La fortuna. Storia di Lucio che sognava di comandare navi

Luigi Oliveto

16/06/2022

Stupisce e commuove pensare a come l’essere umano – lo si osservi pure sulla misura lunga dei millenni – da sempre lotti con sé stesso, con il mondo circostante, con il destino, per far coincidere la vita alle proprie aspirazioni. E questo fa Lucio, il protagonista de “La Fortuna”, romanzo storico di Valeria Parrella, ambientato tra il 62 e il 79 d.C., l’anno in cui Pompei scomparve sotto le pomici incandescenti eruttate dal Vesuvio. Ad inizio racconto si citano gli sconsolati versi di Marziale: “Tutto fu preda delle fiamme, e tutto / al suol consunto e incenerito giacque; / avvolge il colle spaventevol lutto / a’ numi istessi un tanto orror dispiacque.” Lucio è un bravo ragazzo, di nobili origini, nato e cresciuto a Pompei. Ha un problema che lui non vuole sia un problema: è cieco da un occhio, ma "un limite è un limite solo se uno lo sente come un limite, sennò non è niente". La famiglia lo avvia alla carriera politica, e perciò è stato mandato a Roma, per studiare retorica alla scuola di Quintiliano. Il sogno di Lucio è, però, navigare, diventare condottiero di navi. E lo diverrà proprio nella drammatica circostanza dell’eruzione del Vesuvio, allorché la flotta di Plinio il Vecchio va in soccorso agli abitanti di Pompei che tentano invano di salvarsi correndo verso il mare. Plinio scende generosamente a terra (vi morirà) e lascia il comando a Lucio, che sulla plancia della Fortuna avanza in quell’inferno dove più che la vista occorre la percezione, un intimo sentire. Quando tutto ciò accade, Lucio ha diciassette anni. Davanti a lui c’è – anzi, non c’è più – la città dell’infanzia e della giovinezza, con affetti, amicizie, giochi, fantasie. Un mondo ora perduto e già consegnato ai ricordi, affinché almeno in questo modo possa sopravvivere. Così che tutto insieme, egli ha da governare passato e presente, i paurosi beccheggi della Fortuna e i moti d’animo, la propria volontà e le infide trame del Fato. Il romanzo breve di Valeria Parrella trova ragione nel sempiterno tema: fino a che punto si è artefici del nostro destino, quanto ed oltre cosa bisogna osare per afferrarne il proprio filo. E l’autrice un’idea in proposito ce l’ha: “Noi siamo esattamente la nostra sorte, e non è che ce la possiamo togliere di dosso quando non ci sta più bene come la maschera alla fine delle tragedie. Nella vita il teatro è sempre aperto”.
 
