Jacu. I poteri dell’ultimo settimino del secolo nella Sicilia arcaica di Pintacuda

Luigi Oliveto

14/04/2022

“Jacu” di Paolo Pintacuda è un romanzo breve, ma le cui pagine smarginano fino a raggiungere la vasta gamma dei sentimenti umani che si ritrovano anche in universi minimi quale è quello raccontato nel libro. Un paesino siciliano di quattrocentoundici viventi, colto al passaggio di secolo, tra fine Ottocento e il debutto del Novecento. È il 12 dicembre 1899 e tra le casupole di Scurovalle i rintocchi delle campane in un orario che nulla aveva a che fare con le consuete funzioni religiose, chiamano a raccolta gli abitanti. Indubbiamente per qualcosa di eccezionale. Infatti una giovane vedova di ventidue anni, Vittoria, stava partorendo con due mesi di anticipo sulla data prevista, e trattandosi dell’ultimo settimino del secolo, la creatura avrebbe avuto straordinari poteri di cura e di magia. Questo, infatti, stabiliva la tradizione. Si sarebbe così “spezzata una monotonia ostinata che durava senza tregua da sessantuno anni”. Era infatti da ben tre generazioni che a Scurovalle non nasceva un settimino. Il bambino venne alla luce, gli fu dato il nome Giacomo (Jacu). Il parto era stato difficile, sembrava dovessero morire mamma e figliolo. Tant’è che, a detta della gente, il primo prodigio del neonato fu salvare la madre e sé stesso. In ragione dei suoi doni, Jacu crebbe con l’affetto e la riconoscenza dei compaesani. Allo scoppio della guerra, però, avvenne nei suoi confronti un rancoroso voltafaccia. Era successo che per un errore dell’anagrafe, lui, a differenza dei suoi coetanei, non risultava dovesse partire per il fronte. Vai a spiegarlo alla gente, che di un errore si trattava. Quindi, per porre fine alle maldicenze e al proprio scoramento, decide di arruolarsi volontario. Terribile la guerra, che mette paure, semina diffidenze, incarognisce gli animi. E pure Scurovalle risultò cambiata. Paolo Pintacuda, che è anche sceneggiatore, restituisce questo spaccato d’epoca con vividezza cinematografica. L’immaginario paesino siciliano è perfettamente allestito per il set di una storia che trasuda umanità, affanni, credenze arcaiche. Il candido Jacu è la luce che rivela quel piccolo mondo in tutti i suoi interstizi.
 
