Un preside con un fucile in mano e il senso della vita

Luigi Oliveto

21/05/2020

Chiedersi il senso della vita, soprattutto quando la vita ci impania nelle sue insensatezze. È tema ricorrente nei libri di Marco Lodoli, attraverso il racconto di personaggi (antieroi) che continuamente oscillano tra realtà e irragionevolezza. Nell’ultimo libro, “Il preside” (Einaudi), questa volta l’antieroe è giustappunto il preside di una scuola della periferia romana che, giunto al pensionamento, non intende affatto lasciare quella scuola dove ha trascorso una intera vita, da studente, insegnante, dirigente. Perciò un giorno, fatti uscire studenti e insegnanti, si barrica dentro l’edificio scolastico, incatena tutti gli accessi, imbraccia un vecchio fucile da caccia e – questo non era previsto – prende in ostaggio una insegnante e un ragazzo della quinta A che erano rimasti in bagno a fare sporcaccionate. Il mite preside, già insegnante di latino e greco con aspirazioni di scrittore, diventa così personaggio di un simil-thriller: lampeggianti della polizia, un elicottero che controlla la situazione dall’alto, assembramento di giornalisti e telecamere, il commissario che al megafono cerca di portare il professore alla ragione: “La smetta, preside, non si carichi addosso guai ancora più grandi, non trasformi una sciocchezza in una brutta storia, coraggio, lasci uscire le persone che stanno con lei ed esca anche lei, subito, adesso.” Ma il preside non sente ragioni, argomenta la sua scelta con il commissario, con gli ostaggi. Li fa partecipi di un discorso tanto vero quanto visionario che ha a che fare con i valori e l’esperienza della scuola, “un tempio sacro in cui avvicinarsi al mistero della vita prima che la maturità cancelli ogni verità”; e, dunque, con il senso della vita (“Un attimo, quanto dura un attimo? Un battito di ciglia, un'era geologica, un'estate al mare? Il tempo di dire: ecco ci sono, non ci sono più, e lì in mezzo metterci tutta la vita).” Per tutta la durata dell’assedio ecco, allora, dipanarsi il racconto di un’esistenza: aspettative e delusioni, amore, amicizie, modi di guardare le cose e oltre le cose, di vivere e sopravvivere. Il professore prova a fare così un’ultima, disperata, splendida lezione a sé stesso e agli altri.
 
