Forma e sostanza, parole e stile. Il difficile rapporto tra linguaggio e letteratura

il 21/06/2011 - Redazione

“Che fine ha fatto la letteratura?” scrive Vincenzo Cerami in un articolo pubblicato nell’inserto “Domenica” de “Il Sole 24 ore” del 19 giugno. “C’erano tempi in cui gli scrittori dovevano fare i conti con la parola e con lo stile molto più che con la tenuta dell’intreccio. Li abbiamo abbandonati per sempre?” continua Cerami. Una riflessione su come si è soliti fare letteratura oggi, quando le parole sembrano essere ridotte a puri “strumenti tecnici” per comunicare, non più considerate elementi costitutivi della letteratura stessa. Così facendo lo stile scompare, si appiattisce. Tutti i libri si assomigliano secondo Cerami e i romanzi si leggono velocemente, senza che il lettore si debba sforzare più di tanto. Quello che dobbiamo chiederci però è se il problema della “semplificazione formale” investa soltanto la sfera della letteratura oppure sia un fenomeno ben più ampio. La letteratura è uno dei tanti specchi della società e la società di oggi vive un processo di semplificazione e banalizzazione – se così si può dire – generalizzato, dettato spesso anche dalle nostre esigenze quotidiane, dai nostri ritmi di vita, dalle nostre frenetiche corse giornaliere dall’ufficio alla casa, al parcheggio nel quale abbiamo lasciato l’automobile. Oggi ci siamo abituati ad usare le e-mail, dove spesso non si bada alla forma poiché è sufficiente il contenuto, il messaggio finale. Ancor peggio per quanto riguarda gli sms telefonici, dove arriviamo addirittura ad usare il fonema “k” al posto del gruppo “ch” e il segno aritmetico “x” al posto della preposizione “per”. In tv poi si usa sempre di meno il congiuntivo, per non parlare della corretta “consecutio temporum”, ovvero quel sistema logico-sintattico che regola il rapporto tra i tempi verbali.Anche il mondo del giornalismo è in parte responsabile di questa degenerazione espressiva: l’importante è la notizia, non tanto la forma.

L'uso delle parole - È tutto un mondo intero dunque che subisce un processo di banalizzazione, e quindi non c’è da meravigliarsi che anche gli scrittori, che dovrebbero usare le parole come un artigiano usa le sfoglie di madreperla, arrivino ad utilizzarle come meri strumenti, come un mezzo e non come un fine. È anche giusto chiedersi però se noi lettori saremmo in grado di confrontarci piacevolmente con letture dotte e dal linguaggio forbito. Forse ci sentiremmo a disagio di fronte ad aggettivi come “protervo” e “apotropaico”. Il fatto è che la forma è spesso anche sostanza, specialmente quando si parla della lingua italiana. Avere una discreta proprietà di linguaggio ci permette di formulare un maggior numero di idee e stimolare così il nostro pensiero e le nostre riflessioni. Un vocabolario limitato invece porta ad una capacità di pensiero limitata, ad una limitata capacità espressiva e questo può determinare conseguenze ben più gravi che avere una letteratura piatta e banale. Lo studio della filosofia però potrebbe aiutarci in questo, poiché essa è fatta di idee e parole, di idee complesse che per essere espresse necessitano di nuove parole, di categorie di pensiero che stimolano altre categorie di pensiero e che ci obbligano ad ampliare notevolmente il nostro vocabolario. Forse è proprio questo uno dei tanti motivi per cui continuare a studiare la filosofia: non soltanto per conoscere le idee di questo o quel filosofo sul senso della vita e della morte, ma per allenare il nostro cervello a sviluppare ragionamenti e pensieri sempre nuovi da esternare ed esprimere con parole appropriate e termini adeguati.

Duccio Rossi

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