A cuore aperto. Quando ricordare è un atto di riconciliazione

Luigi Oliveto

27/05/2021

È in libreria l’ultimo libro di Elvira Lindo, “A cuore aperto” (Guanda, traduzione di Roberta Bovaia). Un intenso romanzo famigliare, autobiografico; nondimeno un romanzo di formazione, per come l’autrice racconti sé stessa nei diversi passaggi dall’infanzia all’adolescenza, alla giovinezza. Autobiografia – precisa Elvira Lindo – che è altra cosa dall’autofiction, e che, quanto mai oggi, nasce dall’esigenza di voler ridefinire la propria identità. E questo ha fatto la scrittrice spagnola partendo dal momento in cui i suoi genitori si videro prima appassionati innamorati, poi sposi, famiglia, protagonisti di una storia d’amore sempre più imperfetta, densa di ombre. Ha dichiarato la stessa Lindo: “Io, che dentro di me non ho più di trentacinque anni, mi sono trovata di fronte alla realtà di vedermi allo specchio come una donna matura, e dalla distanza degli anni ho voluto avvicinarmi all’amore che hanno provato l’uno per l’altra, prima che io nascessi, Manuel e Antonia, i miei genitori.” Ecco, allora, come Manuel e Antonia siano diventati ‘personaggi’; e la loro vicenda un romanzo scritto con sorvegliata ‘oggettività’, con uno studiato impianto narrativo. Si racconta di un uomo molto estroverso, intraprendente, generoso, scaltro e realizzato nel lavoro. Convivono in lui, però, due subdoli sentimenti: la diffidenza e la gelosia che cerca di camuffare dietro la maschera dell’ironia. Sposa una donna che dalla vita si sarebbe aspettata molto di più. Lei si sente oppressa, con un perenne peso sul petto. Compensa la frustrazione attraverso un attaccamento morboso ai quattro figli di cui Elvira è la minore. Il matrimonio di Manuel e Antonia passa da una tempesta all’altra, sempre più segnato dalla gelosia di lui e dalla cedevolezza di lei, a maggior ragione arresa quando subentrerà la malattia. E’ dunque una storia d’amore imperfetta. La apprendiamo, in continui scarti temporali, dal racconto di una Elvira ragazzina e poi adulta. Dunque attraverso gli occhi dell’ingenuità infantile e quelli più smagati di chi, cresciuta, ha tutt’altra consapevolezza della vita. Sugli specchi di questa vicenda famigliare vediamo riflessa la Spagna del secondo Novecento, la sua transizione dalla dittatura alla democrazia, la rappresentazione di una classe media vista, giustappunto, in un interno di famiglia. Ma soprattutto risulta essere la storia di una figlia che – compassionevolmente, ma con fermezza, senza censure – indaga nella memoria (e nelle sue ombre). Per riappacificarsi con un padre difficile, che è comunque suo padre, la propria storia.
 