***
 
Schiaffi di luce gialla sulle finestre e il mio nome che sbatte metallico nell’aria, gridato così tante volte da sembrare il nome di uno sconosciuto, e poi altri suoni martellanti, ordini, inviti perentori, lo capisco dal tono minaccioso, ma le parole arrivano distorte, gracchiano come corvi e volano via: e di nuovo ceffoni luminosi sui vetri, e nell’aria la giostra assordante di un elicottero. Io starò chiuso qui dentro fino alla fine, questa scuola è la mia isola e sarà il mio sepolcro, tra cento anni porterà su una targa di marmo il nome del poliziotto che mi avrà sparato in testa. Qui sono stato studente, poi insegnante per trent’anni e ora preside, quasi tutta la mia vita si è consumata tra queste mura pensierose e sempre un po’ umide. Conosco ogni spazio, ogni aula, gli sgabuzzini per le scope e i detersivi, le stanze chiuse da sempre, gli avvolgibili crollati, gli scalini sbreccati, i banchi che traballano, le luci del mattino e quelle dei neon, il frastuono delle ricreazioni e il silenzio della sera. Prima hanno provato a stanarmi con la persuasione, frasi morbide, comprensive, quelle che si rivolgono a un vecchio uscito di testa, zucchero e miele. Fino a poco fa arrivavano più insinuanti, quelle parole, strisciando come serpenti tra i sibili del megafono. Lei è un uomo originale, dicevano, le piace scherzare, ed è un uomo intelligente che capisce quando lo scherzo è finito, posi il fucile e lasci uscire i suoi ospiti: così li hanno chiamati, ospiti. E dicevano anche: lei ha un grande senso della responsabilità, sa cos’è giusto e cosa è ingiusto, ha sempre diretto la sua scuola con saggezza, non si metta nei guai per un attimo di insofferenza, tutti attraversiamo questi momenti, è normale, è addirittura necessario, sono passaggi che servono per metterci alla prova, per farci capire meglio cos’è la vita, cosa siamo noi, e come possiamo risolvere il problema o almeno arrotondare qualche spigolo, ne ho vissuti tanti anch’io, mi creda. La voce era pacata, profonda, subdola, come quella di un padre che racconta una favola solo per addormentare il bambino agitato, che la inventa frase dopo frase, allungando le pause e dondolando le parole.
Immaginavo il viso grassoccio del commissario, la testa tonda e calva con quattro ciuffi grigi attorno alle orecchie, la cinta stretta sotto la pancia, le dita tozze, gli occhi furbi di chi è cresciuto in campagna: lo vedevo con il culo grasso appoggiato al cofano della macchina, il megafono piegato sulla bocca, già stanco di questa vicenda assurda. La smetta, preside, non si carichi addosso guai ancora più grandi, non trasformi una sciocchezza in una brutta storia, coraggio, lasci uscire le persone che stanno con lei ed esca anche lei, subito, adesso. Io mi sono messo dietro i vetri di una finestra, in modo che potessero vedermi tutti quanti, il commissario e la gente che si è radunata oltre le macchine della polizia e i furgoni delle televisioni, e ancora oltre, nelle piazze, nelle strade, nelle case, davanti agli schermi e a un piatto di minestra, davanti al niente, ai figli, alle illusioni, alle paure, e ho alzato il mio vecchio fucile da caccia, perché lo vedessero bene. Mi sono sentito come un antico capo indiano, pieno di rughe e di orgoglio.
[…]
Ieri, alla fine delle lezioni, mi sono messo accanto al portone della scuola e ho salutato gli studenti e gli insegnanti, cercando di ricordarmi più nomi possibili: i ragazzi sono volati via come passeri, quasi senza fare attenzione ai miei cenni di saluto, mentre qualche insegnante mi ha guardato strano. Certe volte mi sembra di poter leggere i pensieri stampati sulle fronti: e ho letto lo stupore, la commiserazione, il disprezzo. Da tanto mi considerano un reperto umano, la testimonianza semivivente di un’epoca morta e sepolta, di cui nessuno può avere veramente nostalgia. Un preside di una scuola periferica che prima insegnava lettere, laureato in greco e latino e ragnatele, è come dare al cieco Omero il volante di un pullman che deve correre veloce sull’autostrada del Sole, questo pensano di me e probabilmente hanno ragione. Ho sempre cercato di essere cortese, di sorridere anche quando non c’era motivo, di offrire il caffè a tutti al bar interno alla scuola, ma lo so che non basta, non bastava nemmeno a me. Questo è l’ultimo anno di lavoro, avrei potuto farlo scivolare via come acqua tiepida nel lavandino, e a giugno organizzare una piccola festa per il congedo, tramezzini, aranciate, quattro parole semplici davanti agli insegnanti e ai bidelli schierati a semicerchio, un tocco di commozione mentre qualcuno già sbircia l’orologio. Invece ho chiuso tutte le porte con le catene, ho fissato bene i lucchetti e ora sono qui, caparbio, stupido, incomprensibile, con il fucile in mano al centro di un assedio. Perché sta facendo tutto questo?, grida il commissario nel megafono, che senso ha? Non si renda ridicolo, preside, non si comporti come un bambino capriccioso e prepotente, non spaventi le persone che costringe a stare lì con lei. Guardo la professoressa Micheli e il ripetente della quinta A: sono accovacciati sul pavimento della presidenza, la schiena contro il muro dove sono appese le carte geografiche dell’Italia e le tavole della Costituzione, lei trema, ha la testa bassa, i capelli tinti di biondo davanti agli occhi, le ginocchia contro il petto, lui le tiene un braccio sulle spalle e fuma con le gambe distese. La Micheli è elegante come sempre, con il suo tailleur albicocca e i tacchi sottili, la borsetta firmata a fianco, anche se ha le calze smagliate e il trucco sciolto; lui ha la tuta