Lanfranco Caminiti e il diario di un’assenza

Luigi Oliveto

15/07/2021

“Senza” di Lanfranco Caminiti (minimum fax) fa tornare alla mente le pagine de “Il taglio del bosco”, forse il libro migliore (insieme a “Un cuore arido”) di Carlo Cassola. Era da allora che non si leggeva di una vedovanza al maschile narrata in modo così lancinante. Un racconto che è, al contempo, strazio e consolazione, affidato a parole frugali, accortamente regimate affinché niente sversi all’esterno, nel ristagno di una quotidianità che, per colui che resta, ha perso ogni ragione d’essere, ma che va comunque manutenuta. Peraltro – scrive Caminiti – per il vedovo non è stata ancora elaborata una figura sociale. Diversamente dalla vedova, che invece “è una condizione piena, accettata, rispettata”, l’uomo in condizioni di vedovanza diviene indefinibile, persino imbarazzante. In questo stato viene a trovarsi il protagonista del romanzo dopo la morte per malattia della moglie. Il tempo diventa per lui un angoscioso ‘senza’ che oscilla tra i ricordi e un presente irrispettoso, perché la vita, incurante, prescinde da chi non è più in vita. Allora, tanto vale frapporre tra il proprio dolore e gli altri quel codice di parole convenute che funzionano per entrambe le parti: “Pur volendo non potrei fare altrimenti, abbastanza bene grazie, ad alti e bassi, dipende dai giorni, e le risposte hanno il medesimo tono, bisogna andare avanti, la vita continua, cose così”. Il libro di Caminiti è un dolente diario della mancanza. Una lunga dichiarazione d’amore a recupero di parole non dette o dette male, di sentimenti inespressi, di quanto era stato immaginato in una vecchiaia di coppia ora traumaticamente mutila. È a suo modo il rovescio della eluardiana ‘poesia ininterrotta’: là, ad alimentarla, era la luce inebriante dell’incontro, del divenire coppia; qui l’abbrunato velo del distacco, della perdita. Ma pur sempre amore è quello che esonda sul vuoto dove, penosamente accudita, resiste l’impronta di una presenza.
 
