Salvatore Satta e il giorno del Giudizio

Massimiliano Bellavista

04/12/2019

Ci sono due uomini, li chiameremo per ora K. e S. Tutti e due cultori della legge, si laureano in giurisprudenza rispettivamente nel 1906 e nel 1924. Quanto alle opere letterarie, in vita pubblicano assai poco e con poco frutto. Entrambi si approcciano infatti alla letteratura con un certo timore, ben sapendo che diventare scrittori non è spesso un atto terapeutico come oggi si vorrebbe ingenuamente far credere, ma piuttosto equivale ad aprire un vaso di Pandora nel bel mezzo della propria testa. Vi pervengono anche con un certo scetticismo sui propri mezzi, si potrebbe dire, se entrambi alla morte lasciarono il loro manoscritto più importante incompiuto. Tanto più che entrambi impartiscono precise disposizioni, l’uno all’amico più caro, l’altro direttamente a sé stesso, di affidare quelle pagine al fuoco.  Scrive a questo proposito S.: Scrivo queste pagine che nessuno leggerà, perché spero di avere tanta lucidità da distruggerle prima della mia morte, nella loggetta della casa che mi sono costruito nei lunghi anni della mia laboriosa esistenza. E invece l’amico disobbedisce e pubblica il manoscritto di K. e i familiari trovano a distanza di anni in un cassetto quello di S.

Ciò che li accumuna e che forse stimola il loro interesse di giuristi per la narrazione è proprio un controverso rapporto con la legge. Tuttavia la loro riflessione si sofferma su due momenti profondamente diversi del rapporto tra uomo e legge: K. ne vive il surreale, straniante e inquisitorio sistema di regole e procedimenti, laddove S. è piuttosto interessato al suo atto finale e supremo, il giudizio, che diventa il succo della sua poetica. K. fa ancora in tempo, prima della sua prematura morte, a pubblicare nel 1915 sotto forma di racconto (intitolato “Davanti alla legge”) quella che a tutti gli effetti costituisce una anticipazione dei tempi trattati nell’opera fondamentale (“Il processo”) poi pubblicata un anno dopo la sua morte: Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire. L’uomo dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. «Può darsi», dice il guardiano, «ma adesso no». Poiché la porta di ingresso alla legge è aperta come sempre e il guardiano si scosta un po’, l’uomo si china per dare, dalla porta, un’occhiata nell’interno. Il guardiano, vedendolo, si mette a ridere, poi dice: «Se ti attira tanto, prova a entrare ad onta del mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo l’ultimo dei guardiani. All’ingresso di ogni sala stanno dei guardiani, uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo riesce insopportabile anche a me». L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, nel suo pensiero, dovrebbe esser sempre accessibile a tutti.

S. dal canto suo, in uno dei manoscritti sommersi e salvati dal fuoco intitolato “Il mistero del processo” scrive quanto segue. È il 1792 e il tribunale rivoluzionario francese deve giudicare il maggiore Bachman, della guardia del Re, mentre fuori e poi dentro l’aula i sanculotti, lordi di sangue, pretendono anche per lui giustizia sommaria, finché accade un fatto mirabile. Il Presidente Lavau ferma d’un gesto gli invasori. Intima loro di rispettare la legge e, strano a dirsi, li convince. Happy end, si direbbe, la legge trionfa. Ma secondo S. loro, i giudici, vogliono dire soltanto lasciatelo stare, ci pensiamo noi ad ammazzarlo. Il giudizio della legge è insomma un fragile paradosso, esposto al vento, alla mutevolezza degli uomini come una promessa di amore eterno (finché dura). Ma questo è veramente un processo? E cosa è un processo? Domande alle quali forse è impossibile rispondere, ma alle quali una risposta bisogna pur dare, se non vogliamo concludere la nostra vita di studiosi con l’amara impressione dei aver perduto il nostro tempo intorno a un vano fantasma, a un’ombra che abbiamo trattato come una cosa salda. E parliamo di un giurista emerito, uno dei massimi del suo tempo in Italia.
I paralleli tra i due uomini finiscono qui. Percorsi di vita e momenti storici assai diversi, del resto, li dividono, suggestioni a parte. Il primo, K, è Franz Kafka. Il secondo è Salvatore Satta, uno scrittore italiano assai poco conosciuto, che ha avuto una fortuna letteraria singolare, giocata soprattutto all’estero in quanto il suo capolavoro, quello che come scritto sopra lui stesso voleva bruciare, e cioè il romanzo “Il giorno del Giudizio”, dal 1979 è stato più volte tradotto e acclamato anche recentemente dalla critica e dalle riviste internazionali più prestigiose. Roberto Calasso ne “Gli Adelphi” scrive così Dietro la figura di uno dei maggiori giuristi italiani di questo secolo […] si nascondeva un narratore straordinario e un letterato di grande finezza. La rivelazione è venuta quattro anni dopo la sua morte con questo Il giorno del giudizio che, accolto come uno dei più importanti romanzi moderni italiani, è stato rapidamente tradotto in diciassette lingue.

