L’estetica è un qualcosa che muta nel tempo: ciò che è bello per noi non lo era affatto per gli uomini del Medioevo e viceversa. Ogni epoca ha i propri canoni di riferimento, ogni cultura i propri gusti.
Anche l’idea della donna dunque, simbolo di bellezza per eccellenza, ha visto e vede ancora oggi continue variazioni sul piano estetico. Basti pensare alle dive di Hollywood degli anni ‘60: oggi una fisicità come quella di Anita Ekberg in “La dolce vita” stenterebbe a trovare successo, poiché troppo robusta e formosa rispetto ai canoni attuali.
E più ci si allontana nel tempo e più i canoni estetici femminili risultano diversi dai nostri. Risalendo all’epoca primitiva troviamo le statuette delle Veneri preistoriche, dove la donna era rappresentata come ideale di fertilità: la bellezza trovava quindi epicentro nella funzione riproduttiva che caratterizza il genere femminile. Veneri con pancia enorme e seno calante che ai nostri occhi appaiono ridicole e decisamente caricaturali.
Bellezza ed abbondanza sembra essere proprio un binomio costante nell’universo femminile antico. Infatti, sia nel Palazzo di Cnosso a Creta che nella Villa dei Misteri a Pompei, le figure femminili appaiono in carne, dai fianchi larghi e dai volti rotondeggianti. Tutti aspetti che la nostra società non annovererebbe affatto tra le virtù del gentil sesso.
Anche la statuaria greco romana sembra affermare il “formoso ma bello”. La Venere di Milo è una donna dal fisico così detto “giunonico”, proprio in rifermento all’ideale estetico dell’Olimpo romano.
Passando al Medioevo invece perdiamo decisamente la rappresentazione della nudità femminile, presente soltanto in alcuni cicli pittorici: l’abbandono del Paganesimo non permette più di dipingere divinità svestite e la donna negli affreschi è una “gentil creatura” agghindata di tutto punto, le cui armi di seduzione sembrano essere l’acconciatura e il bianco collo. Il nudo ritorna però col Rinascimento, con la riscoperta dell’ideale classico: la Nascita di Venere del Botticelli richiama il canone antico; un senso di pudore è però percepibile nella divinità che nasce dal mare, la quale si copre il seno con la mano e il basso ventre con un ciuffo di capelli.
Ed ancora Tiziano, con la sua Venere di Urbino che, sdraiata e nuda, sembra affidare la propria sensualità più alla posa morbida assunta sul triclinio che al proprio fisico. La ritrattistica settecentesca sembra invece affidare la femminilità al pallore del volto e al rosso delle guance: le donne di Rosalba Carriera sono di un incarnato pallido che nel XVIII secolo doveva essere decisamente attraente. Per arrivare poi alla femminilità esotica delle isolane di Gauguin, fatta di fiori in testa e pelle ambrata, e alle donne di Renoir, ben vestite e in ozio, con tanto di ombrellino nei giardini ottocenteschi.
“De gustibus non disputandum est” dicevano i Romani. Ed infatti mai questo detto sembra essere più veritiero ed azzeccato come in relazione ai gusti sulle donne.
Duccio Rossi
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