Le tredici fermate di Tabucchi

Roberto Barzanti

25/03/2022

Ripensare a dieci anni dalla morte Antonio Tabucchi (Pisa, 24 settembre 1943 - Lisbona, 25 marzo 2012) invita a rintracciarne tracce e confessioni per resuscitare momenti di un rigoglioso itinerario. Tabucchi raccontava di sé, ma senza prosopopea autobiografica. Amava piuttosto riflettersi in un immaginario altro, nascondersi nell’ombra di uno sfuggente profilo. Era l’atteggiamento del suo autore-guida, Fernando Pessoa: talmente studiato, tradotto, commentato, da esser divenuto grado a grado un modello da imitare, una sollecitante presenza ispiratrice. Il colpo di fulmine avvenne a Parigi, durante un primo anno di soggiorno che Tabucchi vi trascorreva frequentando corsi di filosofia alla Sorbona. Da un bouquiniste lungo la Senna acquistò di Álvaro de Campos Le bureau de tabac (La tabaccheria), un poema datato gennaio 1928 di Pessoa, al solito attribuito a uno dei tanti eteronimi usati dal grande lusitano. L’inizio scandiva una postura esistenziale e una disposizione psicologica: «Non sono niente. / Non sarò mai niente. / Non posso voler essere niente. / A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo…». Antonio lesse in quei versi l’espressione di un destino che lo accomunava. Supplire con l’immaginazione, con l’indagine sbrigliata, con l’inchiesta su opachi dettagli alla coscienza drammatica dell’effimero, all’implacabile fluire del tempo.
Il viaggio per paesi e per città sarebbe stata la materia di cui nutrire la scrittura: «La vita e la scrittura – ha detto in una delle ultime interviste – sono due incognite speculari. È vero che a volte la vita cerca una risposta nella scrittura, ma è altrettanto vero che succede anche il contrario, senza però che in nessun caso si arrivi a una verità».

Le fonti prime di questa imperiosa vocazione a scrivere furono le letture della sua infanzia a Vecchiano, in quella Toscana eccentrica e anarcoide che lo segnerà per sempre. I nonni recitavano a memoria interi pezzi della Divina Commedia e la meravigliosa architettura teologica del poema declamato si mischiava con l’eccitazione della linda fiaba di Pinocchio, con la satira pungete di Swift, con le allucinate peregrinazioni di Cervantes: lui, bambino, si sentiva un po’ don Chisciotte e un po’ Sancho Panza. Il tema della doppiezza si insinua nella sua testa attraverso pagine che avrebbero risuonato con percussioni da paradigma nel suo lavoro. Nel 1965 la scoperta di Lisbona, l’incontro con Maria Josè de Lancastre, sposata nel 1970, il perfezionamento alla Normale pisana e l’insegnamento di letteratura portoghese a Bologna, Genova e, dal 1990 al 2005, a Siena. Tralascio il mucchio di titoli di una bibliografia strepitosa. E lo riascolto che spiega in una conferenza senese del 1997 la sua visione del Novecento letterario e filosofico: ancora una volta era una modo per scandire un’autobiografia indiretta nelle forme di un diario di viaggio. Finse di prendere un tram insieme a tutti noi e di elencare (tredici) fermate essenziali.

