C’era una volta...
il 15 ottobre del 2011, una città italiana tra le più belle del mondo messa a ferro e fuoco da un piccolo manipolo di persone con cappucci e sciarpe e felpe nere. Erano poche centinaia e riuscirono nell’impresa che non riuscì, secoli prima, ai Galli e ai Cartaginesi. Il loro nome evocava la gloria degli Unni e dei Visigoti e rispondevano al carisma di un giovane il cui nome risuona ancora oggi di gloria al pari di Cesare o Nerone. Si chiamava Er Pelliccia. Capelli biondi e ricci a suggerire la migliore iconografia religiosa e la sua immagine scolpita nei giornali e nelle televisioni nell’atto, dinamico e atletico degno di un Discobolo 2.0, di voler spegnere l’incendio con un estintore brandito con fierezza d’armi d’un cavaliere d’altri tempi.
Erano poche centinaia insieme a lui e riuscirono nell’incredibile impresa e nel loro intento di catturare l’occhio e l’arte di giornali e televisioni, proseliti e plastici di fantapolitica e pubblica opinione. Riuscirono nell’incredibile impresa e nel loro intento di oscurare addirittura rivendicazioni, slogan, progetti e sogni di un manipolo di persone, ben più numeroso e colorato, scesi in piazza indignati lo stesso giorno, nella stessa e in tante altre città del mondo. Ci riuscirono, in quell’impresa e in quell’intento, con la violenza eroica che non è rabbia o protesta ma un qualcosa mosso dal più alto valore dell’egoismo e dell’incapacità di saper pensare e vedere oltre un metro da se stessi, oltre una vetrina, una macchina, un cassonetto, oltre a dove arriva un sampietrino.
Da allora quella città, caput mundi, non fu più la stessa, e nei giorni a seguire fino ad oggi altri manipoli di giovani si riunirono per cause e validi motivi d’indignazione nel comune sentire del volere, sopra ogni cosa, alzare la propria voce. Una settimana dopo quel 15 ottobre un nuovo manipolo di ragazzi e ragazze accerchiarono un edificio costruito per accogliere coinquilini da ogni parte d’Italia pronti a sfidare il destino. In quella casa che le cronache d’oggi consegnano agli avi sotto il nome di “Grande Fratello” i giovani furono disposti a tramutarsi in topi da laboratorio per la preziosa causa comune di un mondo migliore sotto l’occhio delle telecamere. Il loro sacrificio al dio in hd, e quello dei tanti ragazzi che fuori dalla porta rossa li accompagnavano in lacrime e giubilo e urla e abbracci al sol minimo collegamento, salvò la nazione dai problemi economici. Riuscirono nell’incredibile impresa e nel loro intento di catturare l’occhio e l’arte di giornali e televisioni, proseliti e autorevoli opinioni accompagnate ora da una rosa, ora da un ventaglio e ora da un ciondolo. Ma il più grande sacrificio doveva ancora compiersi nella Roma millenaria. Avvenne due settimane dopo quel 15 ottobre. Un manipolo di persone, giovani e meno giovani, di fronte al dio denaro, in fila dalla notte per vedere l’apparizione celestiale di una multinazionale spalancare le proprie porte ai terrestri. Riuscirono nell’incredibile impresa e nel loro intento di farsi scolpire dai giornali e dalle televisioni trionfanti con la loro manna dal cielo, mentre alzano il televisore nuovo, il telefono e il ferro da stiro di ultima generazione.
E vissero, fino ad oggi, felici e contenti.
Che rammarico non credere più alle favole. Che amarezza non aver sentito tramandate le gesta dei tanti che quel 15 ottobre scesero in piazza indignati ma che, con la sola forza delle idee e della volontà di cambiare, non riuscirono nell’impresa di catturare attenzione di media e pubblica opinione. Eppure erano molti di più dei manipoli raccontati nelle favole. Io, disilluso che vivo nella realtà. Però, queste di favole, non raccontatele ai bambini. Non raccontate le gesta di chi è riuscito nell’incredibile impresa di far diventare buono il lupo cattivo.
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