Da Siena alla Bosnia in bici per un libro. Fabio Masotti racconta "Sarajevo ti entra nel cuore"

il 28/11/2011 - Redazione

Mille chilometri in bicicletta, due settimane di tempo, un milione di emozioni da vivere ed un miliardo di ricordi da portare prima nello zaino lungo il tragitto e poi nella testa per tutta la vita. Ma i numeri, per quanto grandi e descrittivi, non possono esprimere o raccontare l’essenza e la purezza delle sensazioni che si vivono in un viaggio, quello di Fabio Masotti insieme all’amico Loriano, vissuto in punta di pedali da Siena al cuore della Bosnia-Erzegovina. Un viaggio, ben diverso dal semplice spostamento, che i due hanno fatto in bicicletta nell’estate del 2010 e che Fabio Masotti ha “tradotto” in un libro, “Sarajevo ti entra nel cuore” (Ediciclo Editore). A pochi giorni dalla presentazione dello stesso libro (venerdì 2 dicembre, ore 17.30 – Siena, Palazzo Patrizi) l’autore ci racconta, tra memorie, aneddoti, momenti di vita vissuta nel profondo della sua essenza, il viaggio che nel suo andar lento è prima di tutto partenza, percorso, lunga durata, fatica, sorprese ad ogni incrocio, pause, cambi di rotta, sbagli di direzione, retromarce e ripartenze. Tutto quello che, nella metafora poi della vita, ti fa rendere conto che è più importante il moto della meta, l’andare piuttosto che arrivare, il durante più che alla fine.

“Scrivevo in viaggio e prendevo nota delle cose più significative giorno per giorno – racconta Fabio Masotti - perché questo viaggio ha avuto come obiettivo, ancor prima della partenza, quello di incontrare la gente. In bicicletta è molto facile perché quando entri in un villaggio o in un piccolo paese desti molta curiosità. Eravamo in due, stranieri che arrivavano in luoghi spesso lontani da qualsiasi tipo di turismo, la gente ci avvicinava per cominciare a parlare ed abbiamo trovato molta disponibilità. Taccuino e penna alla mano prendevo nota per poi arrivare a sera e riorganizzare i pensieri. All’inizio pensavamo di scrivere qualcosa per gli amici, poi sono tornato a Siena, mi sono chiuso in casa per una settimana e ho rielaborato questi appunti di viaggio. Ecco come è nato il mio libro. Si tratta di una serie di annotazioni che ripercorrono il viaggio attraverso eventi particolari e che raccontano le mie giornate, una cena inusuale, l’incontro con una persona, la visita a Sarajevo che è il cuore del viaggio, le macerie della guerra perché a distanza di 15 anni dalla sua fine questa terra offre la memoria drammatica dell’odio e del conflitto”.

Perché proprio la Bosnia-Erzegovina?
“Ho avuto la fortuna di conoscere un personaggio straordinario di nome Alexander Langer, eurodeputato negli anni novanta durante al guerra in Bosnia che teneva i contatti tra Europa e città bosniache in guerra come Sarajevo, Tusla, Srebrenica. Mi invitò caldamente ad andare in quei luoghi perché, mi diceva, più gente vedono e meno si sentono isolati. Io non andai perché c’era la guerra, non sono un uomo straordinario come era lui, sono un uomo ordinario, però l’idea di quel viaggio mi è rimasta nel cuore. Dopo il dramma del massacro di Srebrenica, aveva speso una vita per la riconciliazione e il dramma di questa città martire, 15 mila persone uccise, Alexander Langer si suicidò e terminò i suoi giorni in questa terra in modo così drammatico. Il legame antico con Langer, questa memoria della guerra, la voglia di capire il conflitto più che sui libri e nei filmati, tentare di ripercorrere alcuni luoghi simbolo della guerra, Sarajevo e l’assedio durato quattro estati, Mostar, al città divisa in due dal ponte minato e distrutto, Tusla, la città martire. Tutto questo mi ha spinto al viaggio.

E perché allora proprio in bicicletta?
“La bici è un mezzo che favorisce tanto chi vuole entrare nella storia dei paesi, perché si passa lentamente per le strade secondarie, attraverso i paesi, nelle piccole città. Il territorio si consuma piano e questo ti dà la possibilità di vedere, conoscere, toccare con mano. Era l’estate del 2010, abbiamo viaggiato per due settimane io e il mio amico Loriano Mugnaini, con cui ho fatto tanti viaggi. Un vero e proprio compagno di avventure. Siamo partiti da Spalato e siamo tornati lì, per un giro di mille chilometri”.

Che percezione hai avuto di quelle terre reduci dalla guerra?
“L’idea che mi sono fatto è che la Bosnia sia un Paese che esiste sui libri di storia ma non è una nazione reale, le ferite della guerra sono ancora aperte. E’ una federazione di tre stati, la Bosnia-Erzegovina, la Repubblica di Srpska abitata dai Serbi, e il Distretto di Brčko. Le bandiere della Bosnia si trovano solo a Sarajevo perché solo l’etnia musulmana si riconosce nella Bosnia. I croati e i serbi si riconoscono gli uni nella Crozia e gli altri nella Serbia. Ci sono tre bandiere che si alternano tra di loro a distanza di 10 chilometri l’una dall’altra tanto che spesso ci siamo chiesti “Ma dove siamo? Ci siamo persi?”. L’identità e il senso di appartenenza ad un popolo o un’etnia sono fortissimi e fin troppo marcati. Al punto che la bandiera è usata per marcare il territorio, anche nei pressi dei cimiteri o dei luoghi di culto. Questo mi ha sconvolto. L’alfabeto nella Repubblica serba è solo cirillico quindi o conosci la lingua o non leggi, volutamente non c’è più l’alfabeto latino. A Sarajevo c’è solo il latino e non il cirillico. C’è ormai una distinzione netta, la nazione esiste sulla carta ma continua a non esistere nella realtà”.

