“Senso di appartenenza non sia sinonimo di chiusura”. Parla la scrittrice Michela Murgia

il 22/10/2012 - Redazione

Appartenenza e confronto con altre identità culturali. Il concetto di Noi che ci riunisce in un gruppo come nei legami, stretti e non, che stringiamo quotidianamente con chi ci circonda. Una sfera che non può essere chiusa a se stessa ma che si apre con peculiarità, differenze, sfaccettature all’universo circostante non per sfuggirne ma bensì per cercare di costruire una coscienza comune e stimoli per un nuovo incontro collettivo. Scardinare le logiche comuni dell’appartenenza e delle sue declinazioni più occlusive e autoreferenziali. È forse questo il messaggio più rilevante che emerge dai testi di Michela Murgia, autrice sarda che sabato alla libreria Il Mondo dei Libri di Poggibonsi ha presentato il suo ultimo libro “L’incontro” (Einaudi), seconda pubblicazione dopo “Accabadora”. Un testo che racconta la storia di un’amicizia tra tre adolescenti che si sconta con le logiche di appartenenza ai rispettivi gruppi della comunità di Cabras, spaccata al suo interno dalla notizia che nel paese arriverà una nuova parrocchia che si aggiungerà alla Chiesa Madre.
“L’identità è fatta di similitudini ma anche di differenze – racconta Michela Murgia -. Abbiamo dei marcatori che ci uniscono ma che al tempo stesso possono anche dividerci. Il concetto di del Noi plurale e collettivo crea appartenenza ma ha delle interpretazioni contraddittorie che può assumere accezioni positive e negative. C’è il Noi, tipico delle località provinciali, che crea appartenenza e senso di comunità, ma c’è anche un nuovo Noi che non si coltiva, che viene dato come entità che può essere minacciata e per questo va difesa dall’esterno. Non viene vissuto come un interscambio ed è cesura totale con “l’altro”. La Lega, per esempio, su questa accezione ci ha costruito la sua fortuna politica negli anni”.

Come si concilia il concetto di Noi e di appartenenza nell’era dei Social Network?
“Facebook e Twitter sono di per sé elementi ibridanti, ti consentono di identificarti con delle modalità paradigmate. Il rischio quindi è quello delle limitazioni: i social cercano sempre di costruire dei “cerchi di simili”. Facebook ti fa vedere in primis le pagine o i profili su cui più spesso hai messo il “Mi piace”. Google indirizza la tua ricerca in base a quelle che sono state le tue ricerche precedenti. C’è quindi il pericolo che si creino delle stanze chiuse virtuali. Certo è che chi cerca la differenza ha in mano uno strumento dal grandissimo potenziale”.
Michela Murgia viene dalla Sardegna, terra dalla forte identità sociale, ma anche linguistica. Quale imprinting arriva dal crescere in quella realtà, isolana, e fortemente caratterizzata?
“Isolani non significa isolati. Nascere in un’isola ti fa crescere in costante allenamento per “il salto”. L’idea che c’è un altrove da raggiungere è come avere un muscolo in più nell’anima che ti prepara, per l’appunto, a spiccare il volo. C’è maggiore facilità nell’aprirsi alle altre culture, l’alterità è un approdo”.
Ma c’è anche grande orgoglio delle proprie origini…
“Credo che l’orgoglio sia una faccia brutta del concetto di identità. È un tentativo di riscatto da una sorta di complesso di inferiorità rispetto ad altre culture. Dire “non mi importa cosa siete voi perché noi siamo questi” è estremamente limitante. Se guardiamo il caso della Sardegna notiamo come l’essere figli di tante dominazioni straniere nel passato ha reso gli appartenenti a quella terra indifferenti a nulla e aperti a tutto”.
Siena vive di appartenenze. Al luogo, alla contrada e alle sue tradizioni. Come giudica quest’aspetto?
“È bellissimo che ci sia una comunità che ti precede e che ti accoglie sin dalla nascita con i suoi rituali. L’importante è che quel fortissimo senso di appartenenza non si traduca con la chiusura totale al confronto con ciò che è diverso. Non solo a Siena, ovunque in Italia, si dà troppa importanza allo ius solis e allo ius sanguis, diritto di suolo e di sangue, cioè a rivendicare un’appartenenza su basi genetiche o geografiche. Credo che sentirsi parte di qualcosa o di un mondo deve passare attraverso lo ius voluntatis, e quindi attraverso una scelta. E questo porta ad una visione decisamente democratica dell’universo che ci circonda. Le identità troppo accennate tendono a chiudersi in sé e ad avere una visione gerarchica del mondo. “Io sono questo perché sono migliore dell’altro”. È quanto di più distorto ci possa essere nel concetto di appartenenza. Ogni volta che entriamo in contatto o che valichiamo i confini di un’altra cultura è come aprirsi ad un potenzialmente infinito universo in cui vivere e di cui sentirsi parte integrante”.

Andrea Frullanti

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