Lo studio della filosofia come palestra per il cervello, la meraviglia del singolo individuo come stimolo per le riflessioni filosofiche e morali, il parallelo tra l’etica antica e l’etica moderna. A domande su argomenti come questi risponde il professor Guido Paduano, docente di Filologia classica all’Università di Pisa. Paduano nasce a Venezia nel 1944 e rappresenta uno dei nomi più autorevoli nell’ambito degli studi classici che il nostro Paese possa vantare. E’ autore di innumerevoli pubblicazioni sul mondo antico greco e romano, sulla tragedia e sulla commedia. Tra le sue molte pubblicazioni ricordiamo: “Il teatro antico. Guida alle opere” (Laterza, 2005); “Edipo. Storia di un mito” (Carocci, 2008); “La nascita dell'eroe. Achille, Odisseo, Enea: le origini della cultura occidentale” (Rizzoli, 2008).
Professor Paduano, perché leggere ancora i classici greci e latini oggi?
“Personalmente rispondo solo per i classici della letteratura, anche se altri classici antichi hanno nel nostro mondo cittadinanza inalienabile: tra quelli a cui meno si pensa ricordo gli Elementi di Euclide, che costituiscono tutt’oggi il fondamento della didattica basilare della geometria. Ma per quanto riguarda la letteratura, credo che la risposta sia perché sono nel complesso uno dei corpora di più alto valore che sia stato prodotto nei diversi periodi della civiltà umana, e quindi capace di assicurare anche ai lettori di oggi un livello più alto di piacere. Quest’ultimo è infatti il fine primario della letteratura, anche se spesso gli si sono aggiunti altri fini, culturali o morali, che sono appunto secondari e non specifici. Da questo punto di vista poche narrazioni sono in grado di produrre una tensione e una immedesimazione pari a quella dei problemi omerici (penso al Don Chisciotte, e a qualche romanzo dell’Ottocento francese e russo), pochissimi poeti lirici hanno raggiunto la concentrazione limpida di Catullo, e nessun altro che Shakespeare ha ricondotto il teatro alle indagini sul dolore umano che i tragici greci hanno raggiunto. Sono testi che toccano nel profondo la resa dei conti sulla condizione umana, pietre di paragone sia della dimensione emotiva che, come giustamente ha visto Aristotele, di quella razionale”.
In principio era la meraviglia a creare lo stimolo per le riflessioni filosofiche dell’uomo occidentale. Lei crede che l’uomo di oggi sia ancora capace di meravigliarsi? E quindi di riflettere?
“In effetti la meraviglia, o come altro si possa chiamare, il contatto con l’imprevedibilità del reale, è il motore creativo principale di tutte le attività umane. Basti pensare come Aristotele nella Poetica si preoccupa di precisare che lo sviluppo degli eventi secondo necessità e verosimiglianza non significa prevedibilità, al contrario lascia aperta la porta, nel pieno cuore del razionalismo greco, al thaumaston, meraviglioso o soprannaturale. In questi termini non è credibile che questa facoltà umana venga meno in nessun periodo storico: bisogna però riconoscere che il nostro le pone ostacoli senza paragone più forti e diffusi di quanti mai ci siano stati nel passato. Il maggiore di questi ostacoli è a parer mio la prevalenza del linguaggio pubblicitario che sotto un’apparenza di creatività stabilisce invece una realtà standardizzata e ripetitiva. E ancora, il peggio non è l’assedio pubblicitario in senso stretto, ma l’estendersi di una dimensione pubblicitaria al di fuori dei suoi limiti istituzionali, in modo che la dinamica della vendita di un prodotto non è più distinguibile dalla promozione di un’idea politica o di un progetto culturale”.
Etica antica ed etica moderna: i classici cosa possono insegnarci ancora da questo punto di vista?
“Su questo sarei più dubbioso: lo svolgimento del pensiero filosofico, a differenza della produzione letteraria, ha il carattere progressivo che ci si aspetta da qualunque scienza; assorbe le esperienze del passato per riformularle all’interno di strutture nuove, tendenzialmente più persuasive. Mi spiego con un esempio: noi possiamo apprezzare i suggerimenti di vita degli epicurei (la filosofia più sottovalutata e calunniata che si sia prodotta nel mondo occidentale), la loro concezione dell’amicizia e dei rapporti interumani: ma quel difetto di socialità che li rendeva invisi alla società romana è un dato di fatto che ha bisogno di essere compensato da Weltanschauungen più comprensive. D’altro conto la rigidezza della virtù stoica non è potuta diventare regola di vita se non mediata dal possibilismo di Seneca che l’ha di fatto snaturata. Tenuto conto che del pensiero etico contemporaneo io so molto poco rimango fedele al punto fermo rappresentato da Kant sulla necessità di considerare l’uomo come fine, che ha assorbito e laicizzato il messaggio vitale del Cristianesimo”.
La filosofia è spesso considerata “una palestra per il cervello”, uno stimolo per i pensieri, un modo per arricchire le nostre capacità linguistiche. I classici, soprattutto le opere filosofiche, ci possono insegnare veramente a ragionare e a esprimere meglio i nostri pensieri?
“Sì, per la semplice ragione che la lettura deve essere vista come una forma interattiva di conoscenza, in cui alcuni significati attendono di essere scoperti dall’impatto con le nuove culture. Si determina così un circolo in cui l’elevata qualità del linguaggio proposto favorisce e determina un analogo sviluppo nella ricezione”.
Nelle sue commedie Aristofane, per mezzo dell’elemento comico senza inibizioni, criticava fortemente le degenerazioni sociali, politiche e morali della sua Atene. Qualcosa di simile alle vignette satiriche sui quotidiani dei nostri giorni. Leggere Aristofane dunque può voler dire leggere un teatro ancora attuale nei messaggi e nelle problematiche affrontate?
“Il parallelo si può fare, anche se occorre tener conto del fatto che la commedia di Aristofane ha una struttura molto più complessa, contiene nella cosiddetta parabasi un messaggio politico serio e nell’azione comica un discorso che ha sempre carattere sistemico. In comune con la situazione politica contemporanea c’è senz’altro la tematica centrale, cioè il rapporto tra interesse privato e bene pubblico”.
Duccio Rossi
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