Molto è stato detto su “Il giorno del Giudizio”.  È stato accostato a Spoon River (qualcuno dovrebbe prima a poi tenere una statistica delle troppe circostanze in cui Edgar Lee Masters - curiosamente anche lui avvocato - è stato tirato in ballo a sproposito per parallelismi davvero poco illuminanti), ma ne è molto distante, sia come stile sia nelle sue finalità narrative ultime. Certo, vi sono i morti, nella Nuoro di Satta (Sono stato, di nascosto, a visitare il cimitero di Nuoro. Sono arrivato di buon mattino, per non vedere e non essere veduto. Sono sceso a Montelongu, là dove Nuoro allora finiva e cominciava […] e mi sono avviato per le piccole strade della mia lontanissima infanzia) essi sono in qualche modo i protagonisti della storia e i suoi primi interlocutori come in una di quelle assurde processioni del paradiso dantesco sfilano in teorie interminabili, ma senza cori e candelabri, gli uomini della mia gente. Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la storia senza storia del loro essere stati. Parole di preghiera o d’ira sibilano col vento tra i cespugli di timo. Una corona di ferro dondola su una croce disfatta. E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria. Ma sono protagonisti apparenti perché in questa grottesca e barocca galleria macabra a volte un po' macchiettistica c’è un solo epitaffio: quello dell’anima dell’autore stesso. Da qui discende la considerazione che forse l’unico parallelo stimolante sia quello a volte in effetti proposto dalla critica con Tomasi di Lampedusa. Certe atmosfere in effetti lo ricordano. Forse anche l’accostamento con Leopardi, in quanto l’affresco tracciato negli scritti di Satta è spietato e certamente non molto consolatorio, proprio come per il poeta di Recanati.

A ben vedere i tanti affascinanti personaggi che affiorano nel corso della narrazione chiedendogli una impossibile redenzione sono solo altrettanti specchi dove alla fine è solo l’autore a riflettersi davvero: è lui che entra ed esce dalle varie storie, è lui che le intreccia con le vicende della sua Nuoro tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi tre del secolo successivo (Nuoro non era che un nido di corvi, eppure era, come e più della Gallia, divisa in parti tre) con quelle della famiglia Sanna Carboni; è infine ancora e solo lui che detta i tempi di una magistrale regia cinematografica dove un freddo reale (la vita di Satta)  e un caldo immaginario (quello dei defunti) si mescolano continuamente in un alternanza che ha l’effetto di una sauna finlandese per il cervello del lettore. Questo bellissimo e complesso racconto corale, che suscitò l’ira dei suoi concittadini i quali vi si riconobbero fin troppo bene (La gente di Nuoro sembra un corpo di guardia in un castello malfamato), scritto in una prosa che contiene veri gioielli espressivi, è iniziato da Don Sebastiano Sanna Carboni, il notaio Don Sebastiano, notaio come era il padre dello scrittore, il quale era nobile, se è vero che Carlo Quinto aveva distribuito titoli di piccola nobiltà agli autoctoni sardi..: ma il doppio cognome era solo un’apparenza, altro non essendo il Carboni che il nome della madre, aggiunto al Sanna, il vero e unico nome di famiglia, un poco per l’usanza spagnola, un poco per la necessità di distinguere le persone, nella poca varietà dei nomi determinata dalla scarsa popolazione. Ogni bifolco in Sardegna ha due cognomi, anche se poi sull’uno e sull’altro prevale di solito un soprannome, che, se la fortuna aiuta, diventa il contrassegno temuto di una pastorale dinastia… Il tempo e la necessità han finito col dare una certa legittimità al doppio cognome, e infatti «Sebastiano Sanna Carboni» circoscriveva in lettere tonde lo stemma sabaudo nel timbro ufficiale d’ottone, che Don Sebastiano chiudeva ogni sera gelosamente in un cassetto della scrivania.

Ma poi è l’autore a riprendere le redini, raffigurandosi mentre scrive davanti alla loggia si stende un breve giardino, che ho riempito di oleandri. Freddo caldo, caldo freddo. Dopo circa una pagina, l’incursione nel reale deve finire e lo fa con una netta cesura, che reintroduce bruscamente nell’immaginario: Basta. Anche nella corte della casa di Don Sebastiano c’era un oleandro. Così Don Sebastiano e Donna Vincenza, sua moglie (e assai simile nelle descrizioni alla madre dello scrittore), e i loro sette figli riprendono momentaneamente il controllo della storia. Il romanzo sembra diventare “normale”, perfino prevedibile, la storia di una famiglia che si formava e nello stesso tempo si distruggeva, come è legge di tutte le famiglie. Ma poco dopo è l’autore che si manifesta di nuovo, che impone e sottolinea la sua presenza: Ho riletto dopo qualche giorno (scrivere non è il mio mestiere, e poi ho tante piccole cose da fare, ora che sono stato admis à la retraite, come pietosamente dicono i francesi) le cose che ho buttato giù senza troppo pensarci, e mi sono reso conto di quanto sia difficile fare la storia, se non addirittura impossibile.

