Fare memoria di un poeta che non è più tra noi – ma muoiono veramente i poeti? – induce a pensare al tempo storico che egli ha attraversato, ma ancor di più alle stagioni di un’anima che, giusto nella scrittura poetica, ha trovato racconto, distillati pensieri, breviario. Come nel caso di Mario Luzi, che, nell’arco di quasi un secolo, registrò puntualmente questo intimo diario ove stupore, inquietudine, meditazione, pronunciamento, si sono innervati in una tenace, ininterrotta parola tesa a voler dare voce alla “maestà del mondo”. Perché ciò è sempre stato l’intendimento della poesia luziana: rivelare il continuo divenire del mondo nella sua osmosi drammatica e stupefacente di vita e di morte, di luce e di ombre, di creato e di incompiuto.
La scena luziana in cui tutto questo misteriosamente accade, non è, però, paesaggio immaginario. Tali luoghi dell’anima hanno una geografia reale e ben definita. Sono, quasi sempre, Siena e le sue terre, le Crete, Pienza, la vallata dell’Orcia, il monte Amiata. E’ in quelle plaghe che, secondo Luzi, è racchiuso il ‘divenire’ della vita e della morte. Si chiede il Poeta: è terra che richiama gli scomparsi o i venturi? O forse entrambi, perché è terra che assorbe morte, ma per restituirla in vita. Quando egli parla della terra senese la nomina “mia stella”, “mio luogo”, “mia storia”. Ovvero se ne ‘appropria’ per ubicarvi i propri tormenti e le certezze, ma anche per incontrarvi quelli altrui, poiché c’è qualcosa dell’umanità che sotto quella “crosta terrestre” respira e dà respiro ai viventi. Allora, essere dentro quel paesaggio non significa soltanto trovarsi nel tormentoso scorrere del tempo, ma anche compartecipare di una pietas comune, di una memoria ad infinitum che è misura – appunto infinita – del tempo e del dolore. Un paesaggio, quello senese, che – a detta del Poeta – eccita e alimenta la condizione enigmatica dell’uomo, la rappresenta e la asseconda.
Infine, terra del ritorno. Perché terminato l’esilio, “superato lo spaesamento”, laggiù sulla linea dell’orizzonte, dalla sua “lontana altura”, ecco che “mi guarda Siena”. La città che, sospesa fra terra e cielo, appare come una Gerusalemme celeste. E’ lei l’approdo finale, il ricongiungimento. Non a caso nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, l’immaginario viaggio di Simone (alter ego del poeta) da Avignone a Siena, è un ritorno che non risulta essere semplicemente la conclusione di una vita, ma un andarne ‘oltre’, verso una nuova e diversa percezione della realtà che non annulla il ‘prima’, il ‘già accaduto’, ma lo spiega, ne dà un senso. Fin dall’adolescenza, Siena aveva preso il cuore di Mario Luzi, e lungo tutti gli anni della sua vita quel sentimento si alimentò sempre più di stupore, di ri-conoscenza verso la città definita “sostanza rara / in cui splendono insieme / esultazione e pena / e bruciano in purità celeste / sofferenza e grazia / d’una inenarrabile quarantena”. Da qui l’invocazione affinché essa “non si celi, non mi venga meno”. Parole che oggi, nel ricordare il Poeta, acquistano quanto mai il commosso accento di una preghiera: che, auspichiamo, abbia avuto esaudimento.
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