“I classici greci e latini sono un’enciclopedia culturale comune”. Parla il filologo Maurizio Bettini

il 21/06/2011 - Redazione

Laureatosi in Lettere Classiche all’Università di Pisa nel 1970, con una tesi dal titolo “Grecismo e
neoformazione come aspetti della creatività di Plauto”, Maurizio Bettini è oggi professore ordinario di Filologia classica presso l’Università degli Studi di Siena, scrittore e saggista di successo. Bettini ha tra l’altro fondato, assieme ad altri studiosi, il Centro "Antropologia del mondo antico" di Siena. Tiene seminari presso il "Department of Classics" della University of California at Berkeley, e come "Directeur d'études invité" ha tenuto numerosi seminari presso la École de Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Collabora costantemente con la pagina culturale de “La Repubblica” e presso l'editore Einaudi cura la serie "Mythologica". Con lui abbiamo parlato dell’utilità dei classici greci e latini oggi.

Perché leggere i classici oggi? Per un motivo apparentemente banale: perché si sono sempre letti. E questa non è semplicemente una tautologia. Il fatto che siano stati sempre letti ininterrottamente vuol dire che questi libri fanno profondamente parte della nostra cultura. Se oggi leggiamo l’Eneide di Virgilio abbiamo in comune un libro importante con Alessandro Manzoni, ma anche con Ludovico Ariosto e Torquato Tasso, Dante Alighieri e Sant’Agostino e persino con l’imperatore Augusto. Il che vuol dire che l’aver letto gli stessi libri ininterrottamente nei secoli crea una continuità culturale, una enciclopedia culturale comune. Nel particolare, per quello che riguarda il latino, la conoscenza di questa lingua continua un processo che è iniziato alcuni secoli prima di Cristo e che non si è mai interrotto. Infatti in molti paesi europei ci sono stati periodi in cui il latino è stato studiato maggiormente delle lingue nazionali. Il che spiega il perché le lingue europee sono così simili tra loro. Non è soltanto perché alcune di esse derivano dallo stesso ceppo linguistico, cioè il latino, ma anche perché lo studio del latino nei secoli ha “rilatinizzato” nel tempo le lingue europee stesse. Ecco perché ci capiamo così facilmente tra europei: perché abbiamo in comune questa sorta di “serbatoio linguistico e culturale”.
Secondo Lei la tragedia greca ed il mito hanno ancora messaggi da comunicare nel ventunesimo secolo? Mi viene in mente la storia di Alcesti ed il complesso tema etico del rapporto “vita-morte”. Cosa ne pensa?
Il caso dell’Alcesti richiama proprio un tema da me trattato qualche anno fa in un libro dal titolo “C’era una volta il mito”, dove appunto sostengo come esista tutta una serie di miti classici che ricopre questo spazio della cultura: cioè l’idea che la vita si possa ridistribuire, che essa non sia data ad una sola persona una volta soltanto, ma che quella vita che una persona non ha utilizzato possa essere ridistribuita tra altri individui i quali, in tal modo, allungheranno la propria esistenza. E’ un tema molto appassionante al quale è connessa anche una parola, una nozione culturale dei greci: quella di “moira”. La moira è propriamente il destino; etimologicamente è però la parte, il pezzo. Il pezzo di vita, appunto, che ci viene assegnato. In una cultura come quella classica dunque nasce l’idea che, se la vita assegnata è una parte, simile alla porzione di un animale che viene distribuita ad un banchetto, la parte che ciascuno di noi non ha consumato può essere passata ad altri. Proprio su questo tema feci un dibattito con un amico neurologo, Noè Battistini, durante il quale dicemmo che questo tema altro non è che il mito della donazione degli organi e che la moira dei greci oggi potrebbe essere il genoma, dove sta scritta in effetti una buona parte della vita di un uomo. E Battistini concluse scherzosamente “ecco, noi scienziati abbiamo trovato il fato”.
Oggi si parla molto dell’altro, del diverso, del culturalmente distante e non sempre se ne parla positivamente. I classici ci possono insegnare ad accettare, o meglio, a comprendere chi è diverso da noi?