Si cominciò con il manifesto del 1909 firmato da Filippo Tommaso Marinetti sul Futurismo del quale mise in luce il ricercato accordo tra teoria e realtà. La Macchina avrebbe sovrastato i destini individuali e determinato ritmi e abitudini. Può apparire singolare: com’è che un autore tanto impegnato, sulla scia di Sartre, in battaglie civili si innamorò di un movimento ambiguo, giocoso e guerresco? Il fatto è che per Tabucchi il neorealismo post-1945 avrebbe irrigidito l’estetica da seguire in principi obbliganti, mentre scrivere era trascrivere desideri non classificabili, impulsi liberi, sogni luminosi: idee e non ideologie. Seconda tappa: il Surrealismo e le utopie delle avanguardie storiche. Ma dopo lo scenario apocalittico di Auschwitz era ancora agevole elaborare fiduciose pagine creative? Ed ecco – quarta fermata – apparire, rattristate e eroiche, figure di genî isolatati come Bulgakov, Pasternak, Orwell, Primo Levi. Ricavo dagli appunti sue riflessioni conclusive: «La vita in se stessa manca di una formulazione narrativa». A ben guardare l’identità della persona si sgretola, si moltiplica incerta. È l’idolatrato Pessoa a farci intendere che non esiste più l’altro ma l’alter ego, l’eteronimo. Che dunque non è un trucco o un’evasione. Le opere di Pirandello, Kafka, Beckett approdano per questa via all’enigmatico assurdo. Non restano che leopardiane illusioni a infondere coraggio e combattività irriducibile: «Il tempo, purtroppo, è diventato infernale in quest’epoca di riproducibilità tecnica». Romano Luperini ha suggerito per Tabucchi l’etichetta di «nichilismo morbido». Per includere in essa l’analisi di una paralizzante condizione oppressiva, l’esemplare ribellione che matura in Pereira contro l’invasione falsificatrice dei media e irrefrenabili lacerti di memoria.

La mattina, accompagnato da un saggio zio, Antonio prendeva la corriera che lo sbarcava a Firenze: «Giravamo – scrive – a piedi per la città. Guardavo gli enormi soffitti degli Uffizi, quei quadri misteriosi, quelle tavole impressionanti […] Dopo si andava in via Ghibellina.  E mio zio mi chiedeva: vuoi assaggiare la trippa? E da lì si andava a San Marco, a vedere il Beato. Beato lui, pensavo, che vedeva gli angeli». Anni dopo (1999), guidando una Liuba amica per le stesse strade, Tabucchi in un acre pamphlet (Gli Zingari e il Rinascimento) non si trattenne dall’inveire contro una “cittadella” altera e chiusa nella sua stereotipata bellezza. Oggi forse avrebbe qualche motivo di speranza in questi tragici giorni. Torna in mente l’addio pronunciato da Antonio Prete, sodale fraterno degli anni senesi: «Antonio era sostenuto da una passione civile che conosceva insieme le vie dell’analisi, dello sdegno e della denuncia, un amore sconfinato per la letteratura, per tutte le sue forme: romanzesche, poetiche, saggistiche, teatrali. Il suo assiduo dialogo era alimentato dalla fortissima curiosità per l’altro, per il suo segreto e per la sua lingua. La sua era un’esposizione del sapere mai raggelata in formule e schemi ma esposta al vento dei confronti e delle analogie. Resterà l’onda pensosa e musicale di una narrazione che è tessitura fittissima dell’esistenza e del suo rovescio. Ci ha condotto in viaggi reali e inventati. Ci ha fatto dialogare con maschere e personaggi, con simulacri e fantasmi di un animatissimo tumulto interiore».

Articolo pubblicato sul “Corriere Fiorentino” del 24 marzo 2022, riproposto su toscanalibri.it per gentile concessione dell’autore.
 
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Roberto Barzanti

Roberto Barzanti
è un politico italiano. È stato parlamentare europeo dal 1984 al 1994, dal 1992 ha ricoperto la carica di vicepresidente del Parlamento europeo. Dal 1969 al '74 è stato sindaco di Siena. Dal 2012 è presidente della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena. Ha pubblicato "I confini del visibile" (Milano, 1994) sulle politiche comunitarie in tema di cinema e audiovisivo. Suoi saggi, articoli e recensioni tra l'altro in economia della cultura, il Riformista, L'indice dei libri del mese, Gli argomenti umani, Testimonianze, Gulliver, Il Ponte, rivista quest'ultima della cui direzione è membro. Scrive per Il Corriere Fiorentino.
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