Mastro Geppetto, una storia di tentato riscatto

Luigi Oliveto

21/10/2021

Da sempre il Pinocchio di Carlo Collodi è considerato opera dalle molteplici interpretazioni. Tra le più celebri quella di Benedetto Croce, secondo cui “il legno, in cui è intagliato Pinocchio, è l’umanità, ed egli si rizza in piedi ed entra nella vita come l’uomo che intraprende il suo noviziato; fantoccio: ma tutto spirituale”. La storia di quel burattino, emblema della metamorfosi, è stata letta e ri-raccontata in tanti modi. Se ne aggiunge ora una arguta riscrittura per la penna di Fabio Stassi che nel suo libro “Mastro Geppetto” (Sellerio) fa giustappunto diventare protagonista il ‘babbo’ del burattino, falegname di scarse committenze, vecchio in miseria e alla berlina dei suoi concittadini. Un emarginato, insomma, che nella paternità vorrebbe ricevere e ricambiare affetto. E in questo sogno investe energie, sopporta cattiverie, affronta paure. Condivide con Pinocchio le sue bizzarre avventure e, da persona candida e visionaria quale è, fa esperienza del mondo conoscendone soprattutto la crudeltà. La favola riproposta da Fabio Stassi è dunque una storia di tentato riscatto che trova molti riscontri nell’attualità. Tant’è che non è più favola, ma dura realtà. C’è la solitudine, la fragilità di un anziano non arreso, però, al diritto degli affetti. Va in giro insieme al suo burattino in un mondo che non tollera i diversi, perché scalzano certezze, spiazzano, sovvertono presunti valori. Perfino l’inerme Geppetto, con il suo sguardo indifeso e trasognato, diviene così elemento di disturbo; perciò va relegato ai margini, alla solitudine. Questo racconta il Pinocchio di Fabio Stassi: che finito ormai il tempo delle favole, è più che altro la cronaca a suggerire apologhi.
 
***

È una storia da un soldo, e la conoscono tutti, ma sulle montagne degli Appennini c’è ancora qualche vecchio che sa com’è andata per davvero. E te lo racconta, tra l’odore di grasso dell’inverno, e le coperte sulle spalle, in cambio di un bicchiere o di un toscano. Parla al presente, come se stesse accadendo di nuovo, con il fiato che si gela. Le sue parole sono sterpi e rami secchi che grattano le mani, segni sulla neve. C’è questa casaccia storta, dice, e mezzo diroccata, che prende luce da uno spacco della pietra, una finestrella buona soltanto per il chiaro e, di notte, per il crepitio cieco delle stelle. È qui che tutto ha inizio, in questa grotta di tufo, una caverna ricavata dalla roccia, addossata sul fianco di un dirupo e davanti a una forra verdissima e selvaggia che sembra quella dei paladini e delle favole. Nel luogo più in basso del paese, l’imo, il fondo di tutte le cose, lungo una discesa che corre a valle, seppure la valle non si vede, si intuisce solo nella polvere bianca della strada. Ma se il paesaggio è incerto e tutto dà l’impressione che possa ruzzolare da un momento all’altro – il rivolo d’acqua lungo le scanalature, un pugno di ghiaia mossa da un animale –, questa casipola è ferma sull’orlo dell’abisso, in attesa degli unici movimenti che il destino ha in serbo per lei: la frana e l’abbandono. Finirà venduta per pochi spiccioli come rimessa o magazzino, quando anche questo borgo si spopolerà, o lasciata alla gramigna, negli anni che verranno, travolta da un fiume di fanghiglia e di grandine. Il giorno che questa storia comincia, però, è ancora abitata. Dentro non ci sono che uno stipo, una seggiola e un letto tutti squinternati, e appena gli attrezzi del mestiere sopra un banchetto: uno scalpello, una tenaglia, una raspa; della colla secca di caucciù in un guscio d’uovo; delle cesoiuzze; un coltellino. Le pareti sono state incise da un arnese a punta e sull’ultima, per scaldarsi, l’altro inverno, il vecchio che ci vive ha dipinto un camino con il fuoco acceso, e sopra una pentola che bolle, e nuvole di fumo che sembrano fumo vero.

Di un vecchio falegname
Il vecchio che ci vive è un falegname dalla barba dura, e le spalle curve, e l’aria selvatica; sulla testa ha una parrucca colore della polenta di granturco. Su di lui, in paese, corrono molte dicerie: si racconta che il più ricco dei suoi nonni chiedeva l’elemosina, e di certo lo si sa bizzoso, collerico, più infiammabile di un fiammifero; nessuno lo ha mai visto con una donna. Da qualche tempo gli incespica pure la lingua, a volte si attorciglia su se stessa e non gli riesce di sillabare il più facile dei verbi. E non sono poche le sere in cui lo hanno trovato in un vicolo, che non sapeva dove fosse, o di notte, a litigare con le ombre delle querce o della luna in un dialetto sconosciuto. Lo chiamano mastro per scherno e Geppetto per bestemmiargli anche il nome: Giuseppe, Giuseppetto, Geppetto, un santo in burla, la cantilena che accompagna tutti gli uomini che vivono da soli. La verità è che la sua Nazareth è un borgo cattivo sul dorso di un Appennino che ha per gioco preferito quello di lapidare gli scemi, i senzafamiglia e i morti di fame.

