Dai vicoli di Cortona a Vercelli, Remo Bassini non ha perso lo spirito tutto toscano di prendere il toro per le corna. Responsabile del giornale “La Sesia”, si divide fra la terra d’origine ed il Piemonte. Ha un blog nel quale si possono leggere scritti e pezzi di vita trasportati con passione e dolore sulla pagina bianca. Si autodefinisce “clown che fa collezione di attimi”, e le impiega assai bene, queste frazioni di tempo, se si pensa che in due anni ha pubblicato altrettanti romanzi con Perdisa editore. L’ultimo si intitola “Vicolo del precipizio”: il protagonista Tiziano, 45 anni, è nato a Cortona ma vive a Torino. E’ uno scrittore che ha deciso di rompere con il mondo pieno di compromessi dell’editoria che lui ha conosciuto, sino a quando si riaccende la scintilla e decide di lavorare ad un nuovo libro: saranno proprio le storie di Cortona a fornirgli l’ispirazione.
Vicolo del precipizio: come nasce questo titolo?
“E' un vicolo di Cortona, il paese in cui sono nato. Viene il fiatone, a percorrerlo, se devi salire. Quando scendi, invece, intravvedi la “ruga piana”, ossia l'unica via pianeggiante di Cortona, piena di turisti e negozi. C'è la libreria di Cortona, il Nocentini, proprio dove finisce Vicolo del precipizio c'è un barbiere, mio cugino”.
Se dovesse cercare un punto di contatto con il romanzo precedente, “Bastardo posto”?
“Nessuno. A cominciare dalla scrittura. Qui privilegio la narrazione di storie e ricordi e mi avvicino al parlato. “Bastardo posto”, invece, aveva una musicalità precisa, ritmata, come un'ossessione. E i contenuti, poi, sono diversi, e tanto. Bastardo posto è un libro nero che sconfina nel sociale: e ne vien fuori una mia visione del mondo anarchica e disfattista. Qui invece, in questo Vicolo del precipizio, passeggiano ricordi e racconti: che se li scrivi restano almeno un po', altrimenti vanno via”.
Entrambi i volumi sono stati pubblicati da Perdisa, a distanza di un anno l’uno dall’altro: racconta come è nato il rapporto con questa casa editrice e come è riuscito in così poco tempo a portare a termine i lavori narrativi?
“Gli incontri con l'editoria per me avvengono in un solo modo: inviando cose da leggere. Non frequento scrittori, critici o editor. “Bastardo posto”, comunque, doveva uscire già nel 2008, con la Newton Compton, la mia vecchia casa editrice, solo che con la Newton ci fu una rottura consensuale. Così l'ho, per così dire messo, all'asta. Mi arrivarono due risposte, scelsi Perdisa, anche perché lo avrebbe pubblicato prima di altri. E in effetti uscì nel 2010. Nel frattempo, parlo del 2008-2009, scrissi “Vicolo del precipizio”. Che fu letto e approvato da Luigi Bernardi, prima che lasciasse la direzione di Perdisa a Paolacci”.
Una recensione ha definito il suo romanzo “Una riflessione sul mestiere di scrivere e di vivere”. Si ritrova in questa definizione?
“Direi che coglie l'essenza del libro. Aggiungo una postilla: a un certo punto della vita, appunto mentre rifletti su sogni e tempo che va, ti rendi conto “che i ricordi cambiano come cambia la pelle” (come canta Vecchioni) e ti viene voglia di non farli scappare via”.
E’ originario di Cortona, poi il trasferimento a Vercelli: cosa le rimane della Toscana ed in che modo influenza la sua creatività?
“Le mie estati, da ragazzo, le trascorrevo a Cortona. Il primo amore è di Cortona. A Cortona andavo a caccia, ascoltavo i racconti dei vecchi e poi me li portavo a Vercelli, con nostalgia. Il rapporto non è cambiato col passare del tempo: ci torno almeno tre, quattro volte all'anno, ritrovo me stesso ragazzo, i miei sogni. Ma se potessi, se vincessi una lotteria, andrei a vivere a Firenze: non per nulla, in “Vicolo del precipizio”, ci sono il Perseo di Cellini, il Chianti, la Fiorentina., le donne fiorentine”.
Oltre che scrivere romanzi, lei dirige il giornale “La Sesia” a Vercelli: come si trova in questa dimensione di provincia?
“Bene e male. Bene, perché il mio è un lavoro che dà tanti problemi (dalle querele alle minacce) ma anche tante soddisfazioni. Soprattutto se non sei un servo e se non le mandi a dire. Male perché il clima del Piemonte è pessimo, anche la cucina è quello che è”.
Riporto dal suo blog: “Ho fatto tante cose, il cameriere, l’operaio, il disoccupato”: anche quest’ultimo è un mestiere?
“Sono stato disoccupato per due anni. In un cassetto, dove conservo il diploma e la laurea, c'è anche l'attestazione dell'allora ufficio del lavoro che indicava la mia non occupazione e il fatto che avrei percepito per tre mesi la bellezza di 25 mila lire. Per campare pulivo cantine, lavoravo in un tiro a segno, facevo di tutto insomma. Più mestieri. Ma essere un disoccupato significa tante altre cose: vedere qualcuno che conosci, ma che si gira dall'altra parte perché ha i suoi problemi e quindi non ha tempo nemmeno di ascoltarti, andare magari all'ospedale e vedere la faccia che fa il medico quando dici che sei un disoccupato. Ti insegna anche a vivere, però: a camminare, ad accontentarti di mangiare un piatto di fagioli e una mela, a mettere da parte delle monetine che userai solo se sarai sommerso dalla cacca”.
Su “La Sesia” anni fa dedicò uno scritto alla morte di suo fratello Moreno, che poi ha riportato sul blog: perché condividere con il lettore un fatto così lacerante e privato?
“Quella lettera, per me, è una preghiera ed è la cosa più bella che io abbia mai scritto. Allora, ci furono tanti motivi per cui la scrissi e la riscriverei. Il primo è questo: io non amo parlare, amo, invece, scrivere. Quando mio fratello Moreno morì (era il 2005, aveva solo trent'anni) la chiesa, sebbene fosse agosto, non bastava per tutta la gente che era venuta al funerale. Molti erano lì per lui, molti per me. Quella gente si interrogava, alcuni mi chiedevano, molti mi scrissero. Lo feci anche io: scrissi una lettera dove presentavo, per la prima e anche ultima volta, chi era Moreno, ma per davvero. Moreno era un ragazzo difficile, che non lavorava, si faceva canne e spendeva tutto alla macchinette mangiasoldì. Ma era anche di una generosità rara. Se gli chiedevi una sigaretta, e lui ne aveva una sola, insisteva affinché la prendessi tu. Nel mio giornale, quando muore qualcuno, e la famiglia è d'accordo, cerchiamo di ricordarlo nel migliore dei modi. La morte e i ricordi: non sono i grandi temi, assieme all'amore e alla giustizia?”.
Valerio Cattano
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