distanza di un paio di giorni l’una dall’altra. Mirella, la loro bimba, il 2 di gennaio 2015 e Michela il 4 dello stesso mese. Da allora siamo diventati praticamente inseparabili. Quel maledetto primo marzo Mirella, che sin dalla nascita ha mostrato una gracile costituzione e continui problemi di salute, si è improvvisamente ammalata: febbre, tosse e raffreddore. Abbiamo pensato a una forma influenzale, ma nel giro di poche ore le sue condizioni sono peggiorate e il pediatra, prontamente intervenuto, l’ha fatta ricoverare nel reparto di rianimazione per grave insufficienza respiratoria. Dall’ospedale i nostri amici ci hanno telefonato avvisandoci che i medici avevano deciso di trattenere anche loro essendo risultati positivi, come la bambina, al tampone del virus che sta ammorbando quella zona».
 
L’uomo, decisamente provato, s’interrompe e chiede un altro bicchiere d’acqua. Si asciuga gli occhi con un fazzoletto stropicciato, si soffia rumorosamente il naso e riprende non senza difficoltà il proprio racconto: «Compresa la situazione, abbiamo rifatto in fretta e furia le valigie e ce ne siamo andati dall’abitazione dei nostri amici, prima che i posti di blocco delle forze dell’ordine sigillassero la zona. Giunti a casa nostra, per prudenza, ci siamo tutti e tre misurati la febbre e visto che né noi né la bimba mostravamo sintomi di sorta ci siamo tranquillizzati. Tenendoci in contatto telefonicamente con i coniugi Rossi prima e poi, quando si sono aggravati, con i genitori di lui, abbiamo appreso che Mirella il 5 marzo non ce l’aveva fatta a superare l’ennesima crisi respiratoria ed era morta. Povera bambina!», esclama prendendosi la faccia tra le mani e lasciandosi andare a un pianto dirotto.
 
Con un enorme sforzo di volontà riesce ritornare in sé e a proseguire nella narrazione: «La notizia ci ha sconvolti, ma date le restrizioni finalizzate a evitare la diffusione del virus, non siamo potuti andare al funerale. Abbiamo solo saputo che la bambina è stata sepolta accanto alla tumulo in cui riposano i suoi nonni materni. Un posto da me ben conosciuto, visto che il 2 di novembre di ogni anno ci vado a deporre fiori sulla tomba. Purtroppo, alla disperazione per la morte della bimba e per lo stato di salute dei nostri amici si è accompagnato un altro problema. Michela, appena ritornata a casa nostra, ha cominciato a rifiutarsi di dormire e mangiare senza il suo orsacchiotto Ciliegino. All’inizio abbiamo pensato a una bizza, ma vedendo che non cedeva ci siamo messi a cercare il pupazzo, regalato a nostra figlia proprio dai Rossi per il suo primo compleanno e, da quel giorno, diventato il suo compagno di giochi. Non trovandolo, ci siamo ricordati che Michela l’aveva portato con sé dai nostri amici. Nella fretta di andarcene l’avevamo dimenticato in quella casa, dove non saremmo potuti ritornare per prenderlo, dato il cordone sanitario che circondava la zona. Abbiamo pertanto cercato di spiegare la cosa a Michela, ma non ha voluto sentire ragioni e, anzi, si è intestardita ancora di più nel suo rifiuto di mangiare e dormire, deperendo rapidamente. Nel giro di un paio di giorni siamo stati costretti a farla visitare dalla pediatra che le ha prescritto vitamine e qualche blando farmaco per sollecitarne il sonno e l’appetito. Piano piano Michela ha iniziato a fare sonnellini sempre più lunghi e a mangiare qualcosa. Proprio quando cominciavamo a tranquillizzarci, è apparso un leggero raffreddore, seguito da qualche colpo di tosse e da alcune linee di febbre che hanno debilitato ulteriormente la nostra bambina. Michela ha anche ripreso a lamentarsi e a piangere chiedendo continuamente del suo Ciliegino. La pediatra, alla quale non abbiamo accennato nulla di quanto capitato ai nostri amici Rossi, ci ha detto che probabilmente si trattava d’influenza e ci ha prescritto specifici medicinali. Ha però precisato che se i sintomi non fossero regrediti rapidamente le avrebbe fatto fare il tampone per verificare se fosse stata colpita dal noto virus».
 
