Sessant’anni di “Vita agra”

Roberto Barzanti

03/01/2022

Il libro fu presentato in pompa magna al teatro Gerolamo di piazza Beccaria. Faceva gli onori di casa Domenico Porzio, direttore editoriale della Rizzoli, che era riuscita ad accaparrarselo nonostante fosse parecchio piaciuto all’einaudiano Italo Calvino. Sul palco sedevano Camilla Cederna, Roberto De Monticelli, il cantore elegiaco della campagna lombarda Ermanno Olmi e il maestoso Geno Pampaloni, gran sacerdote. L’autore Luciano Bianciardi indossava un completo blu che gli aveva procurato Carlo Ripa di Meana, «nobile» dedicatario del volume. Il 16 ottobre 1962 nella piccola Scala, riaperta da poco, per festeggiare “La vita agra” era accorsa una buona fetta della notturna intellighenzia di Brera: un’«isola», una «cittadella» a se stante nella metropoli che cresceva a vista d’occhio. Quando vi arrivò da Grosseto Luciano Bianciardi (14 dicembre 1922-14 novembre 1971) si sistemò in un appartamento di via Solferino.
 
Era stato sconvolto dalla tragedia della miniera di Ribolla del 4 maggio 1954: «Rimasi quattro giorni – confessa – nella piana sotto Montemassi, dallo scoppio fino ai funerali e lì vidi tirare su quarantatre morti, tanti fagotti dentro una coperta militare». Così, giusto nel ’54, aveva deciso di piantare baracca e burattini, amici, moglie, figli e prendere il treno per Milano, unendosi alle migliaia di italiani, soprattutto meridionali, in cerca al nord di duri sacrifici per sbarcare il lunario. L’aveva mosso, a suo dire, una missione affidatagli da Otello Tacconi, uno stradino di Roccastrada: vendicare quei poveri martiri del lavoro facendo saltare in aria il torracchione della Montecatini, colpevole della terribile tragedia. Fino a che punto erano inscrivibili in sfoghi diaristici l’enfasi con cui Luciano giustifica la fuga dalla Grosseto-Kansas City nel corrosivo pamphlet d’esordio “Il lavoro culturale” (1957) o il deprimente spaesamento diagnosticato nell’acre “L’integrazione” (1960)? Non c’è una riga dell’opera di Bianciardi che non sorga dal «terriccio» del paesaggio della sua anarcoide giovinezza, ma sarebbe un errore interpretare la sua scrittura come l’arrovellata trascrizione di un inquieto vissuto. Tentar di mediare tra la composta Italia centrale e quella che non sapeva né leggere né scrivere era impresa destinata al fallimento, come la missione distruttiva dichiarata nel libro che chiudeva la «trilogia della rabbia» in modi sconsolati e definitivi.
 
“La vita agra” riscosse applausi fragorosi, quasi fosse una canzone di Jannacci o una performance di Dario Fo. Ebbe un successo da bestseller: ventimila copie vendute in un batter d’occhio, i diritti acquistati per trarne il film che, con fastidiose licenze, avrebbe girato (1964) Carlo Lizzani. Per spiegare il fenomeno è consigliabile risfogliare, a sessant’anni di distanza e nell’anno centenario della nascita, il capolavoro di uno scrittore-nato, senza chiedersi perché non sia inserito nel cosiddetto canone della nostra letteratura del Novecento con la sicurezza classificatoria spesso abbozzata con ingegnosità. Bisogna guardarsi dal considerare l’opera composta di getto nell’inverno ’61-’62 un amaro e divertito affastellamento di ricordi. Luciano presta all’«io» in prima persona che ci parla la materia della sua esperienza, trasposta su pagina con la raffinatezza plurilinguistica di un traduttore che attingeva a vari registri. Dalle frizioni che ne risultano scaturisce la presa di un romanzo che non è un romanzo: piuttosto una «narrativa integrale», «una grossa pisciata», secondo una definizione che sarebbe andata a genio all’Enrico Molinari di New York, eteronimo dell’idolatrato Henry Miller dei Tropici quasi reinventati dal grossetano in una sintassi incandescente e scandalosa. La complessità si scioglieva in accessibilità.  La mania dei beffardi soprannomi o dei toponimi stravolti e il mix di parlato comune e colte allusioni a una miriade di ipotesti accendono una chiacchierata che non lascia respirare. Un gioco di sapiente enigmistica impreziosisce una lingua unica, umorale e umoristica, contratta e ilare, follemente enumerativa o distesamente commossa.
 
Verificate a casuale apertura di pagina. L’impatto con l’ostile metropoli: «Fuori le strade si incupivano di nebbia, le case avevano serrato porte e finestre, e attorno ai lumi c’era un alone umido e fuligginoso». Il dilagare della cattiva modernità neocapitalistica in quattro righe: «La riduzione di fine a mezzo, qui e altrove, aliena, integra, disintegra, spersonalizza e automatizza, e così viene fuori l’incomunicabilità, e così viene fuori l’uomo-massa e la prostituta moderna…». Sfila il lessico circolato in quegli anni, non sai se per pregnante esattezza sociologica o per sdegnata presa di distanza: l’ambivalenza si tramuta in ambiguità. S’incazza, il maremmano verace, quando le parole sono usate a sproposito. Tutti discettano entusiasti di miracolo economico. Miracolo? Si scorda, obietta, «che i miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino e la gente mangia gratis tutta insieme, e beve». Citazione cristiana per delicato omaggio o per irriverente incredulità? Il lavoro è una maledizione biblica e si apparenta nei «treni del sonno» con la paura della fine: «se uno è costretto per nascita o malasorte a lavorare, meglio che lavori di continuo finché non muore, e se ne stia fermo al posto di lavoro». Sconfitta più clamorosa della missione impossibile non poteva darsi. Serpeggia nei capitoli, di continuo interrotti da immagini e parole dell’età giovanile, l’imminenza della morte. All’inizio il tema è rappresentato dal Cristo morto del Mantegna, «grosso e grigio, coi piedoni avanti, e morto, morto senza speranza di resurrezione». Il sipario cala al sopravvenire d’un sonno post coitum che equivale a un naufragio: «e per sei ore non ci sono più».
 
In un appunto su Kierkegaard Bianciardi ventenne aveva scritto: «Ed ecco l’angoscia: da una parte noi, dall’altra Dio, da una parte il peccato, dall’altra la redenzione, il finito e l’infinito, il vero e il falso, la luce e l’ombra, senza risoluzioni, tutto drammaticamente contrario senza possibilità di soluzione e di superamento». “La vita agra” è l’aspro frutto di un’irredimibile angoscia esistenziale. Chiudo il libro: dalla copertina un mostruoso biscione emette minacciosi bagliori.
                                                                                                                       
Articolo pubblicato sul “Corriere Fiorentino” (p. 10) il 2 gennaio 2022                                                                         
 
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Roberto Barzanti

Roberto Barzanti
è un politico italiano. È stato parlamentare europeo dal 1984 al 1994, dal 1992 ha ricoperto la carica di vicepresidente del Parlamento europeo. Dal 1969 al '74 è stato sindaco di Siena. Dal 2012 è presidente della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena. Ha pubblicato "I confini del visibile" (Milano, 1994) sulle politiche comunitarie in tema di cinema e audiovisivo. Suoi saggi, articoli e recensioni tra l'altro in economia della cultura, il Riformista, L'indice dei libri del mese, Gli argomenti umani, Testimonianze, Gulliver, Il Ponte, rivista quest'ultima della cui direzione è membro. Scrive per Il Corriere Fiorentino.
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