Dell’idea che venne in testa a Mastr’Antonio
L’idea era piovuta nel cervello a Mastr’Antonio tra un bicchiere e l’altro, un sabato sera, mentre era a bere alla taverna con il farmacista, il curato, il droghiere e l’ufficiale della posta. Ho una corteccia dura da catasta, aveva dichiarato ai suoi amici, ma non è buona neppure per il fuoco. La regalerò a Geppetto. Non va forse dicendo a tutti che solo la legna gli manca? Ma prima gli dirò che è magica, che ride se le fai il solletico, e anche che ha una vocina che non sta mai zitta. Vediamo se davvero ci fabbrica la marionetta di cui ciancia tanto e si mette a girare il mondo, matto com’è. Non credo ci buscherà soltanto un tozzo di pane e un quarto di vino. Sono queste le parole che il più ricco falegname del paese aveva rivolto ai suoi amici, una sera d’inverno, nel fumo dell’osteria. Agli altri era parsa subito una gran trovata, e per brindare ai barili di sganasciate che quella bricconata prometteva avevano chiamato anche i tavernieri e chi, per un motivo o per l’altro, era seduto ai tavoli vicini. Non avevano terminato la prima bottiglia che l’intero villaggio sapeva già dello scherzo che si andava apparecchiando. Per l’eccitazione, Mastr’Antonio e i suoi compari si fregavano le mani: un’ora dopo avevano il naso più rosso delle ciliegie.

Un pezzo di legno per regalo
L’abitudine alle cortesie non l’aveva mai presa, per questo quando Mastr’Antonio gli aveva annunciato che quel tocco di legno se lo poteva portare in bottega – aveva detto giusto così, in bottega – e farci quello che voleva, magari proprio la marionetta che aveva sempre desiderato, Geppetto se ne era rimasto immobile e in silenzio, con gli occhi lucidi e la parrucca tutta storta che sembrava uno spaventapasseri. Strusciava le mani contro la stoffa sbrindellata dei pantaloni, le alzava, le abbassava, le pupille gli correvano da un lato all’altro. Da così tanto non riceveva un regalo che non sapeva più cosa si prova. Si ricordava solo il primo giorno di un anno lontano in cui una vagabonda che dava da mangiare ai gatti gli aveva offerto lo scampolo tutto disossato di una cotoletta, e lui non era riuscito a spiccicare neppure il nonnulla di un grazie. Com’è facile sbagliarsi sul conto degli esseri umani: nei suoi confronti, Mastr’Antonio aveva sempre avuto la luna girata, e quasi nemmeno gli dava il buongiorno se lo incontrava per via; possibile che fosse lo stesso uomo che adesso gli regalava un tocco di legno come quello con tutto il denaro che avrebbe potuto ricavarci? Quanto grande doveva essere il suo cuore se rinunciava a un affare così redditizio soltanto per esaudirgli un desiderio? Rabbrividendo per tutto il corpo, era arretrato fino al muro. Ma l’altro se la insisteva a dire che in tutti i boschi della penisola non avrebbe trovato niente di meglio per la sua marionetta: è vero, a prima vista lo si sarebbe potuto scambiare per una buccia d’albero, ruvida, bitorzoluta, uno di quegli scarti che si gettano nei fiumi, ma non si facesse incantare, quello era un tronco prodigioso, stregato, che avrebbe imparato anche a far di conto se qualcuno avesse avuto la pazienza di insegnarglielo e di levigarlo come si deve.
Cosa fosse passato nell’animo a Geppetto, in quel momento, è difficile da descrivere: gli girava la testa, e sentiva nel petto un arruffo che lo scombussolava e lo lasciava combattuto. Sul serio lo volete dare a me? Non è che vi sbagliate con don Carlo o con il sindaco? E l’altro giù a giurare e a spergiurare che a lui, e a lui soltanto, lo aveva destinato, quasi fosse anch’egli proprietario di una vera officina di falegnameria e il loro un discorso alla pari tra due soci che si dividono il legname. E quando alla fine si era convinto che le orecchie non lo avevano ingannato, e che si trattava realmente di un dono, si era gettato ai piedi del suo benefattore e aveva cominciato a baciargli le mani, e a stringerlo, per la felicità, e gli avrebbe baciato anche il naso, appena si fosse rialzato, se quello non l’avesse strattonato per la collottola, mentre dietro agli scuri delle finestre la comitiva al completo degli amici se la rideva.
 
[da Mastro Geppetto di Fabio Stassi, Sellerio, 2021]

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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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