***
 
Io e mia sorella sedute davanti a loro: mio padre e il suo compagno di stanza. Manolo e Clemente. Entrambi educatamente seduti sulle sedie di finta pelle marrone dell’ospedale, con la ribaltina pronta, in attesa della cena. La scena ha un che di scolastico, benché i due siano vecchi e respirino attaccati a una bombola d’ossigeno. Mio padre è pettinato come non l’ho mai visto, tranne in certe foto da giovane che mandava con tanto di dedica appassionata a mia madre. Un’infermiera l’ha preso in simpatia anche se si sta comportando davvero male, e lo pettina con la colonia tutte le mattine. I ricci, ormai molto radi, restano imbrillantinati e attorcigliati sulla nuca e sottolineano ulteriormente i suoi lineamenti duri, che obbediscono a un’espressione impaurita, tipica dell’animale terrorizzato. Lo è. Sa di avere la morte addosso e che non farà niente per evitarla.
[…]
Mio padre è vecchio. Non ha il carattere di un vecchio, per questo è incazzato. Un tempo era quello che reggeva meglio il vino e il whisky e avvolgeva tutte le riunioni di famiglia in una densa coltre fumosa. Da quando la malattia lo soffoca ogni volta che cerca di camminare o di parlare, ha cominciato a raccontare le stesse storie di sempre ma in una versione così diversa che sembra di ascoltare un’altra persona. Come accade spesso ai vecchi, è sprofondato completamente nell’universo della propria infanzia, e il bambino che prima descriveva come un Huckleberry Finn, un picaro audace che si era fatto largo senza nessuna fatica tra le penurie della guerra e del dopoguerra, si sta rivelando ora, nel ritratto che ne fa da vecchio, una creatura abbandonata che è riuscita sì a sopravvivere, ma che è rimasta segnata da ferite profonde. Ho capito ora, e con un certo turbamento, che se fosse morto prima che sopraggiungesse questo stato di amarezza non avremmo mai conosciuto quest’altro io, che aveva così gelosamente censurato. Se fosse morto prima, avremmo ricordato solo il campione di resistenza sovrumana, come lui era solito presentarsi, l’uomo che si sentiva invincibile. Ormai ho capito che la sua forza era tutta fisica, ma sicuramente non psicologica. Essendo stato istruito a disprezzare i deboli, fin da piccolo era diventato bravo a nascondere il proprio dolore. Come può essere empatico con il dolore degli altri chi non ha mai potuto mostrare il proprio? Se negava la propria debolezza era perché poteva mettere a repentaglio qualcosa di così fondamentale come la sua stessa sopravvivenza. L’uomo con la camicia da notte ospedaliera a pois, l’aria da animale spaventato e il respiro affannoso, arrivò per la prima volta a Madrid nel 1939, pochi mesi dopo la fine della guerra. Aveva nove anni. Era figlio di un capitano della Guardia Civil privo di carattere e di una madre estremamente fredda, autoritaria. Mio padre insinuava che in alcune occasioni mia nonna fosse arrivata a picchiare il marito. Quella stessa donna decise che per alleggerire il peso della famiglia doveva liberarsi per un po’ di uno dei suoi figli e scelse quello di mezzo, mio padre, che oltretutto era un bambino faticoso, temerario, incline a combinare guai. Lo spedì nella città più dura, inospitale e distrutta di Spagna, quella su cui si era accanito l’esercito del generale ribelle per il semplice fatto che era la capitale e l’emblema della resistenza, fino al giorno in cui quel popolo era stato sconfitto dalla fame e dalla rovina.
[…]
So che mio padre era solo quando suonò al citofono di una zia, una parente di mia nonna che viveva in plaza del Campillo del Mundo Nuevo, alla fine della lingua in discesa tracciata dalla Ribera de Curtidores nel cuore del quartiere La Latina. Non ho mai saputo il vero nome di quella donna, perché mio padre l’aveva soprannominata la Bestia per come lo aveva trattato. Fin da piccolo papà aveva dimostrato di possedere un carattere nervoso (adesso si definirebbe iperattivo). Ammetteva di essere stato tremendo, indomabile, e di essersi meritato gli schiaffoni della nonna. Ma c’erano stati motivi precisi che avevano alimentato la sua tendenza allarmista e paranoica. Convinto che suo padre fosse morto in guerra, intorno al ’38, una mattina mentre giocava nella piazza del paese aveva visto apparire quasi dal nulla un uomo scuro, barcollante, con una coperta sulle spalle. Avrebbe giurato che fosse un fantasma, o magari l’uomo nero, che veniva a portarlo via con sé come castigo per una delle tante marachelle rimaste impunite. Negli interminabili istanti che l’uomo impiegò per raggiungerlo, pensò che sarebbe stato rapito o ucciso. Solo quando gli fu vicino lo riconobbe: era suo padre. Perse tutti i capelli dallo shock e rimase calvo per qualche tempo, finché gli ricrebbe una chioma folta e riccia, con una ciocca bianca in mezzo, una macchia, che fin dall’infanzia gli avrebbe conferito un’aria da dongiovanni. Dopo solo un anno, il bambino che aveva visto tornare il padre dal mondo dei morti, senza neanche avere avuto il tempo di riprendersi dallo spavento, venne allontanato dalla vita famigliare e mandato a Madrid: una bocca in meno da sfamare, una creatura selvaggia e incontrollabile affidata a una donna che non aveva figli. Mio padre suonò al campanello di plaza del Campillo del Mundo Nuevo, la stessa piazza in cui tanti anni dopo io mi recavo la domenica con suo nipote Miguel, mio figlio, quando aveva la sua stessa età, nove anni, a scambiare le figurine di Dragon Ball alle bancarelle del Rastro. Stringevo forte, con apprensione, la mano del bambino, perché era irrequieto, si distraeva facilmente, e io tremavo al pensiero di poterlo perdere come mi ero persa io in paese a cinque anni. Nessuno considerò allora, nel 1939, che il bambino che era mio padre potesse smarrirsi e perdersi per sempre nella giungla urbana. La considerazione che si ha dell’età dei bambini cambia, ma la ferita aperta in loro dall’abbandono resta la stessa. Non ho mai pensato di chiedere a mio padre quale fosse il palazzo in cui venne accolto in quei mesi. Credo di ricordare che una volta mi disse che la sua stanza, una specie di ripostiglio, dava sull’interno, e che il suo letto era un semplice materasso vecchio gettato sul pavimento. La zia che lui chiamava la Bestia faceva l’infermiera all’Ospedale di Maudes, che era stato un centro di soccorso per i soldati repubblicani convertito in seguito in ospedale dei feriti dell’esercito nazionalista.
