Introduzione
Il professor Tommaso Bovo, figura di spicco nel panorama del design italiano, è noto per il suo approccio critico e multidisciplinare. Con un background che spazia dalla grafica alla critica del design, Bovo insegna presso importanti istituzioni come l’ISIA di Firenze e collabora con riviste prestigiose tra cui Domus e Artribune. In questa intervista, il professore esplora il valore della tradizione toscana e il ruolo della digitalizzazione nella valorizzazione dell’arte e del design.
Di cosa si occupa nella vita? Quali sono i suoi principali interessi?
“Mi occupo di diverse cose. Nasco come grafico, specializzato in design della comunicazione, ma nel corso del tempo ho ampliato il mio raggio d’azione, dedicandomi anche alla critica del design. Insegno in diverse facoltà universitarie: attualmente presso l’Istituto Europeo di Design (IED) di Firenze, l’Università di Firenze, nella Facoltà di Architettura, e all’ISIA di Firenze. Ho avuto anche esperienze di insegnamento in altre sedi, come l’Università di San Marino. Inoltre, collaboro come autore con varie riviste prestigiose, tra cui Domus, Interni, Club Magazine, Frizzifrizzi e Artribune. Questo è un po’ il panorama del mio lavoro e dei miei interessi.”
Per queste riviste scrive di digitalizzazione del patrimonio artistico?
“No, il mio focus principale è legato al mondo del design e del disegno industriale. Mi occupo prevalentemente di questi ambiti. Negli ultimi tempi sto cercando di scrivere di più sulla grafica, ma con alcune difficoltà. Il pubblico interessato alla grafica è molto più ristretto rispetto a quello del disegno industriale, quindi è un campo che richiede un maggiore sforzo per ottenere attenzione.”
In Italia, la principale città legata al mondo del design è Milano. Eppure anche il design toscano ha avuto la sua parte nel Novecento. Secondo lei viene valorizzato appropriatamente o si potrebbe fare di più? Come mai non viene valorizzato secondo il suo parere?
Allora rispondo alla vostra domanda, che è molto complessa e richiederebbe un’analisi approfondita. Provo a sintetizzare con due riflessioni.
La prima riflessione riguarda i periodi storici che hanno reso Firenze e la Toscana rilevanti a livello artistico, estetico e comunicativo. Il primo grande momento è, naturalmente, il Rinascimento, che si estende approssimativamente dal 1300 al 1600, segnando il passaggio dal Medioevo all’età moderna. Il secondo periodo è quello del Movimento Radical, molto più breve, sviluppatosi tra il 1966 e il 1975. Questo movimento, nato nel secondo dopoguerra, ha avuto il suo apice culturale fino alla crisi del 1972 e il successivo scioglimento nel 1975. Le priorità della Toscana, tuttavia, hanno sempre puntato sul Rinascimento, rendendolo il pilastro iconico e identitario della regione.
La seconda riflessione riguarda l’evoluzione economica e sociale della Toscana. La struttura economica regionale ha privilegiato il turismo rispetto all’industria, consolidando l’immagine della Toscana come grande polo turistico piuttosto che industriale. Negli anni Sessanta, questa assenza di un forte apparato industriale ha creato le condizioni ideali per la nascita dei Radical, un movimento che contesta proprio la logica industriale. Non sarebbe mai potuto nascere a Milano, perché Firenze offriva un humus culturale unico: una Facoltà di Architettura straordinaria, con docenti del calibro di Umberto Eco e Gillo Dorfles, e amministrazioni illuminate che promuovevano una politica riformista e progressista.
Il problema dei Radical? Non sono stati pienamente integrati nel tessuto industriale toscano. Milano, invece, ha saputo appropriarsi di questo movimento, legittimamente ma a scapito di Firenze. Figure come Ettore Sottsass hanno fatto da ponte tra le due città, portando con sé la sperimentazione fiorentina e trasformandola nei movimenti post-Radical, come Alchimia e Memphis. In questi contesti, il contributo dei Radical fiorentini si è diluito, lasciando che Milano plasmasse un’identità nuova e distinta.
Tornando alla vostra domanda, oggi il Rinascimento continua a dominare l’immaginario collettivo toscano, rimanendo un ideale antropologico e culturale. Se parlassi della Toscana a un americano, molto probabilmente citerei il Rinascimento, perché il Movimento Radical è meno conosciuto, persino a livello locale. Questo confronto dimostra come, nonostante i Radical rappresentino una stagione straordinaria, il Rinascimento abbia prevalso nella narrazione identitaria della Toscana.
Secondo lei, quali sono le possibilità per valorizzare il patrimonio artistico e artigianale toscano?
“L’artigianato toscano è straordinario, ma tende a ripetersi e a essere conservativo. La chiave è unire la ricerca universitaria alla sperimentazione artigianale, creando un dialogo tra tradizione e innovazione. Ad esempio, collaborare con professori di chimica o biologia per sviluppare nuovi materiali potrebbe portare a soluzioni sorprendenti. Inoltre, la mancanza di grandi industrie può diventare un punto di forza: come Eindhoven, che ha trasformato la sua debolezza industriale in un motore per la sperimentazione, anche la Toscana potrebbe seguire un percorso simile.”
Il museo online può suscitare lo stesso impatto emotivo di un museo fisico?
“L’arte può essere fruita anche virtualmente, ma il museo è insostituibile come luogo fisico. La tecnologia può essere un mezzo per arricchire l’esperienza, ma non deve diventare il fine ultimo. Guardare un Caravaggio virtuale da casa non ha senso se posso vivere l’emozione di ammirarlo in un contesto reale. Durante la pandemia, l’online ha avuto un ruolo essenziale, ma in condizioni normali è fondamentale preservare il valore unico del museo come spazio di incontro e contemplazione.”
Come vede l’inserimento del design nei musei?
“Non credo nei musei del design, perché tendono a cristallizzare oggetti che sono nati per essere vissuti. Il design è vitale, legato al quotidiano, e inserirlo in un museo è come imprigionarlo. Per esempio, preferirei vedere un divano in uno showroom, dove posso toccarlo e provarlo, piuttosto che dietro una teca. I musei del design dovrebbero concentrarsi sul processo creativo, mostrando come gli oggetti vengono realizzati, piuttosto che limitarli a esposizioni statiche.”
Conclusione
Il professor Bovo ci invita a guardare oltre la superficie storica della Toscana per cogliere le opportunità offerte dal dialogo tra tradizione e innovazione. La sua visione è chiara: per mantenere viva l’eredità culturale, è necessario reinventarla continuamente, integrando sperimentazione e modernità. In un mondo sempre più globalizzato, questa prospettiva potrebbe rendere Firenze un modello di innovazione culturale.