You can revolt

Silvia Meconcelli

04/05/2020

«Puoi venire ad apparecchiare?».
Marco non rispose, alzò il volume. Con le cuffie alle orecchie ascoltava i Muse. Sempre la stessa canzone: Revolt.
I can feel your pain
I can feel your confusion
I can see you’re trapped in a maze
Let’s find a way to escape
You’ve got strength
You’ve got soul
You’re not afraid
You’re not a drone
You can grow (you can grow)
You can make this world what you want
You can revolt, you can revolt, you can revolt.
 
Annotò nel suo Moleskine nero la traduzione, fissando nella mente le parole.
“Riesco a sentirlo il tuo dolore, riesco a sentire la tua confusione, vedo che sei intrappolato in un labirinto, troviamo un modo per scappare! Hai la forza, hai l'anima, non hai paura, non sei un drone, puoi crescere, puoi crescere, puoi fare di questo mondo quello che vuoi, puoi ribellarti, puoi ribellarti, puoi ribellarti”.
Sua madre entrò in camera e gli tolse le cuffie dalle orecchie.
«Puoi darmi una mano che tra poco arriva babbo?».
Marco sbuffò.
«Per favore».
«Sì, sì arrivo».
Si tolse le cuffie e gettò il cellulare sul letto sfatto. Il telefono rimbalzò tra le pieghe delle lenzuola fermandosi accanto al cuscino. Dagli auricolari continuò a uscire la musica, lontana: You can revolt, you can revolt, you can revolt.
 
Marco si mosse verso la cucina, con passi indolenti. Afferrò la tovaglia a fiori rossi ripiegata nel cassetto e la stese sul tavolo di legno. Non lasciò neanche una piccola piega: la tovaglia era tesa come una vela in una giornata di libeccio. Tre piatti, tre bicchieri e sei posate. I tovaglioli di stoffa, l’acqua gassata fresca, la brocca con il vino rosso.
«Hai fatto?»
«Sì, ho fatto».
«Grazie Marco, senti…»
«Che c’è?».
«Ti vorrei parlare». La madre si mosse veloce, aprì il forno, sparì dentro una folata di vapore, riaffiorò con il profumo di arista.
«Più tardi, ora no».
Marco restò in piedi appoggiato alla sedia a osservare sua madre cucinare, il nodo del grembiule legato male dietro la schiena, i fianchi mollicci con i cuscinetti e le caviglie gonfie, quelle odiose ballerine con la punta stondata.
«Più tardi potrebbe essere troppo tardi» bisbigliò Lucia, voltandosi con un mezzo sorriso. Lui le restituì un movimento di bocca storto, obliquo come lo scivolo del parco dove lo portava tanti anni prima.
 
Giuseppe rientrò in casa puntuale e sprofondò sulla sedia, le gambe sotto alla tovaglia a fiori rossi.
«Ciao».
«Ciao babbo».
Lucia si affrettò a baciarlo sulla guancia. «Com’è andata oggi, amore?».
Quando Marco si voltò a guardarlo, notò il volto teso e i solchi sulla fronte di suo padre. Giuseppe spianò la tovaglia già tesa, Marco deglutì rumorosamente. L’arista era nel piatto, calda e profumata: sua madre l’aveva servita con la misticanza. Giuseppe impugnò il coltello, grattò nella ceramica, e si infilò il boccone in bocca.
«È dura».
«La giornata è stata faticosa?» la voce di Lucia era stridula come il gorgoglio di una gazza ladra.
«È dura, la carne è dura».
«Ma…».
«Com’è possibile? Devi fare solo questo, solo questo. Io torno dal lavoro, stanco morto, e tu che sei tutto il giorno in casa, mi fai trovare la carne dura!».
Giuseppe afferrò il piatto e lo spinse al centro del tavolo, le posate tintinnarono contro la brocca del vino.
 
