L’illusione mineraria dell’isola che non c’è più nel libro “I minatori del Giglio”

il 18/03/2013 - Redazione

È realmente avvincente e provoca intensa emozione la lettura del libro di Ivio LubraniI minatori del Giglio. Storie della miniera e altri ricordi” (coedizione primamedia editore – Betti Editrice), presentato ieri a Grosseto, nella Sala Pegaso del palazzo della Provincia. Si tratta di una testimonianza lucida e appassionata di una vicenda collettiva, accettata con sofferenza ma per molti versi disperata che coinvolse per 25 anni, dal 1938 al 1962, la gente di quest’isola aspra e ritrosa, esclusiva e generosa: una gente perennemente rivolta al mare. E a un tratto coinvolta nella illusione mineraria. Il privilegio di avervi potuto trascorrere tanti giorni per impegni di lavoro, oltre a brevi periodi di riposo, mi ha consentito di percepire il carattere deciso e sensibile degli isolani, temprati dalle necessità di strappare dal mare, dalla poca terra coltivabile e poi dal sottosuolo ferroso, l’essenziale per vivere, e mi ha arricchito di ricordi non solo visivi.

Tragiche vicende di mare e di miniera - E nel libro di Lubrani si ripercorre l’ansia atavica di una comunità fin da epoche non lontane minacciata, massacrata, violentata dalle scorrerie dei pirati saraceni, e la si ritrova nelle pagine intense dedicate a tragiche vicende di mare o di miniera o alle allucinanti incursioni aeree sull’Argentario e sull’isola stessa. Un’ansia inconsapevole che colsi negli occhi delle ragazze gigliesi incontrate al porto in occasione del mio primo approdo invernale (3 giugno 1956) motivato da un accertamento medico-legale. E altri ne sono seguiti, chiamato per accertamenti giudiziari. Dolorosamente appresi sin da allora la incredibile storia della miniera del Campese, ancora attiva nonostante la sua avarizia e la sua devastante nocività (patita per l’esigenza di lavorare, respirando polvere e calore, con i piedi immersi nella melma salsa, alimentata dalle acque marine) e conobbi nei volti scuri dei tanti operai che assistevano al camposanto del porto e nelle spoglie prosciugate del compagno perduto la incredibile e spesso mortale asperità di un lavoro ingrato: la estrazione della pirite, la sua frantumazione e lavorazione prima dei processi chimici per la produzione dell’acido.

Martiri di Maremma - Vi è tutto questo dolore nel libro del Lubrani, che non ha certo bisogno alcuno d’illustrazione: va solo letto e poi inserito nell’autentico stralunato affresco, intriso di rabbia e d’amore, che Luciano Bianciardi e Carlo Cassola dedicarono ai minatori martiri di Maremma. Quali che siano i nostri ideali, va fieramente difesa la memoria di una immensa tragedia: scandita dalle ecatombi del Cornacchino, di Ribolla, del Siele, di Ravi, di Caldana: migliaia di silicotici, centinaia di interventi medico-legali, che mi hanno segnato per sempre. Ma non posso non tornare per un attimo al primo minatore del Giglio che fui chiamato ad esaminare: si chiamava Santi Riello, manovale interno ed armatore nelle gallerie del Campese per una quindicina d’anni. Non è fuori luogo ricordarlo nel presentare un libro che tanti uomini ricorda e onora. Alcuni riposano più in alto, al camposanto del Castello, autentico santuario sul mare. Le lapidi scurite dal tempo riportano cognomi, ricorrenti e spesso inusuali, di uomini e di donne, strappati brutalmente alla vita, e ridestano memorie, leggende, suggestioni che Ivio Lubrani ha ripercorso e illustrato con rispetto, con fedele dedizione alla sua piccola patria. C’è veramente da trarne una lezione civile e morale espressa dai Gigliesi in termini di fermezza, di generosità e di solidarietà.

Mauro Barni

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