***
 
Il pomeriggio del 12 dicembre 1899 Scurovalle, da qualche parte al centro di una montagna ancora senza nome fra i circondari di Girgenti e Palermo, contava quattrocentoundici viventi, quindici vacche, tre vitelli che non sarebbero sopravvissuti all’inverno, cinquantadue pecore e un numero imprecisato di randagi fra cani e gatti.
Le abitazioni, tutte in pietra scabra, come il cippo robusto all’ingresso del paese, sembravano ammassate a formare quelle indicazioni che rivelano l’itinerario di montagna. In realtà era proprio quella disposizione a rendere Scurovalle – già difficile da raggiungere pure a dorso di mulo – vaga e indistinguibile come la nebbia che per buona parte dell’inverno la cancellava alla vista e dalla memoria di quanti abitavano la vallata. Sembrava ne ignorassero l’esistenza, mi raccontò nel ‘36 mia madre, e questo nonostante tutti sapessero che a meno di un chilometro da lì sorgeva la ricca dimora estiva di Audenzio Rajneri, secondo barone di Pietraperzia.
Nei mesi caldi i meno avveduti di altri paesi più antichi e noti si convincevano addirittura che quel minuto grumo di case disordinate fosse solo uno dei non insoliti sfaldamenti della montagna verificatisi nel corso dell’inverno.
Per porre fine all’oblio, gli abitanti di Scurovalle nel 1838 battezzarono la borgata in quel modo, così che solo pronunciandone il nome la gente della valle invocasse l’oscurità su di sé.
Si trattò di una soluzione che rabbonì il generale malanimo degli scurovallesi, ma si rivelò anche un trionfo precoce e sterile che dopo un po’ si esaurì. La verità era che in paese ben poco era degno di nota e niente restava impresso nella memoria di chi ci viveva.
A Scurovalle pareva indistinguibile soprattutto lo scorrere del tempo, che sembrava affetto dalla stessa indifferenza delle borgate circostanti, tanto che per ripicca contro quell’imperterrita immobilità si decise di accennare alle vicende accadute con uno stile di datazione che non alludesse mai ai mesi né agli anni, ma al raccolto del periodo e al clima del momento. A lungo vi furono i nati di scorzonera dell’anno del gelo, l’emigrato di biete dell’anno bruciante, persino gli sposi di malva dell’anno riarso.
Ecco perché i rintocchi a stormo della maggiore e della seconda, le due campane della piccola chiesa dell’Immacolata, in un’ora inconsueta per la messa della sera, costituirono da soli un evento memorabile. Spezzarono una monotonia ostinata che durava senza tregua da sessantuno anni. In quella seconda settimana di dicembre infatti accadde qualcosa atteso da ben tre generazioni. Stava per venire al mondo un settimino. Non si trattava di una circostanza rara e senz’altro veniva considerata una disgrazia visto il modesto numero di neonati sopravvissuti a un parto prematuro, ma quello era l’ultimo settimino del secolo, vale a dire – secondo una credenza appassionata più antica del paese stesso – colui che avrebbe posseduto il dono di curare da ogni malattia, col nudo tocco delle mani.
Quasi tutti gli scurovallesi accorsero nell’unica piazza del paese grande quanto il chiostro di un monastero. Rimasero in casa gli anziani zolfatari, incapaci ormai di camminare, e la dozzina di madri che non potevano abbandonare una prole di trentaquattro bambini, quindici dei quali maschi di pochi mesi.
Prima che il sacerdote – il giovane Leonardo Prestia – mollasse il cappio e abbandonasse in fretta la corta torre nolare per raggiungere e informare i presenti, si avanzarono le ipotesi più fantasiose giacché ad alcuni sembrò che la campana risuonasse a morto. Ci fu chi pensò al trapasso di re Umberto I e al ritorno dei Borbone, altri temettero la morte di papa Leone XIII e l’arrivo dei turchi, alcuni considerarono persino il decesso di Girolamo Nocera – il sindaco più istruito e per questo più duraturo nella storia di Scurovalle –, senza tener conto che si trovava fra loro e contribuiva anche lui ad arricchire quelle stravaganze della malasorte.
Padre Leonardo attraversò di corsa i pochi metri che separavano la chiesa dalla piazza. Quando si fermò davanti ai fedeli aveva già dato la notizia e sembrava che a malapena avesse risparmiato il fiato per rimanere in vita.
La tentazione collettiva di raggiungere la casa di Vittoria, la ventiduenne in travaglio da meno di un’ora, fu soffocata dal parroco con una frase determinata ma breve, a causa del fiato corto. E dato che aveva parlato come se stesse esalando l’ultimo respiro, a nessuno venne in mente di contraddirlo.
