Dai suoi racconti letti in un libro, dai suoi monologhi a teatro o dal suo semplice raccontare emerge su tutte una cosa: la capacità di osservare, magari in maniera diversa, contrapposta al solo vedere la realtà. Perché osservare fa riflettere più persone e vedere, anche se più comodo, è circoscritto a quell’individualismo nella peggiore accezione del termine. Ascanio Celestini, scrittore, regista, attore, artista a tutto tondo insomma, ospite nei giorni scorsi del festival “Le parole, i giorni” a Poggibonsi, è capace di toccare in maniera originale ma attenta temi delicati, amari con i quali facciamo i conti o che schiviamo tutti i giorni. Temi come l’individualismo, la globalizzazione, la precarietà o il razzismo che ritornano nel suo ultimo libro “Io cammino in fila indiana” (Einaudi) ma che, sempre più, sono di stretta attualità nell’Italia di oggi.
E allora quale è lo stato di salute del Paese in cui viviamo? - “Il Paese è un termine troppo complesso e anche piuttosto vago. Io, invece, penso a come individualmente ci poniamo nei confronti di noi stessi e degli altri. Non credo che ci sia qualcuno che è razzista e qualcuno che non lo è. Credo che il razzismo sia una condizione con cui ci dobbiamo confrontare. Pensare che lui sia razzista e non ci sia del razzismo in me è il primo passo verso un razzismo radicale. Devo capire cosa non funziona nel mio rapporto con le persone che mi stanno attorno. Il razzismo nasce dalla paura e la paura è un fatto assolutamente naturale con cui dobbiamo fare i conti”.
Quanto al tema della precarietà cosa ne pensi? - “Il fatto è che non credo che esista il lavoro precario ma una condizione di precarietà più ampia alla quale contribuisce la condizione del lavoro, in questo Paese e non solo qui. Mi riferisco ad esempio al problema della casa. Se devo pagare 600 euro per un monolocale seminterrato di 35 mq alla periferia di Roma, il problema non è se ho un contratto a termine o un lavoro interinale, il problema è che l’affitto è molto alto e diventa impossibile trovare una casa. Il problema è nel cibo che mangiamo, nell’aria che respiriamo, nell’acqua,. Si affronta questa situazione di precarietà in maniera ideologica. Uso proprio questo termine senza pensare al marxismo, all’ex Unione sovietica o alla Germania di Hitler, penso che abbiamo bisogno di una visione ideologica perché abbiamo bisogno di una prospettiva più ampia e di una visione allargata del mondo. Non si può lottare per essere assunto a tempo indeterminato e poi andare a fare la spesa al supermercato. Perché non serve. Bisogna smettere di andare al supermercato, smettere di comprare al proprio figlio una palla cucita da un bambino che ha la sua stessa età nell’altra parte del mondo. Mi devo opporre ad un sistema altrimenti lotto solo per interessi individuali tipo per avere un posto a tempo indeterminato e per questo basta allora chiedere una raccomandazione”.
Tra i settori maggiormente in crisi in Italia sembra esserci quello culturale, è vero? - “Non è il settore della produzione culturale che è in crisi ma la politica che se ne frega, che è un’altra cosa. In Italia c’è una produzione culturale ininterrotta da duemila anni, è l’unico settore in cui si può investire seriamente. La Fiat chiude? C’è tanta gente che perde il posto di lavoro? La faremo lavorare nella produzione culturale, nel turismo, nella tutela dell’ambiente. Abbiamo solo questo in Italia, non abbiamo miniere d’oro, carbone o petrolio. Abbiamo soprattutto questo e più di ogni altro Paese al mondo. Non investire in cultura è un crimine. Ci sono tanti piccoli centri, dove ci sono tanti teatri importanti e compagnie teatrali. E’ una realtà soprattutto in tanti piccoli comuni del centro nord, perché al sud si fa molta più fatica e il disastro è arrivato molto tempo prima. Oggi c’è gente che fa battaglie importanti. Penso alla città di Bari e non mi riferisco alla riapertura del Teatro Petruzzelli quanto a teatri come il Kismet che fa attività in una zona industriale, a Lecce i Cantieri Coreia, a Castrovillari c’è un festival importante da più di dieci anni organizzato dal gruppo Scena Verticale . Però il fatto che molte compagnie italiane e molti attori vadano a lavorare all’estero vuol dire che in Italia una produzione culturale c’è, c’è ancora, c’è un teatro importante, riconosciuto a livello europeo solo che ci sono politici criminali che non investono in un settore che dovrebbe essere l’unico nel quale investire realmente”.
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