Se vuoi sapere chi sei chiedi alle case dove hai abitato

Luigi Oliveto

25/03/2021

Chi, di volta in volta, è evocato sulla pagina non ha un nome, ma è lì solo in funzione esemplificativa, in ragione di un ruolo. Perciò si chiama genericamente Madre, Padre, Nonna, Moglie, Bambina, Parenti, il Poeta, Donna con la fede al dito… Pure il protagonista non ha nome, anche se chiamarsi Io gli assegna la dovuta centralità. È così nel romanzo di Andrea BajaniIl libro delle case” (Feltrinelli, 2021) dove ad essere protagoniste sono giustappunto le case: di mattoni, cemento, sogni, incubi, parole; seminterrate o sovrastate dalla montagna; reali, abitate, visitate o solo immaginate, metaforiche. È infatti nelle case che abbiamo dimenticato o volutamente lasciato qualcosa di noi. C’è un rimosso che quei luoghi conservano fino a dare loro un potere ricattatorio nei nostri confronti. Dunque per ricostruire un uomo (colui che – dice l’autore – “per convenzione chiameremo Io”) occorre rovistare dentro le case in cui egli ha disseminato la propria esistenza, le sue scoperte, vigliaccherie, mediocrità, oggetti, sentimenti, menzogne, amori. Ogni casa è un segmento di vita, un’età, un tempo non solo individuale, ma un pezzo di Storia. Tant’è che le case di Io hanno intravisto la storia degli ultimi cinquant’anni, perché da fuori qualcosa entra sempre. Ne hanno viste di cose quei muri. Tengono insieme il pubblico e il privato. Loro sanno tutto. Sono testimoni della nostra intimità, dei segreti, di ciò che riteniamo inconfessabile anche a sé stessi. E pensare che, in casa nostra, credevamo di non essere guardati, nemmeno ci eravamo posti lo scrupolo. Nel libro di Bajani c’è la poetica dei luoghi e degli spazi. Certo. Cosa non nuova in letteratura, ma in questo libro a risultare originale (talvolta spiazzante) è la narrazione entro cui un “io” è di fatto un “egli” (voce narrante), “loro” sono spesso “egli”; e tutti siamo noi.
 
