La traversata notturna. Il romanzo familiare di Andrea Canobbio

Luigi Oliveto

03/11/2022

A fare di un romanzo un bel romanzo è innanzitutto la scrittura, ma non di meno l’idea, la struttura, e dunque la perizia dell’autore nel dare a questi elementi una tenuta: tecnica, emotiva, di aspettativa. Ecco perché Andrea Canobbio, con il suo ultimo libro “La traversata notturna” (La nave di Teseo) ha prodotto un bellissimo romanzo. Tutto si muove sulla scorta di una mappa quadrata di ottantuno caselle, quella della città di Torino, teatro principale della vicenda. Che è poi la storia dei genitori di chi narra. Giovani innamorati del dopoguerra, felici sposi del boom economico, coppia spenta e delusa nella maturità. Lei donna sensibile alle arti, lui un indaffaratissimo ingegnere che si rivelerà, però, incapace di dare solidità alla propria esistenza. Il “grande melanconico” cede infatti alla depressione e in quel tunnel trascina moglie e figli, lasciando in loro segni indelebili. Un tormento lungo trent’anni e non ancora risarcito. Da ciò il bisogno di ripercorrere luoghi, ricordi, stati d’animo. Ecco allora il senso della mappa della città (una topografia della memoria) di cui il figlio si dota unitamente ad alcune vecchie meticolose agende del padre e ad una raccolta di lettere d’amore. Un viaggio necessario, se non per giustificare, almeno per capire; per ricongiungersi a chi, nonostante tutto, non può essere dimenticato. La chiave di lettura pare offrirsi subito nel primo capitolo, laddove il narratore parla di un ricordo d’infanzia (ricordo vero o falso?), la vista di una fossa lasciata dalla demolizione di una vecchia casa: “Prima c’era una casa, poi c’era una fossa. Non è normale che un simile prodigio sorprenda un bambino? E tutto questo l’ha fatto tuo padre. Così forte da distruggere una casa e scavare un buco largo e profondo come la casa stessa. E infatti dopo un po’ dal buco è uscita fuori una casa nuova, come se la terra l’avesse partorita e mio padre fosse una levatrice o un rabdomante o un cane da tartufo, come se tutte le case crescessero sottoterra aspettando la loro famiglia, rifinite in ogni dettaglio, una spolverata e via”. Possono bastare queste righe ad avvertire quale impegnativa ‘traversata’ si accinga a intraprendere l’autore nelle vicissitudini di un piccolo, sofferto universo domestico. E – noi con lui – attraversare quanto di bello, bizzarro, infelice sia stato vissuto in quel romanzo familiare.