della Roma e le scarpe grosse da ginnastica senza lacci, i capelli rasati sulle tempie. Non volevo che rimanessero qui con me, ho fatto uscire tutti prima di incatenare le porte, ma la professoressa e l’alunno erano nel bagno a fare i porci comodi loro. Non è colpa mia se ora sono costretti a subire questa storia, non è neanche colpa loro, è andata così. Tutto va come deve andare, arriva e va via e quasi non ce ne rendiamo conto. Quanti anni ho vissuto senza accorgermene, come un sonnambulo su un cornicione. Ogni sera per molti anni mi sono chiuso nel mio studio per tradurre una versione di greco e una di latino, ogni sera. Vocabolari, fogli bianchi, matite appuntite, un bicchiere di vino rosso, la lampada accesa sulla scrivania, tutto era pronto, ogni sera. Mi piaceva il modo in cui lentamente si concatenavano le parole, secondo un ordine preciso e inevitabile, come i verbi discendevano uno dall’altro, dalle colline alle valli, in una sequenza serrata eppure anche luminosa, come una strada disegnata bene, che curva dopo curva sa dove portare chi la percorre. Nei nessi profondi tra le parole mi sembrava di ritrovare un’armonia perduta, una quiete, come se le parole fossero le cose, e si appoggiassero una all’altra dolcemente, con fiducia. Passavo almeno due o tre ore rintanato in quel giardino notturno fatto di ablativi assoluti, aoristi deboli, fiori secchi, sassolini bianchi messi in fila, subordinate oggettive e finali, e il cuore batteva calmo, e la mente immaginava dietro alla sintassi l’ordine segreto del mondo. Ogni fastidio e ogni insana e astratta pretesa si spegnevano, sentivo crescere in me il sentimento profondo dell’obbedienza. Intuivo che la felicità, se mai ci spetta, sta tutta nell’obbedienza, che non è sottomissione ma cedimento a una verità più grande, sconosciuta. Carola stava di là, a guardare la televisione e a riempire il portacenere, distesa sul divano. Anche lei apprendeva dalla rassegnazione, ma senza provare alcuna gioia. E poi un giorno se n’è andata via, al ritorno dalla scuola ho trovato un biglietto sul tavolo della cucina, tremendamente sgrammaticato. «Io non resto, io se resto muoio, io vado, non mi cercare». Ci sono rimasto male, malissimo, il cuore era un sasso in fondo al pozzo, e le gambe non mi tenevano nemmeno in piedi, erano melma. Ho bevuto tutta la bottiglia di vino rosso, mi sono sdraiato sul letto e ho dormito per un giorno intero. Sogni confusi mi hanno traversato il corpo, provavo a strapparmi una freccia conficcata nel petto, tiravo forte e attaccati alla punta venivano fuori parti di me, viscido cibo per gatti. Sono rimasto chiuso in casa per una settimana, senza lavarmi e senza cambiarmi i vestiti, ho continuato a bere e ho ripreso a fumare le sigarette lasciate da Carola, una stecca intera. Guardavo i dizionari e i libri ammucchiati sul tavolo, mi sembravano pietre scure cadute dal monte della vergogna. Solo pochi giorni prima tutto era ordine e silenzio, ora avevo solo voglia di piangere e urlare, ma la gola era stretta, gli occhi secchi. Vent’anni siamo stati insieme, io e Carola, e ora non c’era più niente: la casa era vuota come una cassa da morto che aspetta un cadavere. Credevo che saremmo arrivati insieme fino alla fine, che lei avrebbe vigilato sulla mia trepidazione, perché non si trasformasse in qualcosa di pericoloso per me e per gli altri, tenendomi la mano nel buio della stanza matrimoniale, prima di dormire. E io le sarei stato grato per sempre, l’avrei amata come si ama un parapetto su un burrone, mi sarei sempre tenuto aggrappato alla sua vitalità, sapendo che sciolto da lei ero vertigine. Traducevo il greco e il latino e per un poco mi sentivo a posto e tutto mi pareva avesse un senso, ma solo perché nell’altra stanza c’era Carola. Lei era pura e pazza, felice e infelice nello stesso momento, teneva il mondo sulla punta del naso come una foca, sapeva fare la ruota e il salto mortale, sapeva cantare, e io l’ho fatta diventare la mia stella triste. Dalla strada spingono le luci dei fari contro i vetri e gridano ancora il mio nome, che onore, che vergogna signor commissario. Non durerà a lungo, manca poco, manca sempre poco, lasciatemi vivere come voglio, restare qua dentro fino alla fine, non capite che il comandante deve affondare con la sua nave? Carola è arrivata all’università quando io stavo per uscirne, stavo completando la tesi su Mimnerno e Tirteo, foglie che cadono e foglie che resistono, la ruota del tempo che gira inesorabile e la ruota del carro sul campo di battaglia, obbedienza al fato o alla lancia, parole. L’avevo notata mentre scendeva dall’autobus davanti alla Sapienza con la tramontana tra i capelli e le ali ai piedi, piena di vita scalpitante, con un ridicolo montgomery rosso e una borsa di cuoio a tracolla gonfia di libri. Sulla scalinata della facoltà di lettere fu lei ad avvicinarsi, a chiedermi informazioni su come muoversi nel caos dell’università. Aveva fame e sete di tutto, voleva capire, studiare, conoscere gente nuova, e mi scelse come guida nel bosco. Mi innamorai subito, lì sulle scale, tra centinaia di ragazzi che entravano e uscivano come sangue vivo nel cuore, perché tra tutti si era rivolta proprio a me, nascosto nell’ombra. Parlava e si muoveva, saltellava, muoveva tanto le mani, aveva le lentiggini disegnate con la penna rossa attorno al naso e sulle guance e un orecchino solo che le pendeva dal lobo sinistro come una frana di sassolini d’oro.
 
[da Il preside di Marco Lodoli, Einaudi, 2020]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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