"Il successo? Basta avere pazienza. A Sellerio proposi un romanzo nel 1987 e lo pubblicarono nel 2006". Parla Francesco Recami

il 02/11/2011 - Redazione

Spesso si dice che se il successo arriva tardi è meglio perché non ci si ubriaca e si gestisce meglio la sarabanda di novità che investono la propria vita. Potrebbe essere il caso del toscano Francesco Recami che da sconosciuto nel mondo dell’editoria ha fatto un bel cambiamento, e tutto grazie ad una telefonata giunta dalla redazione dell’editore Sellerio qualche anno fa. E proprio da qui inizia l’intervista di Toscanalibri con lo scrittore fiorentino.

Dai libri per ragazzi al “salto” con Sellerio: nel 2006 “L’errore di Platini” , a seguire “Il correttore di bozze” (2007) e “Il superstizioso” (2008). Possiamo parlare di carriera fulminante?
“Beh, la storia è interessante e niente affatto fulminea. Nel 1987 proposi un romanzo alla casa editrice Sellerio. Mi dissero che ci dovevano pensare. Nel 2005 mi telefonano e mi chiedono se lo voglio sempre pubblicare. Quindi basta avere pazienza. Il libro è uscito nel 2006 col titolo L’errore di Platini”.
Nei suoi romanzi vi sono ritratti di italiani del nostro tempo: è narrativa o sociologia?
“Narrativa sì, sociologia no, ci mancherebbe altro. La sociologia è una scienza, e quindi procede secondo il metodo scientifico, osservazione, ipotesi, verifica sperimentale, conferma, deduzioni... La narrativa al massimo produce induzioni: basta citare un caso, una storia, affinché questo assuma il titolo di esempio e venga generalizzato. Ma questo io non lo faccio: mi sforzo di non dare giudizi e di non arrivare a generalizzazioni. Dalle storie narrate ognuno ne trae quel che vuole. Mi sforzo di non essere uno scrittore con il ditino alzato”.
Lei è nato a Firenze, in qualche modo la sua città ha influenzato lo stile e la scelta dei temi da trattare?
“Direi che qui ho affinato le armi tipiche dei fiorentini: la polemica, l’ironia che arriva fino al sarcasmo, lo scetticismo, l’avversione per il provincialismo e la retorica, un certo senso dell’umorismo. Altre caratteristiche spero di non averle assunte, come per esempio la presunzione, la innata tendenza a mungere i turisti oltre ogni realistica previsione, quella ad essere indifferenti al concetto di bene pubblico ed invece molto interessati a quello di bene privato. Comunque sono sempre ottimi spunti per raccontare situazioni”.
Con “La casa di ringhiera” si è spostato da Firenze dove era ambientata la storia di “Prenditi cura di me” a Milano, ci racconta la fonte di questa ispirazione?
“L’ho ambientato a Milano perché lì ci sono le case di ringhiera, una sorta di quinta teatrale, in realtà potrebbe ambientarsi ovunque, non era il mio scopo ricreare un’atmosfera tipicamente milanese. Lo lascio fare ai milanesi, io non mi azzarderei mai. Il mio interesse è guardare cosa avviene dentro le mura degli appartamenti, e che da fuori magari non si vede”.
Il protagonista è Amedeo Consonni, tappezziere in pensione attorno a cui si muove una varia umanità. C’è pure un delitto da risolvere: insomma, si tratta di un giallo all’italiana, una commedia degli equivoci? “Scherzando si potrebbe dire un giallo degli equivoci e una commedia all’italiana. Ma non sono tanto bravo a fare classificazioni, soprattutto su me stesso. Per me ha rappresentato una svolta perché per la prima volta mi sono venuti fuori un paio di personaggi non del tutto negativi, fra i quali il tappezziere in pensione, e mi sono molto divertito a scriverlo. Per questo per un po’ vorrei andare avanti su questa strada. Riprenderò la scrittura come sofferenza quando sarà il momento”.
Con “Prenditi cura di me” nel 2010 ha partecipato al premio Strega; è stato finalista al Campiello e nel 2009 con “Il ragazzo che leggeva Maigret” ha vinto il Premio Scrittore Toscano: le piacciono queste competizioni oppure entrare in lista è una necessità per ottenere crediti?
“Mah, i premi vanno presi per quello che sono, alcuni sono importanti, di solito chi li vince ne esalta la serietà, chi li perde li critica amaramente. Comunque trovarcisi dentro è sempre una soddisfazione. Semmai trovo un difetto nel modo in cui vanno avanti molti premi, soprattutto quelli in cui di mezzo c’è un’amministrazione locale, che è quello di seguire troppo il mercato, si premiano sempre libri che hanno già avuto sufficiente riscontro e difficilmente titoli a sorpresa. Perché gli enti organizzatori cercano promozione, i premi si fanno per quello, e quindi si cerca il traino del grosso nome. Posso fare un esempio toscano? Il Premio Fiesole è il più importante per scrittori giovani (giovani si fa per dire, under 40) eppure un anno vince Giordano (che aveva già venduto centinaia di migliaia di copie e vinto lo Strega), oppure Sorrentino o altri già molto famosi. Forse sarebbe meglio premiare giovani meno conosciuti, ai quali un premio fa veramente la differenza, come incitamento e stimolo. Si dirà che la qualità è la qualità, ma una mano va data a chi ne ha bisogno, e poi sulla qualità si può sempre discutere, anzi ci sono persone che stabiliscono un’equazione, più un libro vende e minore è la sua qualità. Non credo sia così, ma nemmeno viceversa”.
Dato che lei è scrittore prolifico, vuol dare un consiglio agli esordienti? C’è ancora spazio per loro, oppure devono rassegnarsi alle pubblicazioni a pagamento delle piccole case editrici?
“A quanto mi risulta questo è uno dei periodi in cui si pubblica di più, in narrativa, e anche autori esordienti, anzi per certi versi c’è la caccia all’esordiente. Il difficile credo che venga dopo, non si può restare esordienti a vita. Per esordiente io intendo uno che esordisce, non che vorrebbe esordire. Forse il problema attuale è che, grazie anche ai blog e ai social network, è preponderante l’impeto a esprimersi su quello a fruire dell’altrui espressione. È chiaro che se sono di più i potenziali scrittori dei lettori la faccenda andrà sempre più complicandosi. Ma chissà, con l’e-book, ogni lettore sarà scrittore, se vuole, il rapporto fra lettori e scrittori diventerà 1:1. Ma per lo scrittore esser letto solo da se stesso può forse risultare un po’ inutile. Vedremo”.

Valerio Cattano

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