***
 
Scendendo verso la città lungo il Parco della Rimembranza s’incontra un bivio a forma di T, o forse un trivio (che in realtà è un quadrivio a forma di π, ma il quarto braccio è un po’ nascosto). Per diciott’anni ci sono passato almeno due volte al giorno, prima di lasciare la casa in collina e tornare a vivere in città. Era uno degli incroci più ambigui di tutta la rete stradale. Bosco fitto da una parte, dall’altra una casa e una torretta dell’ENEL. Chi arrivava dal tratto orizzontale sinistro della T era convinto, chissà perché, di aver la precedenza su chi arrivava dal tratto verticale. Frenate improvvise, gestacci, insulti soffocati. Più tardi aggiunsero uno stop che aiutò a fare chiarezza, ma non del tutto: è noto infatti che i quadrivi sono luoghi infestati dagli spiriti.
Molti anni fa, era una sera di pioggia, in mezzo al trivio mi fermò un giovane uomo, azzimato era l’aggettivo che lo definiva meglio. Soltanto il mini-ombrello in condizioni pietose, almeno due stecche svirgolate, creava un certo contrasto con la cravatta scura e l’impermeabile blu. Abbassai il finestrino e lo riconobbi. Qualche mese prima mi aveva avvicinato non lontano dalla casa dei miei in città e mi aveva chiesto dei soldi. Una serie di eventi sfortunati lo aveva lasciato senza benzina e senza portafoglio; doveva tornare in Alta Val di Susa per assistere la madre malata; aveva bisogno di cinquemila lire, non di più, me le avrebbe rispedite non appena arrivato a casa. Non sono sicuro dei motivi che mi spinsero a dargli retta. Non ero intimorito, lui non era minaccioso; non ero impietosito, non credevo a una parola di quello che aveva detto e sapevo che non avrei rivisto una lira (anche se aveva scritto diligentemente su un foglietto il mio nome e indirizzo). Oppure volevo metterlo alla prova, e veder confermata la mia misantropia. E comunque quel particolare, in Alta Val di Susa, mi aveva conquistato ed evidentemente volevo premiarlo. Non Bardonecchia o Cesana o un’altra località dal nome prosaico. Nel suo discorso l’Alta Val di Susa possedeva l’aura fiabesca della strada per Millerovo. Se si fosse limitato alla madre malata non avrei abboccato.
Quante probabilità avevo di incontrarlo di nuovo, qualche mese dopo, nel trivio-quadrivio? Forse più di quante credessi, forse in quei mesi aveva battuto a tappeto la città, recitando la sua parte in ogni rione. Affezionandosi alla storia e ripetendola sempre uguale, perché ogni tanto funzionava (almeno in un caso aveva funzionato). Appena il finestrino fu abbassato, restando a rispettosa distanza e chinandosi in atteggiamento pieno di deferenza, l’ombrello che gli disegnava un’aureola frastagliata alle spalle, mi disse di aver finito la benzina, gli avevano rubato il portafoglio e doveva assolutamente tornare a casa. E casa sua era ancora in Alta Val di Susa. Questa volta la madre malata era defunta, vera o falsa che fosse; se falsa, defunta nella finzione. Non era un particolare importante. Il segreto non stava nel patetico ma nell’epico, nella distanza da coprire, nelle peripezie. Ti chiedeva di partecipare a un’avventura. Una meta remota e insieme familiare, lontana ma credibile (non c’era ancora l’autostrada per Bardonecchia). Superata la sorpresa (e l’amarezza che non mi avesse riconosciuto come io avevo riconosciuto lui; l’amarezza di essere uno dei tanti), lo mandai al diavolo, e adesso me ne pento. Se lo incontrassi di nuovo gli chiederei: “Perché non il Basso Monferrato o l’Entroterra Ligure? Come sapevi che l’Alta Val di Susa avrebbe toccato in me un tasto dolente? Come hai potuto leggermi dentro così bene? Tu sei il Briccone divino, tu sei un trickster.”
In Alta Val di Susa mio padre aveva lavorato negli anni settanta alla costruzione del traforo autostradale del Fréjus, la sua ultima impresa da ingegnere. Qualche anno dopo la sua morte, ripensando alla buia galleria, ebbi un’illuminazione: non esisteva opera edile che lo definisse meglio, lui, il grande melanconico. Mille volte quell’immagine triviale mi era affiorata alla coscienza (“nel tunnel della depressione”) e mille volte l’avevo ricacciata indietro senza rendermene conto. Ero passato dal considerare insignificante qualsiasi impresa nella quale mio padre fosse impegnato, alla quale fosse legato o interessato, allo stato attuale in cui tutto ciò che aveva detto e fatto prendeva un significato e, semplice insieme di elementi eterocliti, componeva una figura riconoscibile e leggibile, come in un quadro di Dalí. Era incredibile, pensavo, che nessuno in famiglia avesse mai osato collegare in modo ironico o meno ironico o drammaticamente serio i due cunicoli, quello figurato e quello reale. I miei d’altronde non frequentavano, se non occasionalmente e per lavoro, l’Alta Val di Susa, terra di inganni, misteri insondabili e sconfinate solitudini. Se ne tenevano ben lontani.
 
[da La traversata notturna di Andrea Canobbio, La nave di Teseo, 2022]
 
Torna Indietro
Lascia un Commento

Scrivi un commento

Scrivi le tue impressioni e i commenti,
verranno pubblicati il prima possibile!

Ho letto l'informativa sulla privacy e acconsento al trattamento dei dati personali ai sensi dell'art. 13 D. lgs. 30 giugno 2003, n.196

Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

Vai all' Autore

Libri in Catalogo

NEWS

x

Continuando la navigazione o chiudendo questa finestra, accetti l'utilizzo dei cookies.

Questo sito o gli strumenti terzi qui utilizzati utilizzano cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Chiudendo questo banner o proseguendo la navigazione, acconsenti all’uso dei cookie.

Accetto Cookie Policy
X
x