Marco strinse gli occhi. Pensò che avrebbe voluto prendere quella cazzo di tovaglia e tirarla via come si vede nei film, rovesciare tutto a terra. Immaginò i piatti frantumarsi sulle mattonelle in minuscoli pezzi, schegge mischiate all’insalata, i bicchieri scaraventati al muro, vide chiazze di vino rosso colare sulle pareti, tra le cornici di legno di quei quadri, finti come loro. Invece restò immobile a guardare i fiori sulla ceramica ancora intatta fare compagnia alla sua arista tiepida. Un bolo si piantò all’ingresso dello stomaco, non andava né su né giù. Eppure non aveva ancora mangiato niente. La bocca asciutta, senza saliva, come la battigia quando c’è la bassa marea.
«Marco».
«Dimmi babbo».
«Mangia».
Marco ubbidì con fatica: portò la forchetta alla bocca e ingoiò senza fiatare, quasi senza masticare. Avrebbe voluto dissolversi, svanire, ritornare nella sua stanza, con la sua musica e la sua mente guasta. Si alzò di scatto e sparì lungo il corridoio, la cena era rimasta mezza nel piatto.
Giuseppe si alzò e lo seguì. «Cosa c’è che non va, eh?» grugnì, guardandolo dal basso. Marco era più alto di lui di una decina di centimetri, da ormai un anno, ma questa condizione di superiorità fisica non rimediava alla sua paura.
«Babbo, sono stanco».
«Sei stanco? Cos’hai fatto per essere stanco?».
Quel che cazzo mi pare, pensò Marco, ma non alitò. Si era ricordato dei lividi, quei laghi blu di montagna che si era portato addosso nei giorni passati, quel dolore alle ossa che spezzava in due la schiena, quelle occhiaie violacee. Non era andato a scuola per giorni, fingendosi malato. Sua madre glielo aveva permesso.
«Rispondimi, cos’hai fatto per essere stanco?».
Marco si scosse. Si rese conto che suo padre era in punta di piedi: i due nasi si erano sfiorati. Era così vicino che Marco poté scorgere le venuzze rosse estendersi nelle sue pupille come tante strade di città che arrivano tutte in centro.  L’odore di suo padre lo pervase di malinconia. Era un aroma di tabacco, che Marco aveva amato un tempo, e che ora invece era diventato pungente, fastidioso, insopportabile.
«Niente babbo, non ho fatto niente» sibilò. Poi si rifugiò in camera. Chiuse a chiave la porta. 
 
Quella notte dormì male, come del resto succedeva spesso. Al primo chiarore dell’alba Marco si sedette di fronte alla finestra, l’alone del suo fiato si espandeva e riduceva al ritmo del suo respiro. Rimase a osservare il cortile vuoto del condominio, uno spiazzo asfaltato contornato da saracinesche abbassate, al centro una campana disegnata con i gessi colorati, in un angolo un pallone bianco e nero e una rastrelliera con le bici arrugginite. Scorse suo padre di fronte alla porta del garage, sua madre in vestaglia al suo fianco: c’era qualcosa che non andava. Di nuovo. Marco pensò a Francesco, il suo amico, l’unico che lo ascoltava. Francesco era bello, con quelle spalle larghe e quei capelli lunghi che cadevano morbidi sulle spalle. Francesco avrebbe potuto avere tutte le ragazze del quartiere e invece gli era sempre accanto. Per lui c’era sempre. Prese il cellulare e gli mandò un messaggio.
“Non ne posso più. Li odio”.
Li odiava entrambi, anche sua madre, quella donna così debole e intimorita che non riusciva a reagire, che le prendeva in silenzio per non farsi sentire.
«Basta basta ti prego». L’aveva udita gemere la notte passata, un pianto strozzato, secco, ovattato dalle mani sulla bocca.
«Zitta!».
E poi rumori soffocati, incomprensibili. Marco la immaginava nell’angolo della loro camera linda, vedeva il rimmel colare sul pavimento bianco, insieme al sangue e alle lacrime.
«Scusami non lo faccio più» la voce mesta di suo padre. «Perdonami, perdonami».
«Shh… certo che ti perdono».
«Giuro che non lo faccio più, non lo faccio più».
A piangere adesso era suo padre, il peccatore. Sua madre, l’assolutrice, lo dispensava dalle sue colpe come il prete prima della messa.
«Ti prego stai tranquillo» lo consolava. Lo confortava.
 