[…]
Ma arriva il giorno in cui la sua capacità di accettazione si esaurisce. La Bestia, che nella mia mente assume le sembianze di una gigantesca carceriera, lo picchia ed è la goccia che fa traboccare il vaso. Allora concepisce un piano. […] Con i soldi stretti in pugno e la scatola di cartone nell’altra mano, la stessa scatola con cui era arrivato e che conteneva un cambio, un maglione e poco altro, esce pimpante e si dirige alla stazione di Atocha. Strada facendo si ferma in un negozio di alimentari e compra una mela. Non è una decisione istintiva: ha pensato che deve portare con sé qualcosa da mangiare per non svenire. Arriva in stazione e compra un biglietto. Il biglietto, inaspettatamente, non è per il paese da cui viene e in cui vivono i genitori. Non ho mai pensato di chiedergli perché non fosse tornato a casa, ma intuisco che non volesse apparire come un fallito agli occhi della madre. Si ricordava di avere parenti ad Aranjuez, da parte di suo padre. Pensò che se avesse chiesto di qualcuno con il suo stesso cognome, un cognome strano e poco diffuso, lo avrebbero aiutato a trovarli. Aveva notizia di quei famigliari, fratelli di suo padre, per via delle lettere che arrivavano di tanto in tanto a casa, sapeva che avevano degli orti, e quella parola, orti, riecheggiava nella sua mente come la promessa del paradiso. Si mise in punta di piedi e chiese il biglietto come se facesse quel tragitto tutti i giorni.
[…]
Arrivò in quel paese che, paragonato a Madrid, gli sembrò luminoso e accogliente. D’un tratto la vista gli si riempì di colori. Aveva sentito che lo zio lavorava come guardia in comune e lì si diresse. Disse il nome del fratello di suo padre come se domandasse di una persona che lo stava aspettando da parecchio. Non l’aveva mai visto. E tutto andò come aveva sperato: avvisarono lo zio e lo zio arrivò e se lo portò a casa. […] Scrissero a sua madre, cui la zia aveva già fatto sapere che il bambino, quel bel bambino disubbidiente, irritante e irritabile, era scappato. La colpa ricadde, com’era prevedibile, sulle sue piccole spalle e questo capitolo venne aggiunto come l’ennesima marachella al suo già fitto curriculum di cattiva condotta. Lui stesso preferisce definirsi una simpatica canaglia piuttosto che passare per una vittima. E così l’ho sempre considerato anche io, quasi fino a ieri, fino a ora che lo vedo armato di pazienza nell’ospedale pubblico, incongruo nella sua camicia da notte a pois. La pietà che provo non è dovuta al suo stato di salute, o non solo. Sapevamo tutti che alla fine avrebbe pagato la sua propensione alla dipendenza. E` successo quello che doveva succedere e morirà come era prevedibile, soffocato dal fumo che respira da quando aveva dodici anni. La compassione che lui non vuole ispirare e che io invece provo nasce da un’idea su cui sto riflettendo da tempo. Io, che tante volte ho ascoltato, scritto e venerato le storie dell’esilio spagnolo, che ho commiserato chi è stato costretto a partire, chi ha dovuto farsi una nuova vita lontano dalla propria terra privato di tutto quello che era suo, vedo adesso in lui uno di quegli sventurati che invece sono stati costretti a restare, a dimenticare il trauma della guerra che aveva marchiato la loro infanzia e a tirare avanti in un paese di merda. La mancanza di vittimismo in una generazione che ha riversato tutte le proprie energie nell’obiettivo di uscire dall’indigenza, trovare un lavoro e metter su famiglia, ha impedito ogni possibile risarcimento, ha fatto sì che neanche noi figli prestassimo troppa attenzione a quello che solo di rado i genitori ci raccontavano, più come una peripezia che come una disgrazia. Tutta la collera trattenuta di mio padre, repressa mentre concentrava i suoi sforzi per sopravvivere e prosperare, sta sfiatando adesso come un rantolo prima della sua dipartita. Riesco a vederlo per la prima volta per come è e per come era: un bambino solo in una città devastata e crudele, picchiato da una donna che conosceva appena senza nemmeno capire perché veniva punito. Che cosa potevamo aspettarci da lui se non il disprezzo per i deboli e una ruvida pretesa di fermezza? Forse solo nella sua morbosa paura della solitudine potevamo intravedere gli strascichi di un trauma che è ancora vivo in lui. Molti anni dopo, quando ormai ci erano successe tante cose, la lunga malattia di mia madre, il rapido matrimonio di mio padre, dopo meno di un anno di vedovanza, con una donna allegra e ricca, il destino volle che la nuova moglie vivesse in calle Maudes e che il suo balcone si affacciasse sull’ospedale in cui aveva lavorato la Bestia. E siccome si tratta di una strada strettissima, quando uscivamo ci sembrava di essere nel giardino che circonda lo strano edificio progettato da Antonio Palacios per curare gli operai. Adesso che la tragedia ha sgombrato i suoi spazi, è una delle sedi dell’amministrazione comunale. A volte, negli anni in cui mio padre ha vissuto con la seconda moglie, chiacchieravamo appoggiati alla balaustra e guardavamo i torrioni. Lui diceva sorridendo: non potete immaginare quante volte, proprio lì, davanti all’entrata, ho aspettato mia zia. Non ho mai colto un’ombra di amarezza o tristezza in quel ricordo. Solo ora che lo guardo e mi sembra un vecchio scolaretto pettinato con la colonia dall’infermiera, solo ora, sentendo che il passato lo turba con tutta la sua crudezza e che io non posso fare niente per evitarlo, riesco a vedere mio padre bambino.
 
[da A cuore aperto di Elvira Lindo, trad. di Roberta Bovaia, Guanda, 2021]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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