Se far ridere il proprio nemico è sconfiggerlo

Luigi Oliveto

11/03/2021

È la legge dei contrari. Se vivi in una realtà triste hai voglia di ridere, anzi di far ridere. Comincia così la storia del protagonista del romanzo “Che cosa c’è da ridere” di Federico Baccomo (Mondadori). Storia di un ragazzino ebreo, Erich Adelman, nella Berlino degli anni Trenta. Orfano di madre morta per partorirlo, un padre incapace di volergli bene, Erich vive la propria esistenza come una colpa. Ci sono solo due pensieri (due sogni) che gli riscaldano il cuore: un amore struggente per Anita, la ballerina ritratta in una cartolina, che lui vuole assolutamente incontrare, guardarla nei suoi splendidi occhioni; il desiderio di diventare un acclamato cabarettista, così da far ridere la gente. A convincerlo in questa vocazione è bastato assistere un giorno allo spettacolo del Magnifico Walter, vecchio comico un po’ troppo attaccato alla bottiglia, ormai relegato a teatrini di infima categoria, ma ancora grande nel suo estro, nelle battuta arguta e irriverente. Il Magnifico Walter si presta a farsi maestro di Erich, pur avvisandolo che non gli sta facendo un piacere, poiché “far ridere è un veleno”, a cominciare dal fatto che occorra, in primis, saper irridere sé stessi. I sogni di Erich sembrano potersi realizzare: gli occhi di Anita gli ricambiano amore e la sua bravura di comico si fa sempre più apprezzare. Irrompe però l’incubo, il delirio nazista, la tragedia della Shoah. Anche Erich verrà arrestato, e sempre per quella strana legge dei contrari – che, si sa, può giungere ad essere atroce – dovrà esibirsi per fare ridere il suo aguzzino. Dentro la tragedia dare il meglio del suo talento, mostrarsi vivo davanti a chi gli nega la vita, perché solo in quel modo avrà qualche probabilità di tornare ad esistere. Ecco allora la finezza dell’ironia impattare con l’idiozia dell’efferatezza, ecco la comicità disperatamente allestita nel dramma. O forse lo sberleffo camuffato da asservimento, perché nel cono di luce che lo illumina sul palco, è comunque Erich a condurre il gioco, a portare lo spettatore-nemico fin sulla soglia in cui, facendolo tanto ridere, è possibile insinuargli il dubbio della propria pochezza. Operazione affatto semplice questa compiuta da Federico Boccomo nel suo romanzo, notevole per levità di scrittura, per come sappia incastrare i pezzi (taluni da maneggiare con cura) che vanno a costruire una storia di grande forza. 
 
***
 
Immagina
Per prima cosa, prova a immaginare una stanza.
È una stanza spoglia, con il pavimento di legno, molto ampia e illuminata.
In questa stanza, la mattina presto, centinaia di persone sono state radunate per essere spedite lontano, in un altro paese, dove saranno ammazzate. Ora che il sole è tramontato, però, la stanza ha cambiato aspetto. Il terrore ha lasciato il posto a un’atmosfera dolce di attesa, e invece della confusione impazzita dell’alba, invece dei pianti e delle urla angosciate, c’è un ordine di panche, occupate da uomini e donne che chiacchierano tra loro con un sorriso largo sulla faccia, tutti rivolti verso un palco montato in fretta e furia sul fondo.
A vederli così, con quella serenità addosso, viene da chiedersi come è possibile, come fanno a sorridere, non lo sanno che cosa è successo lì dentro, proprio in quella stanza, proprio quella mattina, a uomini e donne come loro?
Certo che lo sanno. Quegli uomini e quelle donne erano i loro genitori, i loro figli, i loro parenti, i loro amici, il loro popolo. Eppure, in qualche modo, è come se fossero riusciti a scordarsi quello che è successo, a scordarsi perfino che, presto, potrebbe succedere anche a loro. Forse la settimana prossima, oppure il mese prossimo, o magari addirittura fra un anno, ma prima o poi è sicuro che verrà anche il loro turno, non c’è modo di sfuggire.
Ma quel giorno non è stasera.
Stasera il cuore resta lì dove deve stare, e la gente seduta nella stanza chiacchiera e sorride.
Immagina
A un certo punto, in questa stanza entra un uomo.
Prova a immaginare anche lui.
È un uomo in divisa, con i capelli pettinati all’indietro, dal portamento elegante. È chiaro che è il comandante di quel posto. Immaginalo mentre fa il suo ingresso e, al suo apparire, d’un tratto tutti i presenti ammutoliscono e si alzano in piedi di scatto. Lo seguono con lo sguardo mentre l’uomo gli passa accanto. Tengono la testa bassa, con gli occhi che ruotano verso l’alto, come quando si cerca di guardare qualcuno senza essere visti, come si fa con i lupi o con i nemici. Quell’uomo è il responsabile delle deportazioni avvenute la mattina, ma questa sera non c’è da preoccuparsi, questa sera, come tutti, anche lui è lì nella stanza per altri motivi.
Senza guardare nessuno, il comandante tira dritto con il mento puntato in avanti, immagina il suono dei tacchi dei suoi stivali sul pavimento, quel tac tac tac tac tac che spegne le parole e i respiri. Raggiunge l’unico posto libero, la sedia al centro della prima fila, il posto d’onore. Prima di accomodarsi, rivolge alla stanza un cenno e la gente torna a sedersi. A questo punto l’attesa è finita, la serata può cominciare.
Immagina
Ora immagina un giovane uomo.
Anche lui è nella stanza, in questa stanza impressionante che contiene tutto il male e tutto il bene del mondo, anche il giovane uomo è lì, però lui, a differenza di tutti gli altri, non è seduto, è in piedi, al centro del palco, illuminato dai fari, proprio di fronte al comandante. Come gli altri prigionieri, perché è questo che sono: prigionieri, anche il giovane uomo evita di guardarlo negli occhi, un po’ per rabbia e un po’ per paura. Rabbia per tutto quello che quell’uomo gli ha tolto: l’amore, il lavoro, la libertà; e paura per tutto quello che gli può ancora togliere: la vita.
Il giovane uomo chiude gli occhi, poi quando li riapre è libero da ogni emozione. Non c’è più rabbia in lui, e nemmeno paura, che questo non è il momento di essere arrabbiati o impauriti. Ora ciò che conta è una cosa soltanto: che, se vuole tornare a passeggiare davanti alle vetrine dei negozi, se vuole abbracciare di nuovo le persone care che sono lontane, se vuole ancora sedersi dentro un cinema o al tavolo di un ristorante, bere un bicchiere di vino o fare il bagno nel fiume, insomma se vuole continuare a vivere, deve concentrarsi soltanto sull’unica possibilità di salvezza che gli rimane.
Fare ridere il comandante.
Fare ridere il lupo seduto proprio lì, di fronte a lui, fare ridere il suo nemico.
Immagina
Lo so che questa possibilità di salvezza sembra assurda, fuori dalla regola del mondo, e, per quanti sforzi uno possa fare, ho paura che immaginarla, una cosa così, sia un mestiere difficile. Per questo è meglio fare un passo indietro, e cominciare questa storia dall’inizio.
 
[da Che cosa c’è da ridere di Federico Baccomo, Mondadori, 2021]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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