E il giorno dopo lei sorrideva, ostentando una felicità impostata. Una commedia penosa. Era una giostra che non si fermava mai. Il cellulare vibrò.
“Puoi fare di questo mondo quello che vuoi. You can revolt»” rispose Francesco citando i Muse.
Posso ribellarmi, pensò Marco, non posso restare a guardare.
“Ho deciso, me ne vado” scrisse.
“Aspettami, arrivo” rispose Francesco.
Marco indugiò un momento di fronte allo specchio, a osservare il suo volto giovane senza rughe, le sopracciglia folte, la peluria acerba, domandandosi se la sua fosse la scelta giusta, se davvero andarsene avrebbe risolto il problema. Dopotutto, ragionò, sua madre non si ribellava perché c’era lui, suo figlio. Se non ci fosse stato, lei sarebbe fuggita. Non voglio sentirmi in colpa, cazzo. Me ne vado, pensò, quando non ci sarò più forse lei troverà il coraggio di mandarlo affanculo. Non avrà più scuse. Marco indossò le Adidas e la giacca di pelle. Infilò il cellulare nello zaino, insieme al Moleskine e al borsello. Prese il casco e si preparò a scendere in cortile.
 
Il cortile sarebbe stato deserto a quell’ora di mattina se non ci fosse stata sua madre accucciata a terra, sopra il corpo immobile di suo padre.
«Oddio! Oddio mio, qualcuno mi aiuti!».
«Tutto bene?». Marco sentì la voce tremolante della vicina, la signora Giannina. La vide affacciata dalla terrazza del primo piano, con le rughe profonde, i bigodini in testa e il telefonino in mano.
«Chiami il 118» ordinò Lucia.
«Oh madonnina santissima» rispose la vecchia.
Lucia si abbassò, avvicinando l’orecchio al volto di Giuseppe: forse voleva sentire se respirava ancora.
«Cazzo, cazzo è incosciente… Giannina, l’ha chiamato il 118?» gridò.
«Ave o Maria piena di grazia il Signore è con te…».
«Giannina! La prego…».
Marco vide sua madre intrecciare le mani una sull’altra e iniziare a premere sul ventre di suo padre, con le braccia rigide rimbalzava con forza facendo perno sul bacino. Non si fa così, pensò Marco, si preme tra le costole e lo sterno, non sullo stomaco.
«Uno, due, tre, quattro, cinque», si muoveva a scatti in su e in giù.
«Sei, sette, otto, nove, dieci, undici, dodici».
I suoi capelli oscillavano, appiccicandosi alla fronte alta. «Tredici, quattordici, quindici, sedici, qualcuno mi aiuti, diciassette, diciotto, diciannove, venti, ventuno».
Lucia si voltò e si accorse di lui.
«Marco aiutami, chiama il 118!» gridò. «Tuo padre sta male!»
 
Marco scrutò sua madre in silenzio, restando immobile come quel palazzo crepato che sembrava sul punto di crollare da un momento all’altro, e invece restava sempre in piedi, saldo sulle sue fondamenta. Magari fosse imploso su se stesso e avesse portato tutti via. Lo aveva immaginato molte volte, sprofondare. E invece le pareti incrinate rimanevano su e le spaccature nel muro servivano solo come fessure per nascondere la sua rabbia.
«Non deve morire, non deve morire, qualcuno… qualcuno mi aiuti!» singhiozzò Lucia. «Ventidue, ventitré, non ce la faccio, ventiquattro, venticinque, ventisei, ventisette, ventotto, ancora, ventinove, dai, trenta».
Marco guardò il corpo disteso di suo padre: sembrava una sciarpa scivolata casualmente dal collo di un bambino. Scomposto. Appariva più lungo di quanto non fosse in realtà. Si fissò sulle spalle ossute che sporgevano in trasparenza dalla t-shirt bianca come scogli nel letto di un fiume. Il viso girato dalla parte opposta, sembrava non volesse farsi riconoscere, come se si vergognasse. Marco puntò lo sguardo sul volto: una macchia di sangue scuro scivolava dalla tempia alla bocca, disegnandone il contorno come una matita per le labbra. Era quasi nero. Gli occhi fermi su quella chiazza, avrebbe voluto raccogliere una goccia con l’indice, spalmarla sulle dita per controllarne meglio il colore, poi infilarla in bocca e succhiare, sentirne il sapore. La immaginò liscia, acre. Dolorosa. Un’asprezza decisa, come quella di un limone vecchio che sa di amaro e fa chiudere gli occhi e guardare da un’altra parte.
 