***
 
[…]
Lori dice che non si è mai elaborata una figura sociale del vedovo. Mi ha appena chiesto come stavo. Non lo vedo da anni, ci siamo incontrati, frettolosamente, all’emporio una volta, sul lungomare un’altra, ma che ci sedessimo a uno stesso tavolo devono essere passati secoli. Ho imparato a dare delle risposte vaghe, non vorrei sembrare mai troppo afflitto, anche nei giorni che lo sono, per cui dico delle frasi di circostanza, che non impegnino troppo a esprimere empatia e affetto. Pur volendo non potrei fare altrimenti, abbastanza bene grazie, ad alti e bassi, dipende dai giorni, e le risposte hanno il medesimo tono, bisogna andare avanti, la vita continua, cose così. Della donna, sì, dice Lori: la vedova è una condizione piena, accettata, rispettata. Ci sono diverse donne in paese, che le chiamano proprio così, non la «signora Arcuri» o la «dottoressa Lo Bello» o la «professoressa Comerci», no, sono: la vedova Arcuri, la vedova Lo Bello, la vedova Comerci. Quando si parla di loro, quando il discorso le sfiora, quando qualcuno non riesce a mettere a fuoco esattamente di chi si stia parlando, mentre parliamo di scuola, o di una prescrizione medica, o del comitato per i festeggiamenti della Santa Patrona, viene fuori sempre la precisazione, la vedova. Il termine di individuazione. Come fosse un ruolo, un mestiere, una identità piena. Destinate a compiere e assolvere quella condizione, la vedovanza. A esserne un simbolo. Nessuna di loro s’è risposata – alcune erano anche abbastanza giovani per farlo. Avevano i figli da tirare avanti, e questo era tutto. Anche per quelle che sono andate lontano dal paese è andata così. A custodire il lutto.
Lori dice che per l’uomo non è così. Siamo nel giardino di casa sua, tra gli ulivi. L’anno scorso è stata una brutta annata, per tutti. Il verme se l’era mangiate quasi tutte, le olive, e gli alberi ne hanno fatte poche. Poco olio. Qui l’olio è ancora una risorsa. Non che ci campino, sono impiegati, professionisti, hanno il negozio di cose elettriche o di canne da pesca o la gelateria. Però, un pezzo di campagna ce l’hanno tutti, lascito di genitori e nonni, e ancora più indietro, quando non si era altro che contadini e braccianti. E a novembre, non vedi un pezzo di terra che non abbia le reti stese sopra, anche nei tornanti della strada provinciale, tutte intorno agli alberi, a fare da raccolta quando si batteranno i rami. Sono di colore arancione, o verde o bianco. Brutte. Come se la terra fosse diventata un cantiere, e ci fosse un intervento di riparazione d’un guasto in corso. L’olio che si fa serve per casa, ma in tanti lo rivendono anche, ad arrotondare. Cambiarsi l’auto, pagare qualche rata d’un mutuo, sistemare un po’ l’ennesimo piano sopraelevato della casa, per figli che non ci staranno mai. Quest’anno sarà buono, gli olivi sono sani e rigogliosi, magari la natura fa così, ad alternanze. Per non far comprare troppe auto, per non far crescere troppo le case.
Sono venuto a trovare Lori con Anna, che ha bisogno di una sua consulenza professionale, Lori fa lo psicologo. Anna, anche lei, è vedova. Annuisce. Dice pure che certi giorni, quando mi guarda si sente stringere il cuore, che mi vede smarrito, sperso. Lo dice con affetto, dalla profondità del suo, di dolore. Ci conosciamo da più di quarant’anni, da quando incontrai Paola, da prima che nascesse nostro figlio. Anzi, fu su un lettino della casa di Anna – un riparo di fortuna, dopo un lungo viaggio, in cui dormimmo in due – che Paola, di notte, rigirandosi sul fianco, cadde per terra col pancione. Tanta paura – Anna sentì il rumore e venne fuori di corsa dalla sua stanza, con il suo compagno – nessun pericolo, ne ridemmo insieme. Ne ridiamo ancora. Ci ricorda quegli anni di spensieratezza e forza. Siamo stati qualcos’altro, nella vita. Non siamo nati vedovi, anche se è difficile crederlo adesso.
Lori dice che il vedovo è una condizione incompiuta, un momento di vuoto, di assenza, qualcosa che non è ammessa. Qualcosa che negli altri crea dolore, rimozione, fastidio quasi.
Forse sarà un retaggio della biologia, della nostra differenza biologica, o forse dell’accumulazione dei ruoli. Una vedova ha un senso, e uno scopo. È una cosa compiuta, un atto compiuto della natura. Un vedovo è un rottame, una cosa guasta. Va sistemata, accudita, rimessa in funzione, prima o poi. Presto. Se la lasci lì, si ingrippa, arrugginisce, muore. È destinata così.
Io sono un vedovo, che altro posso dire?
Più o meno è quello che pensa mia madre. Ha aspettato un po’, con garbo, giusto un po’, e ultimamente si fa più insistente. Una donna può farcela – dice – vedi me. Un uomo è perduto. Ogni tanto mi snocciola le virtù di questa o quella persona, che la conosca superficialmente o ne sia più amico, come a dirmi che potrebbe essere una buona nuova compagna. L’ultima, in ordine di tempo, è una divorziata, una che il marito ha mollato. Me ne decanta modestia e sobrietà, senso di responsabilità e autonomia. Dice pure che ha una solida posizione, è un buon professionista, e possiede diversi appartamenti lasciati dal padre. Un buon partito, insomma, cosa potrei volere di più. Come se io avessi, che so, ancora quarant’anni, e non settanta. Forse le madri fanno il loro mestiere fino alla fine. Forse la sconcerta e la dispera la mia solitudine, o anche le incombenze che la vita quotidiana mi impone, per sbrigare le quali non posso condividere nulla. Le più spicciole, forse di più. Fare la spesa, cucinare, lavare i piatti, rassettare, spazzare, fare il bucato. Non capisce che senza il ritmo di questi gesti sarei completamente svuotato. Che sono i miei agganci alla vita, a un involucro di vita, di normalità. Oppure, immagina quando avrò più anni, e molte cose semplici mi peseranno, anche solo avere una prescrizione e passare in farmacia per i medicinali. Ha le sue ragioni. Io, però, non so se avrò più anni. L’ultimo argomento che usa, per indurmi a prendere in considerazione questa prospettiva, è il più subdolo: anche Paola, dice, vorrebbe che tu non restassi solo. Non sa di cosa parla. Mi chiese di promettere – la reggevo, uscendo dal bagno, erano gli ultimi giorni, le ultime ore – che quando non ci fosse stata più non sarei tornato indietro nel tempo a cercare un vecchio amore. Doveva averci pensato, doveva esserle costato parlarne così apertamente. Ne fui colpito. E come sempre non ebbi la risposta giusta – è una cosa che mi tormenta ancora. Le avrei dovuto dire che l’avevo amata sempre in tutti questi anni, che ancora l’amavo, che le ero rimasto al fianco sempre, attraverso tutte le traversie della nostra vita, per una scelta convinta e non per malinteso senso del dovere, che la mia dedizione adesso a lei non nasceva da uno spirito caritatevole. Dissi invece una stupidaggine, qualcosa per allentare la tensione della sua frase. Lei stava già oltre qualsiasi linea, io ero ancora di qua. Prenderò una giovane e fresca badante, invece, è di questo che avrò bisogno, dissi. Lei si fermò, come volesse aggiungere qualcosa, come se la mia stupidaggine – ed era vero – non rispondesse esattamente alla sua richiesta, alla sua urgenza. Fece un gesto col capo, come faceva sempre, perché aveva detto quello che c’era da dire. Ci ripenso, ...
 
[da Senza di Lanfranco Caminiti, minimum fax, 2021]
 

 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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