***
 
La rotta era facile: andare dove nessuno sarebbe andato.
Navigando verso la nuvola ho capito che eravamo rapiti da essa, attratti come dietro un incantamento. La nuvola non era fatta di acqua, faceva piovere, sì: ma pioveva cenere, uguale a quella che resta alla fine della sera nei bracieri.
Quando si attraversa un banco di nubi si va avanti fino a sbucare dall’altra parte per vedere la costa, e noi così abbiamo fatto. Ma era la costa che stava venendo verso di noi: il mare si era riempito di pietre e non c’era più pescaggio per le nostre chiglie. Le mappe non corrispondevano più al mondo, e il disegno della terra non assomigliava al mio ricordo. A quel punto i marinai sono impazziti per la paura e non potevamo che tornare indietro. Sotto i nostri scafi non c’era più acqua, dovevo impartire l’ordine, subito.
Del resto ci sono solo due modi di vivere: uno è avere sempre paura. Arrischiarsi il meno possibile, chiudersi in casa, fare sempre gli stessi movimenti, mangiare le stesse cose, incontrare le stesse persone, oppure proprio più nessuno. Assumere che il giorno faccia il giorno e la notte la notte. Ascoltare l’agguato dei malanni, quasi tendere loro l’orecchio: a ogni prurito, ogni morso della fame, ogni dolore.
Oppure guardare verso la paura e dire:
“Mi fa paura quella cosa lì. Quel pezzo di vita. Quella scelta, quell’esercitazione che il maestro di retorica si aspetta da me, quella carica che vuole assegnarmi l’imperatore. Mi fa paura la strada che porta fuori dalle mura, i barbari asserragliati alle colline, il rumore nel mezzo della notte di cui non so distinguere l’origine. Mi fa paura la donna che vorrei, perché la voglio”.
Ognuna di queste paure dice sempre la stessa cosa: ci ricorda che non siamo dei e che possiamo morire. Per la più piccola o la più grande impresa: noi possiamo morire, perché affrontandola scopriamo che non ne eravamo all’altezza, che quello non era il nostro posto nel mondo né il nostro destino né avevamo sufficiente abilità per sederci al tavolo di quel gioco. Se falliamo, moriamo.
Io dunque credo che ogni paura sia un piccolo gioco con la morte: un avvistamento a cui possiamo decidere o meno di dare seguito: il cane che punta verso il cespuglio quando non sai ancora se lo asseconderai.
Cosa ne avrei concluso, fino a stamattina? Che era un problema da risolvere con i versi: anzi, che l’avrebbe risolto Secondo per me, che è più bravo, e io mi sarei andato a ubriacare in quella locanda che ci piace tanto.
Invece. Invece dal momento in cui il nocchiere ha detto: “Torniamo indietro”, io ho capito che l’unico modo per superare la paura è attraversarla.
Noi non potevamo tornare indietro: lì, da qualche parte sulla costa, c’era la mia casa, la donna che mi aveva partorito e quella che mi aveva allattato, i sentieri che percorrevo da bambino seguendo un coniglio, e le lotte furibonde nella sabbia con gli amici. C’era la statua d’oro di Iside a cui mi ero votato. Perduto quello: tutto sarebbe stato perduto. Così mi sono poggiato all’albero con quel gesto per cui i marinai mi chiamano matto: che appoggio l’orecchio ai nodi del legno e chiudo gli occhi. La nave, come sempre, mi ha parlato, e io ho riferito al nocchiere:
“Seguiamo la corrente”.
Poi ho avvisato l’ammiraglia, l’ho fatto di persona perché temo che la paura degli altri mi inganni come Nerone temeva il cibo e il vino.
“Del resto la Fortuna aiuta chi le si affida,” mi ha risposto Plinio, e siamo andati, la corrente ci portava verso Stabia.
A Stabia la visibilità era buona, dal mare il prodigio pareva finito, la popolazione era salva, in spiaggia, si erano spostati con tutto ciò che avevano: dalle navi si intuivano cavalli e mobili e bauli, io vedevo poco, ma avevo questo mozzo accanto a me, gli ho chiesto:
“Cos’è che brilla a tratti laggiù?”.
“Sono donne, comandante, donne piene di gioielli.”
Allora sono andato a poppa e ho capito che non saremmo tornati indietro finché il mare non avesse deciso così. Né a remi né a vela, non c’era null’altro da fare. Bisognava aspettare, quelli lì sulla costa, noi in mare. Plinio è voluto scendere perché ha riconosciuto qualcuno. Si poteva ancora andare con una scialuppa, c’era un margine per farlo, ma io gli ho parlato, dalla impavesata.
“Ammiraglio, non mi pare prudente.”
“Non lo è.”
“Io non andrei.”
“Tu infatti non puoi venire: hai il comando della flotta.”
Io in questo golfo tempeste vere non ne ricordo, eppure credo di essere stato a guardare il mare più di ogni altra cosa nella vita.
I suoi segnali, li so riconoscere. So quando verrà la pioggia da terra e quando verrà da mare. So quanto durerà, so, dal movimento delle nubi o dal loro permanere, dalla formazione che assumono gli uccelli in volo, cosa succede il giorno successivo e quello a seguire ancora, e so, mentre io sono sulla mia spiaggia, esattamente cosa sta accadendo laggiù, sopra la villa di Tiberio. Invece di questa cosa non sapevo ancora nulla.
La terra qui fa come un abbraccio: la terrazza da cui avevamo osservato quella immensa nuvola è solo una delle tante terrazze di questo abbraccio, io da qui vengo e qui voglio tornare, appena sarà tutto finito. È casa mia.
 
[da La Fortuna di Valeria Parrella, Feltrinelli, 2022]
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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