La domanda è complicata perché in realtà se c’è una cultura che è abbastanza ostile all’alterità ed esplicita nel disprezzare l’altro, questa è proprio la cultura antica. Non a caso i greci elaborano la nozione di “barbaros”, nella quale rientrano tutti coloro che non sono greci. Idem per i Romani, che rapidamente ereditano il termine “barbarus”. Questo è un atteggiamento molto diffuso nelle culture antiche e in molte culture contemporanee non occidentali, dove è ancora fortissima l’identificazione tra umanità e “noi stessi”. Un ragionamento secondo il quale noi siamo uomini, mentre gli altri non lo sono. All’interno della cultura classica ci sono però, oltre a questi atteggiamenti di chiusura verso gli altri, anche degli atteggiamenti contraddittori. Uno interessante per esempio, che gli antropologi definiscono “l’etnocentrismo inverso”, è quell’atteggiamento secondo il quale tutte le virtù vengono attribuite agli altri al fine di poter condannare noi stessi. Infatti si diceva: “Ah sì che presso i Germani vige ancora l’onore, la purezza, l’onesta, il coraggio, mentre qui da noi a Roma c’è solo corruzione”. Un meccanismo fra l’altro ancora molto in voga: attribuire agli altri tutti i meriti e a noi stessi tutti i demeriti. Anche oggi diciamo spesso che dovremmo fare come si fa in America: poi si va in America e si vede che anche là, come in tutti i luoghi, c’è la corruzione e l’ingiustizia. Un altro aspetto che possiamo toccare è quello delle ambivalenze dell’atteggiamento verso l’altro che si scoprono in singoli testi. Per fare un esempio possiamo ricordare il caso dei Cartaginesi. Se c’è un popolo che è stato disprezzato fortemente dai Romani è proprio quello Cartaginese, considerato traditore ed infame. Però, curiosamente, se andiamo a leggere la commedia di Plauto intitolata “Poenulus”, cioè “Il cartaginese”, troviamo una figura di un vecchio cartaginese che è assolutamente nobile, una persona onesta, generosa e leale. Il personaggio dello schiavo ci prova a farlo passare per un furbastro ingannatore ma viene smentito dai fatti. Una situazione che richiama decisamente le molte contraddizioni presenti in qualunque condominio della periferia italiana, dove tutti credono che gli stranieri siano dei disgraziati. Se poi invece abbiamo modo di parlare con loro, capiamo che essi sono esattamente come noi.
Legalità ed etica in Aristotele non sembrano affatto essere sinonimi: “bisogna guardare il motivo per il quale una persona agisce, non basta guardare ciò che essa compie” possiamo dire parafrasando un passo dell’Etica Nicomachea. Crede che questa affermazione aristotelica possa essere molto attuale, visto l’uso strumentale che spesso viene fatto della legge ai nostri giorni?
Direi che è una frase assolutamente attuale. Il formalismo giuridico è spesso, a mio giudizio, una grande forma di ipocrisia. A cominciare dal principio dell’uguaglianza del cittadino di fronte alla legge, sempre enunciato ma spesso non praticato. E non soltanto perché il nostro paese è un faro, un lume nel violarlo in continuazione, ma in generale perché se ti trovi a giudizio con una grande company che può disporre di settanta avvocati bravissimi e tu non te ne puoi permettere neppure mezzo bravo, è ovvio che questa uguaglianza non ci possa essere. Quindi credo che sia molto comprensibile il risentimento che c’è in tutto il mondo verso la figura del legale, il quale spesso è un personaggio purtroppo al servizio dell’ingiustizia e non della giustizia. Quindi, a mio avviso, il pensiero di Aristotele sopra citato andrebbe fatto studiare nelle scuole.
Per Seneca ogni istante della nostra esistenza dovrebbe essere vissuto come fosse una vita intera. Anche per Morelli – psicoterapeuta dei nostri giorni – il segreto della felicità risiederebbe in ogni nostra piccola azione quotidiana. Le chiedo: le riflessioni dei pensatori antichi, soprattutto dei filosofi, quanto ci possono aiutare a migliorare la qualità della nostra vita?
Ritengo che questo sia uno degli aspetti più attuali del pensiero antico. Infatti nel mondo classico spesso la filosofia occupava quello spazio che noi oggi dedichiamo alla politica. Le discussioni che facciamo oggi sulla gestione della politica trovano il loro equivalente antico nelle riflessioni filosofiche sul senso della vita. Credo che questa sia una grande differenza tra il mondo antico e il nostro mondo. Noi abbiamo smesso di riflettere sul senso dell’esistenza, delegando queste riflessioni ai sacerdoti, al clero, agli psicanalisti e agli psicologi. Abbiamo tutta una serie di professioni, proprio come quella dello psicologo, che nel mondo antico sarebbe stata impensabile. Lo psicologo in realtà altro non è che un filosofo: una persona che riflette sulla vita. Quindi ritengo che pensatori come Seneca, Epitteto, Marco Aurelio, che hanno fatto una professione del riflettere su loro stessi, siano ancora straordinariamente attuali. Credo che l’ultimo di questi filosofi sia stato Michel de Montaigne: è lui l’ultimo degli antichi da questo punto di vista. Un uomo che ha passato la vita riflettendo su se stesso. Riflettere su noi stessi e sul senso della vita è una cosa che noi moderni non facciamo più, ma che invece faremmo bene a riscoprire.

Duccio Rossi


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