Detto questo inghiotte un groppo di lacrime e saliva e tace, perso in un turbinio di pensieri. Incoraggiato dal Graduato che, sedendosi accanto a lui gli batte una pacca sulla spalla, l’uomo riesce ad andare avanti: «Vedere mia figlia che si agitava, grondava di sudore e, quasi cianotica in volto, chiedeva a gran voce del suo orsacchiotto, mi ha faceva stringere il cuore. Davanti agli occhi avevo anche il visino smunto e sofferente di Mirella e m’immagino Michela nelle stesse condizioni. Ho quindi preso quella che ritenevo l’unica decisione possibile per ridare serenità alla mia bambina e per non lasciarla ad affrontare la malattia senza il suo amichetto di stoffa. In macchina ho raggiunto la periferia della cittadina in cui abitano i Rossi e, proseguendo a piedi attraverso un sentiero di campagna poco battuto che costeggia l’argine del fiume, sono entrato nell’abitato intorno alle dieci di sera. Avendo la popolazione raccolto l’invito delle autorità a non uscire e date le pessime condizioni climatiche, a quell’ora le vie erano praticamente deserte. Mentre camminavo, quello che mi ha colpito è stato il silenzio profondo, irreale che mi circondava. Sembrava di stare in una città popolata di spettri. Una sensazione stranissima, da far accapponare la pelle», afferma l’uomo in preda a uno stato di evidente agitazione e scosso da ripetuti brividi, nel mentre ricomincia a descrivere quanto accaduto: «Ho preso il coraggio a quattro mani e, per prima cosa, mi sono recato al cimitero. Ho scavalcato la cancellata e sono andato a dire una preghiera e a deporre una rosa sulla tomba di Mirella. Poi sono andato a casa dei Rossi e, puntando sul fatto che è ubicata in una via appartata, ho scassinato il portone e la porta dell’appartamento per cercare Ciliegino. L’ho trovato, dopo una lunga ricerca, abbandonato sotto al lettino di Mirella. Felice, sono ritornato verso l’auto, ma i suoi colleghi che ero riuscito a eludere all’andata, mi hanno scoperto. Mentre mi stavano ammanettando il pupazzo mi è caduto dalla tasca ed è finito sotto gli scarponi di un carabiniere. Ho urlato e ho fatto per chinarmi per riprenderlo, ma il mio gesto è stato interpretato come un tentativo di ribellione. Così mi sono preso una manganellata nella spalla, sono finito a terra e senza poter dire nulla sono finito in questa stanza. Il senso di sconfitta e di umiliazione per non essere riuscito a riportare Ciliegino a mia figlia mi ha annichilito, togliendomi ogni stilla di energia e la voglia di chiarire la mia posizione. Grazie davvero per averlo ritrovato. E ora affronterò serenamente qualunque conseguenza del mio gesto».
 
«Mmm…sarà il PM a decidere domani mattina, o meglio questa mattina, visto che sono già le sei. Per ora si riposi. Io intanto farò riavere l’orsacchiotto a sua figlia».
Uscito dalla stanza, Serpi s’incammina accigliato verso il suo ufficio. Si siede dietro la scrivania, alza la cornetta del telefono e compone il numero del suo amico professor Luca Tinacci, primario del Laboratorio di Virologia del principale ospedale del capoluogo.                     
«Che accidenti vuoi a quest’ora Andrea?», brontola il medico, con la bocca impastata dal sonno.
«Scusami Luca, ma ho bisogno di un consiglio urgente. Temo che ci sia il rischio che l’infezione in corso possa essersi propagata anche in una zona diversa rispetto a quelle già circoscritte» e, fatta questa premessa, riepiloga al professionista i fatti salienti raccontatigli dal Travagli.
Senza attendere che Serpi termini di parlare, il professor Tinacci asserisce lapidario: «Questa storia non mi piace per niente. Il tuo fermato, i suoi familiari, tutti quelli che hanno avuto contatti con loro e, in particolare, tu, dovrete essere sottoposti al tampone e messi sotto stretto monitoraggio medico. Fammi avere al più presto i loro nomi e recapiti. Provvederò io ad avvisare i sanitari che si occupano della cosa affinché intervengano al più presto».   
«Ti ringrazio Luca, a risentirci tra poco».
 
Chiusa la telefonata Serpi ricostruisce, anche con l’aiuto del Travagli, l’elenco delle persone da comunicare al suo amico medico e, nel giro di poche ore, tutte quante vengono assoggettate ai controlli del caso. Fortunatamente, né i coniugi Travagli né le persone e gli agenti che avevano avuto contatti con loro risultato positivi al test. Neppure Michela, affetta da una normale forma influenzale. Nel contempo, perviene anche la notizia che la situazione clinica dei genitori di Mirella è in costante miglioramento e che ormai sono fuori pericolo. Dunque, tutti negativi o in via di guarigione… Tutti meno uno: il luogotenente Andrea Serpi che il 9 marzo 2020, giorno del suo trentacinquesimo compleanno, risulta portatore sano e asintomatico del virus e viene messo in quarantena. Tanto tempo a disposizione per lui per lavorare da casa, leggere, parlare al telefono con la sua ragazza e domandarsi: «Ma come caspita l’ho preso sto virus?».

Il racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it "Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus"
 
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Carlo Legaluppi

Carlo Legaluppi

Carlo Legaluppi è nato nel 1957 a Manciano, in provincia di Grosseto. Giovanissimo, si è trasferito nel capoluogo, dove risiede tuttora. Lavora a Siena, presso un primario Gruppo Bancario, in qualità di Dirigente Centrale. La morte viene dal passato – Nubi scarlatte è la sua seconda pubblicazione, seguito ideale del romanzo d’esordio La ottava croce celtica – Nulla è comesembra (Alter Ego, 2016), che nel 2017 ha vinto il Premio Speciale della Giuria alla IX edizione del Premio Letterario Internazionale “Città di Cattolica – PegasusLiterary Vai all' Autore

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