***
 
Casa delle parole, 2010
È a meno di un chilometro dalla Casa di Famiglia, dall’altra parte della stazione dei treni principale di Torino.
Ogni mattina Io esce di casa, attraversa l’atrio della stazione, e fa il suo ingresso nella Casa delle parole.
Sono sette minuti di strada; otto se si ferma a guardare i cartelloni delle partenze. Certi giorni non alza la testa. Altri sì, e scorre con gli occhi le destinazioni. Si immagina in alcune delle città che ci sono scritte. Poi prosegue, taglia il flusso di persone; esce in quest’altra parte di città.
Qui prima si sparava e la gente stava chiusa in casa. Per dormire, funzionavano soltanto i tappi o il cuscino sulla testa. Oppure pensare di andare via, con quel pensiero riuscire ad addormentarsi, e poi restare lì.
Ora non si spara più. Lo spaccio è circoscritto a due angoli di strada, verso il cavalcavia. Il resto sono locali in cui si beve, i ragazzi ridono tutta la notte. A ogni bicchiere alzano il volume della voce. Per dormire, tappi e cuscino sulla testa. O aprire la finestra e urlare inutilmente. O pensare di andar via, non dormire rosicchiando quel pensiero, poi restare.
La Casa delle parole è al primo piano di un edificio degli anni trenta del Millenovecento.
Al pianterreno c’è la vetrina di un vecchio alimentari; il gestore ha montato una grata per scoraggiare dal sedersi coi bicchieri. Io sta esattamente sopra il suo magazzino: il frigorifero del negozio gli fa vibrare i piedi, soprattutto la domenica, quando tutto tace. Il resto della settimana non ci fa caso; sente piuttosto il dlin dlon di ogni cliente che entra nel locale.
Ogni giorno Io arriva poco dopo l’alba, e se ne va all’ora del tramonto. D’inverno prima, d’estate verso cena, seguendo i ritmi del sole. Io non vuol vedere la luce che si accascia e dopo muore.
All’ora di pranzo esce per mangiare qualcosa; il tempo di un panino al bar o un piatto di pasta in trattoria. Non parla con nessuno; se c’è una televisione accesa preferisce, gli piace guardare dentro il rettangolo di luce.
La Casa delle parole è una stanza di due per quattro metri. C’è una finestra, che guarda sulla strada, e una porta che dà direttamente sulle scale. Non c’è il nome di Io al campanello né al citofono. Nessuno suona perché nessuno sa che c’è. Se suonano è per cercare altri, e infatti Io non apre mai.
Nella Casa delle parole ci sono un tavolo, una sedia e una poltrona.
Alle spalle della scrivania una lavagnetta che Moglie ha regalato a Io: ci ha scritto sopra, con un gessetto “Per le tue parole”. Le parole di Moglie, la sua grafia limpida e gentile, gli coprono le spalle
Ogni mattina Io esce di casa, attraversa l’atrio della stazione, e fa il suo ingresso nella Casa delle parole.
Sono sette minuti di strada; otto se si ferma a guardare i cartelloni delle partenze. Certi giorni non alza la testa. Altri sì, e scorre con gli occhi le destinazioni. Si immagina in alcune delle città che ci sono scritte. Poi prosegue, taglia il flusso di persone; esce in quest’altra parte di città.
Qui prima si sparava e la gente stava chiusa in casa. Per dormire, funzionavano soltanto i tappi o il cuscino sulla testa. Oppure pensare di andare via, con quel pensiero riuscire ad addormentarsi, e poi restare lì.
Ora non si spara più. Lo spaccio è circoscritto a due angoli di strada, verso il cavalcavia. Il resto sono locali in cui si beve, i ragazzi ridono tutta la notte. A ogni bicchiere alzano il volume della voce. Per dormire, tappi e cuscino sulla testa. O aprire la finestra e urlare inutilmente. O pensare di andar via, non dormire rosicchiando quel pensiero, poi restare.
La Casa delle parole è al primo piano di un edificio degli anni trenta del Millenovecento.
Al pianterreno c’è la vetrina di un vecchio alimentari; il gestore ha montato una grata per scoraggiare dal sedersi coi bicchieri. Io sta esattamente sopra il suo magazzino: il frigorifero del negozio gli fa vibrare i piedi, soprattutto la domenica, quando tutto tace. Il resto della settimana non ci fa caso; sente piuttosto il dlin dlon di ogni cliente che entra nel locale.
Ogni giorno Io arriva poco dopo l’alba, e se ne va all’ora del tramonto. D’inverno prima, d’estate verso cena, seguendo i ritmi del sole. Io non vuol vedere la luce che si accascia e dopo muore.