A che punto è il progetto di convivenza tra i popoli?
“Per la mia esperienza in Erzegovina i croati sono fortemente nazionalisti e non vogliono intrusione, considerano gli altri semplicemente “altri”, i serbi nemici assoluti e i musulmani figure da cui tenersi alla larga. Nella Repubblica serba succede la stessa cosa. I musulmani che ci vivevano sono stati uccisi o costretti alla fuga con le pulizie etniche. La zona musulmana è quella in cui ho notato che, anche se la guerra ha lasciato traccia, c’è il tentativo di tollerare anche serbi e croati che vi abitano. Sarajevo, è una città straordinaria, di una bellezza che si legge nell’architettura austroungarica, balcanica, coacervo di stili e si percepisce un tentativo e una volontà di guardare avanti. I giovani hanno voluto cancellare il passato non per dimenticarlo ma per guardare al futuro. E’ una città molto giovane, piena di vita, molto allegra e un centro storico estremamente vissuto. Credo però che le difficoltà siano ancora enormi, le ferite ci sono ancora, alcune città sono ancora semidistrutte, le tracce della guerra sono visibili in ogni luogo e anche a Sarajevo, seppur ricostruita per il 90 per cento dopo essere stata rasa al suolo come Berlino nel 1945. Mostar è una città di una bellezza che ti strappa il cuore ma è stata tutta completamente ricostruita. Di autentico non c’è più nulla. E’ stata ricostruita dal ponte, divenuto il simbolo della città, ricostruito così come era stato realizzato nel Cinquecento. La gente ti ferma, appena capisce che sei italiano. Attorno a noi c’era la curiosità di capire perché due “disperati” percorrevano in bici queste zone”.

Cosa significa oggi attraversare a passo lento quelle zone che, solo qualche anno fa, le persone attraversavano di corsa per scappare ai cecchini?
“Io ho percorso tutto il viale dei cecchini a Sarajevo, oltre 2 km, a piedi e non in bicicletta. E’ stato da brividi pensare che dalle colline intorno i cecchini sparassero e in ogni metro percorso quel giorno si fosse consumato pochi anni prima un dramma, una vita spezzata”.

Quale ricordo conserverai su tutti gli altri?
“A Iablanizza, una festa a cui ho partecipato. Non si sapeva cosa fosse, era la festa dei cantanti della zona che si esibivano e poi c’era una premiazione. Ad un certo punto le donne scesero dalle gradinate e cominciarono a ballare una danza del luogo, frenetica, coinvolgente che ad un certo punto coinvolse tantissime donne. Fra tutte, vestite all’occidentale con jeans, gonne, truccate, ce n’era una, elegantissima, tutta vestita di celeste e portava un velo, simbolo della sua appartenenza alla religione musulmana. Indossava pantaloni, maglia e foulard e si mise a ballare come tutte le altre. Una chiazza celeste in mezzo agli altri, una ragazza musulmana con il simbolo della sua appartenenza ma capace di essere e sentirsi come tutte le altre. Nella sua bellezza e purezza era il simbolo dell’integrazione”.

L’insegnamento che hai recepito da questo viaggio?
“Ho capito che quando una guerra si tinge anche di motivazioni etnico religiose, di differenze, le ferite sono maggiori ed è difficile rimarginarle ancora oggi perché in Bosnia sono successi fatti inimmaginabili. All’interno di una stessa famiglia la gente si scannava per motivi di appartenenza etnico-religiosi. La religione è stata usata per marcare le differenze che vengono da lontano e odiare gli altri e in questi casi l’uomo mostra il peggio di sé. Noi umani diventiamo belve e, solo in quel caso, riusciamo a capire come si possa entrare in un villaggio, separare uomini da donne e bambini, come facevano i tedeschi per prelevare gli ebrei. Questo è un insegnamento che oggi mi fa riflettere quando in Italia sento parlare di differenze che vengono marcate all’interno di uno stesso popolo, come quelli che dicono di essere padani. Io credo che questo sia rischioso. La diversità è bella ma o si accetta o diventa una fonte di pericolo spaventoso e la storia ce lo insegna. Questa cultura mi fa paura perché ho toccato con mano il rischio di quando le diversità sono così marcate e si vogliono accentuare. Un aneddoto che spiega le differenze è legato al mio amore per la birra, mi piace culturalmente berla. In Erzegovina mi portavano sempre un tipo di birra, a Sarajevo me ne portavano un altro, a Visegrad me ne portavano un terzo tipo. In Erzegovina mi portavano la birra prodotta in Croazia. A Sarajevo solo quella prodotta lì, bosniaca; a Visegrad solo la birra prodotta a Belgrado. Non è pensabile bere in una di queste città birre prodotte in altre zone. Anche le birre sono etniche e questo l’ho capito solo alla fine quando casualmente a Visegrad chiesi una birra di Sarajevo che avevo assaggiato e mi era piaciuta. Mi ricordo il proprietario del locale fino ad allora gentile, diventò duro con sguardo truce mi rispose in inglese “Qui non si serve birra di Sarajevo”. Mi portò, senza nemmeno che l’avessi chiesto, una birra altrettanto buona prodotta in Serbia”.

Cristian Lamorte

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