Si mossero tutti verso la chiesa dell’Immacolata e aspettarono che Prestia li raggiungesse per aprire il vecchio portone di frassino in parte crepato. Entrarono in silenzio col rigore delle celebrazioni solenni e presero posto sugli scranni. Poi aspettarono che Gioacchino Gelardi, il sagrestano, accendesse le candele e cominciarono a pregare per la ragazza e il settimino, fissando in penombra l’espressione eternamente benevola dell’Immacolata sull’abside alle spalle dell’altare maggiore.
Subito dopo padre Leonardo e il sindaco Nocera, che non lo aveva perso d’occhio da quando anche lui aveva appreso la notizia, andarono via.
[…]
«Non era un parto come gli altri», mi assicurò la più giovane delle levatrici quando le chiesi conferma delle paure di Nocera. «Quando arrivarono padre Leonardo e il sindaco», aggiunse con l’aria esitante di chi sa ciò che accadde in seguito, «Vittoria aveva avuto già due spasimi così gravi che se pure le avessi chiesto il suo stesso nome non mi avrebbe saputo rispondere».
Anche se aveva assistito ad altri parti, quella ragazza non riuscì più a dimenticare la fatica del travaglio e i dolori della giovane, annunciati da tremori di sventura che sembravano esercitarla alla morte. Il ricordo che le rimase più impresso di quella sera, mi confessò, fu un’ampia chiazza di un rosso vivo sulle lenzuola e le cosce di Vittoria inspiegabilmente immacolate, a parte una sottile traccia di sangue lasciata dalle dita minute del neonato mentre lo tiravano fuori.
La sua volontà di nascere, aggiunse senza che le avessi ancora chiesto del bambino, aveva finito per rendere cieca sua madre, che svenne dopo una nuova convulsione.
Quando la levatrice più esperta uscì dalla stanza col neonato in braccio, guardò gli altri come se si fosse resa già conto che l’unica cosa da fare era preparare due tombe nel vicino cimitero. Per Vittoria non esisteva scienza medica che fosse risolutiva, mentre il pianto di suo figlio somigliava più a un rantolo soffocato.
Padre Leonardo e il sindaco si guardarono con un certo riserbo e sebbene non fossero sicuri, come lo era la donna, che il bambino sarebbe morto, condivisero l’urgenza di registrarne la nascita e battezzarlo con la premura della misericordia, prima di occuparsi di Vittoria.
Nocera, sorpreso da un’evenienza inaspettata come poche altre volte da quando era stato eletto sindaco, non si lasciò tuttavia scoraggiare dallo smarrimento che lo colpì appena si accorse di non avere carta su cui scrivere l’atto ufficiale di nascita. Allora improvvisò con una prontezza che stupì anche lui.
Dall’unica parete senza finestre staccò un quadro della Sacra Famiglia e, col riguardo della devozione, lo posò sul tavolo, più per la luce tremolante della lampada a olio che per la comodità di un appoggio stabile su cui scrivere. Capovolse la cornice e scoprì sul fondo in legno una minuscola colonia di insetti scuri. Li spazzò via con un soffio deciso che alzò pure un sottile strato di polvere e infine tirò fuori dal taschino la stilografica in ebano e ottone ereditata da suo nonno. Fece il lavoro da solo e più in fretta che poté, andando a memoria.
L’anno del Signore milleottocentonovantanove il dì dodici del mese di dicembre alle ore diciannove,
avanti a Noi Girolamo Nocera sindaco e uffiziale dello stato civile del comune di Scurovalle circondario di Girgenti provincia di Girgenti è comparso Leonardo Prestia di anni trentotto di professione parroco domiciliato nella chiesa dell’Immacolata in Scurovalle il quale ci ha presentato un maschio secondoché abbiamo ocularmente riconosciuto, e ha dichiarato che lo stesso è nato da Vittoria Salerno di anni ventidue domiciliata in Scurovalle nel giorno di oggi del mese di sopra dell’anno corrente alle ore diciannove nella casa della di lei abitazione lo stesso ha inoltre dichiarato di dare al bambino il nome di Giacomo.
 
[da Jacu di Paolo Pintacuda, Fazi Editore, 2022)
 
Torna Indietro
Lascia un Commento

Scrivi un commento

Scrivi le tue impressioni e i commenti,
verranno pubblicati il prima possibile!

Ho letto l'informativa sulla privacy e acconsento al trattamento dei dati personali ai sensi dell'art. 13 D. lgs. 30 giugno 2003, n.196

Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

Vai all' Autore

Libri in Catalogo

NEWS

x

Continuando la navigazione o chiudendo questa finestra, accetti l'utilizzo dei cookies.

Questo sito o gli strumenti terzi qui utilizzati utilizzano cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Chiudendo questo banner o proseguendo la navigazione, acconsenti all’uso dei cookie.

Accetto Cookie Policy
X
x