All’ora di pranzo esce per mangiare qualcosa; il tempo di un panino al bar o un piatto di pasta in trattoria. Non parla con nessuno; se c’è una televisione accesa preferisce, gli piace guardare dentro il rettangolo di luce.
La Casa delle parole è una stanza di due per quattro metri. C’è una finestra, che guarda sulla strada, e una porta che dà direttamente sulle scale. Non c’è il nome di Io al campanello né al citofono. Nessuno suona perché nessuno sa che c’è. Se suonano è per cercare altri, e infatti Io non apre mai.
Nella Casa delle parole ci sono un tavolo, una sedia e una poltrona.
Alle spalle della scrivania una lavagnetta che Moglie ha regalato a Io: ci ha scritto sopra, con un gessetto “Per le tue parole”. Le parole di Moglie, la sua grafia limpida e gentile, gli coprono le spalle.
Le pareti sono bianche, non c’è niente appeso; si vedono i fori di chiodi precedenti e il riquadro dell’assenza di quel che c’era. Risale alla vita anteriore della casa.
Io non ha fatto niente per eliminare quelle tracce. Da dentro le cornici che la luce ha ricavato sopra il muro, il passato guarda Io, e Io lo può guardare.
I buchi più grandi verosimilmente sostenevano una mensola. O due, montate in parallelo. Io non ha montato mensole, né ha portato libri. I pochi che ha sono impilati sopra il tavolo, e cambiano continuamente.
Però ha molti quaderni; il modello è l’agendina, formato piccolo, ottanta pagine all’incirca, quadretti grandi oppure a righe, è indifferente. Ci sono riccioli bianchi di gomma da cancellare tra le pagine e sopra il tavolo, che è nero. Sono nevicate minime, circoscritte, di parole eliminate.
La sedia, dietro il tavolo, è una poltrona girevole, da ufficio.
Io sta più spesso voltato verso la finestra, con lo sguardo fisso sull’edificio dall’altra parte della strada. Se qualcuno si affaccia e guarda nella sua direzione, Io si volta e abbassa gli occhi sul computer.
Quando entra nella Casa delle parole, si toglie le scarpe e le lascia accanto alla porta, parallele. Se è estate, toglie anche i calzini; li piega e li infila nello spazio che era occupato dai suoi piedi.
Quando si sfila dalle scarpe e illumina lo schermo del computer, Io si trasferisce in un posto dove Moglie non esiste.
Tutti i giorni, afferra il capo della corda di parole che vede nello schermo, ci si aggrappa e scende giù puntando i piedi nudi contro il muro bianco del suo monitor, fino a sparire, in basso, nella luce.
Di quello che vede quando la luce se lo prende, Io non dice niente né a Moglie né a Bambina; del resto non saprebbe cosa dire.
Sa soltanto che al tramonto torna indietro: si aggrappa alla corda di parole e, puntando di nuovo i piedi contro la parete, si tira su metro dopo metro. Fino a raggiungere la superficie, e ricomparire, oltre il rettangolo luminoso del computer, nello studio.
Di quello che Io vede in quelle ore, a sette minuti di distanza dalla casa in cui vive con Famiglia, resta traccia forse solo nel suo sguardo.
La sera, quando si siede a tavola per cena con Moglie e con Bambina, nessuno gli chiede cosa è successo durante la giornata. Moglie chiede solo com’è andata e lui risponde solo Bene; poi si parla d’altro.
Moglie vorrebbe sapere di più, ma sa che è proprio lì il pericolo maggiore. Sa che l’unica cosa che può fare è aspettare; che un giorno, quando tutto sarà finito e Io le permetterà di leggere, Moglie capirà e redistribuirà tutto, nel ricordo, suddividendolo per cene.
Ma giorno dopo giorno, quello che può fare è solo tentare di decifrare lo sguardo che Io porta a tavola per cena. Cercare di capire se l’irreparabile è già avvenuto, se da qualche parte è rimasto ancora uno spazio per lei. O se Io si è già trasferito altrove, e a casa torna solo per dormire.
 
[da Il libro delle case di Andrea Bajani, Feltrinelli, 2021]
 
Torna Indietro
Lascia un Commento

Scrivi un commento

Scrivi le tue impressioni e i commenti,
verranno pubblicati il prima possibile!

Ho letto l'informativa sulla privacy e acconsento al trattamento dei dati personali ai sensi dell'art. 13 D. lgs. 30 giugno 2003, n.196

Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

Vai all' Autore

Libri in Catalogo

NEWS

x

Continuando la navigazione o chiudendo questa finestra, accetti l'utilizzo dei cookies.

Questo sito o gli strumenti terzi qui utilizzati utilizzano cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Chiudendo questo banner o proseguendo la navigazione, acconsenti all’uso dei cookie.

Accetto Cookie Policy
X
x