Difficile controllare questo fiorire di storie come muffe su un muro candido e madido di pioggia, perché le poche migliaia di persone della sua città sono un coro assordante alle sue orecchie sono poche nell’astratto mare della vita, sono molte nel concreto spazio in cui le persone acquistano un volto e un nome;  non sono mille, ma uno più uno più uno e così via, e ciascuna deve vivere, vivere per conto suo e nello stesso tempo vivere con  l’altro e dell’altro…C’erano preti, c’erano avvocati, medici, professionisti, mercanti, c’erano poveri manuali, il ciabattino e il muratore, il maestro delle scarpe e il maestro del muro, c’erano gli oziosi, i miseri e i ricchi, i savi e i matti, chi sentiva l’impegno della vita e chi non lo sentiva, ma il problema di tutti era quello di vivere, di comporre col suo essere lo straordinario e lugubre affresco di un paese che non ha motivo di esistere. Di un paese, come del mondo, forse. Perciò non vi era odio, non vi era amore: c’era la contestazione dell’altro, che diventava la contestazione di sé stessi. L’odio e l’amore si compensavano e si componevano nella necessità di conservare gli altri per conservare sé stessi.

Poi nel libro ci sono gli avvenimenti esterni, sempre filtrati, in sordina. La guerra per esempio estranea e lontana che si faceva sentire a Nuoro coi telegrammi che davano notizia dei caduti al fronte. Era morto il figlio di Buziuntu, era morto il figlio di Palimodde, era morto il figlio di zia Tatana, gente di Seuna, di San Pietro, del Corso, tutti in un mucchio, come le pecore al mattatoio. Il caffè Tettamanzi si era spopolato: quei giovani socialisti che si davano delle arie con l’Avanti che spuntava dalla tasca, erano tutti andati volontari al seguito di Mussolini. E poi il dopoguerra, che impoverisce molti, arricchisce alcuni, e cambia la città. La famiglia che si dissolve. Donna Vincenza che lentamente, ma inesorabilmente, è diventata un fantasma, la prefica della vuota casa. Ma se tutto questo intreccio di storie è difficile da controllarsi, l’autore ci deve almeno provare. È il 1971, quattro anni prima della sua morte. Nell’agenda di quell’anno, dove le ultime pagine del romanzo sono state ritrovate, Satta scrive: Riprendo, dopo molti mesi, questo racconto, che forse non avrei dovuto mai cominciare. Invecchio rapidamente, e sento che mi preparo una triste fine, poiché non ho voluto accettare la prima condizione di una buona morte, che è l’oblio. Forse non erano Don Sebastiano, Donna Vincenza, Gonaria, Pedduzza, Giggia, Baliodda, Dirripezza, tutti gli altri, che mi hanno scongiurato di liberarli dalla loro vita; sono io che li ho evocati per liberarmi dalla mia.

E allora l’unica assoluzione possibile è andare fino in fondo alla storia, squadernandola davanti ai suoi stessi occhi finché si può, perché per quanto parziale, segreto e incompiuto come il libro stesso, è quello l’unico sollievo, questa l’unica seppur bislacca indecifrabile legge, quella data dal suo stesso giudizio. E in questo caso diventa logica la pena e anche la richiesta finale per tutto il manoscritto, quella del battesimo del fuoco, dell’autodafé.  Infatti si ha l’impressione a leggere il libro, di essere un po’ come gli archeologi che violano un’antica sepoltura. Ma visto che per nostra fortuna l’autodafé non è avvenuto, ora che siamo tutti un po’ sacrileghi, almeno leggiamoci il libro. L’autore da qualche parte, ne siamo certi, attende paziente tra i suoi antichi concittadini il nostro giudizio.
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Massimiliano Bellavista

Massimiliano Bellavista
Massimiliano Bellavista è consulente di direzione, blogger (www.thenakedpitcher.com) e docente di Management strategico presso l’Università di Siena. Vincitore di premi letterari, suoi racconti e poesie sono pubblicati su riviste e antologie. Scrive una rubrica fissa per la rivista stroncature.com. Tiene regolarmente seminari di scrittura e in merito alla valorizzazione ed alla comprensione del libro antico come bene letterario e culturale. A Siena anima la scuola di scrittura Recensio. Riguardo alle sue opere di narrativa, poesia e management, pubblicate in italiano ed in inglese, tra le più recenti ricordiamo: Le reti d’impresa (Franco Angeli, 2012); Anatomia dell’invisibile (Tabula Fati, 2017); L’ombra del Caso (Il Seme Bianco 2018) e The Naked Pitcher (Licosia 2018); Dolceamaro (Castelvecchi 2019); Marketing e management degli impianti sportivi (Azzurra 2019); Vertical Farming (Licosia 2019)
 
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