Marco si scosse, sua madre urlava.
«Marco… Marco vieni a darmi il cambio ti prego!».
Lui rimase immobile. «No, mamma».
«Ti prego, non ce la faccio più».
Il lampo blu dei lampeggianti abbagliò gli occhi di Lucia, che sprofondò a terra e appoggiò la testa alla saracinesca del garage. Arrivarono i soccorritori, con quelle tute arancioni e la valigetta con il defibrillatore. La scossa. Quello che ci voleva per cambiare la situazione. Marco voltò le spalle al trambusto e a sua madre che guardava in alto, quel cielo azzurro a righe bianche. Restò impalato, irrigidito, finché vide con la coda degli occhi suo padre dentro l’ambulanza.
«Si alzi, venga signora» sussurrò un infermiere appoggiando una mano sulla spalla di sua madre. «Ci dica cos’è successo».
«Ho… ho sentito delle urla e sono uscita e… e lui era qui…» dalla bocca di Lucia uscì un ronzio d’api.
«E poi?»
«Poi… poi ho fatto il massaggio cardiaco, ma…». Lucia piangeva. «Era difficile, ho perso subito le forze e … ho chiesto un cambio ma…».
«Stia tranquilla signora, tra un attimo la riportiamo in casa». L’uomo si allontanò.
Marco sentì una morsa alla gola, dita gelide premergli la trachea. Si portò le mani al collo: stava per soffocare. Quindi si voltò di scatto, ma non c’era nessuno. Puntò gli occhi su sua madre cercando nel suo corpo una risposta, ma trovò solamente le sue mascelle serrate con smania.
«Lo hai ucciso, lo hai ucciso tu!» inveì lei all’improvviso. «Come hai potuto farlo?».
Marco si scosse, sconcertato. «Non l’ho ucciso io!».
«Sì, hai lasciato che morisse! Non mi hai aiutato, perché?».
«Non se lo meritava».
«No, non è vero» ribatté Lucia.
«Ti picchiava, mamma!».
Lucia abbassò gli occhi.
«Credevi che non vi sentissi? Credevi che non li vedessi i tuoi lividi?»
«Era malato» brontolò sua madre.
Marco trattenne il fiato, come se l’aria da ispirare fosse completamente priva di ossigeno.
«Mi fai la predica! Tu, piuttosto… tu dimmi cos’è successo. Perché hai mentito all’infermiere?».
«Non gli ho mentito!»
«Sì, gli hai detto che hai sentito delle urla e sei uscita. È una bugia».
«…».
«Vi ho visto scendere insieme mamma, tu eri con lui, litigavate. Tu sai cos’è accaduto. Dimmelo».
«Non posso».
«Mamma… sei stata tu?».
Lucia infilò il naso tra le ginocchia senza rispondere. Quando rialzò lo sguardo a Marco sembrò di notare un sorriso leggero che lui non ricordava di aver mai visto nel volto di sua madre e un luccichio negli occhi che la faceva sembrare quasi bella.
 
Marco alzò lo sguardo. Fissò il cielo e le terrazze tutte intorno. Adesso i vicini erano tutti affacciati, la signora Giannina era sempre lì sporta sul davanzale che parlava al cellulare. Rughe profonde solcavano le sue gote. Era minuta, sembrava potesse rompersi da un momento all’altro. Biascicava qualcosa.
«L’ho visto, è stato il ragazzo, l’ho visto con i miei occhi».
Marco trasalì. Non è possibile, pensò, non sono stato io.
«Un ragazzo alto, con le spalle larghe… sì aveva i capelli lunghi sulle spalle» continuò. Giannina guardò in basso, puntandogli contro le pupille sporgenti.
«Meno male che è intervenuto il tuo amico, sennò quello psicopatico l’avrebbe ammazzata».
Marco sussultò.
Francesco…

Il racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it "Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus"
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