Centocinquantenario della nascita del Vate. Le incursioni letterarie di D'Annunzio in Toscana e nelle terre di Siena

Luigi Oliveto

26/03/2013

Poeta, drammaturgo, romanziere, giornalista, politico, esteta, eroe di guerra, erotomane convinto e corrisposto. Stiamo parlando di Gabriele D’Annunzio, principe di Montenevoso (il titolo nobiliare fu una regalia del fascismo), nato a Pescara il 12 marzo 1863 (quest’anno ricorre il centocinquantenario), morto a Gardone Riviera il 1 marzo 1938. Anch’egli nella galleria dei vati nazionali, fu a suo modo simbolo del Decadentismo italiano e, da decadente indefesso, gli piacque fondere e confondere l’arte con la vita. Si impegnò, insomma, in una “vita inimitabile” – e ci riuscì – all’insegna della sfrenatezza, della tensione eroica e superomistica. Bambino vivace e intelligente, all’età di 11 anni abbandona la natìa Pescara per raggiungere il prestigioso collegio “Cicognini” di Prato. Così aveva deciso il padre per dare al ragazzino un’adeguata educazione che prevedesse, fra le altre cose, anche il parlare un corretto italiano, senza la sconveniente impronta dell’accento d’Abruzzo. Proprio in materia di lingua italiana diviene subito il migliore, contendendosi il primato con un altro saccente giovinetto, virgulto di una famiglia senese. Il curriculum scolastico di Gabriele procede con alti e bassi. E’ lui a decidere quando e come valga la pena impegnarsi, tant’è che fioccano voti oscillanti dal tre al dieci. Salvo, poi, svettare a primo della classe e ottenere di passare, senza alcun esame, dalla terza alla quarta ginnasio. Ma le maglie della disciplina collegiale gli vanno strette. Legge libri proibiti, palpeggia le guardarobiere, risponde in greco alle formule latine della messa. Sgraffigna pezzi di panforte al suo compagno senese e così viene redarguito: “alunno Gabriele dell’Annunzio, nell’ora dello studio ‘non est capiendum furtim et ruptim’ il panforte di Siena”. Con la licenza liceale conseguita il 27 giugno 1881 si conclude l’esperienza al collegio di Prato, ma nel corso degli anni la Toscana tornerà, a più riprese, ad incrociare la sua vita.

Le città del silenzio - Non a caso quando scriverà “Le città del silenzio”, rassegna celebrativa dedicata ai centri storici italiani che furono un tempo sedi di raffinata civiltà, troveremo molte località della Toscana. Tra queste Volterra, che sarà anche scenario di alcune parti del romanzo “Forse che sì forse che no”. Una storia di passioni che legano e dividono cinque personaggi borghesi e che sono fatalmente destinate a lasciare una scia di dolore e morte. Sullo sfondo troviamo, appunto, Volterra, “costruita di quella pietra etrusca che imprigiona il sole, sopra una voragine infernale che sembra scavata dall’irosa fantasia dantesca”, scriverà D’Annunzio a Emilio Treves. E proprio certe cupe descrizioni dell’antica Velathri rappresentano, in “Forse che sì forse che no”, una sorta di manifesto del decadentismo italiano: “Isabella forse in quell’ora viaggiava per Volterra, a traverso le crete della Valdera, a traverso le biancane sterili; vedeva di là dalla collina gessosa riapparire all’improvviso su la sommità del monte come su l’orlo d’un girone dantesco il lungo lineamento murato e turrito, la città di vento e di macigno”. Si dice anche che sia stato D’Annunzio a dare il nome di “Ombra della sera” alla celebre, oblunga statuetta etrusca, oggi conservata al museo Guarnacci.

Geo-letteratura dannunziana - La geo-letteratura dannunziana spazia da Pisa a Lucca, a Carrara, Pistoia, Arezzo, Cortona. Sosteneva Cesare Garboli che dobbiamo a D’Annunzio anche “l’invenzione” di una certa immagine della Versilia, così come, ad esempio, la troviamo cantata nei versi di “Alcyone”: “Non temere, o uomo dagli occhi / glauchi! Erompo dalla corteccia / fragile io ninfa boschereccia / Versilia, perché tu mi tocchi”. Dire poi Firenze, significherà salire fino al colle di Settignano, alla villa della Capponcina (era stata di proprietà della famiglia Capponi) dove il poeta abitò tra il 1898 e il 1910. Ne fece la sua casa-tipo, arredandola completamente con mobili del Quattrocento. Vi visse per oltre un decennio, accudito da quindici domestici, con una muta di cani, una scelta scuderia. La costosa mobilia sarebbe finita all’asta per pagare i creditori dopo la fuga del Vate a Parigi (1910). La villa sui colli fiorentini fu teatro del chiacchierato amore del poeta con Eleonora Duse, che stava a pochi passi, a villa Porziuncola (sull’altro lato della strada). Ma su quei viali frusciarono anche le gonne di Alessandra Carlotti di Rudini, soprannominata Nike per il suo fisico statutario, e di Giuseppina Mancini Giorgi, che per Gabriele impazzì nel vero senso della parola, dovendo ricorrere a cure psichiatriche (una testimonianza di queste vicende è racchiusa proprio nel romanzo “Forse che sì forse che no”).

Il bel Duomo bianco e nero - Per incontrare una Siena dannunziana si dovranno, invece, aprire le pagine de “Il piacere”. La vicenda raccontata è ambientata a Roma, ma è senese una delle protagoniste femminili, Maria Ferres, donna “spirituale ed eletta”, sposata con il ministro plenipotenziario del Guatemala, la quale, dopo un tenace corteggiamento di Andrea, gli si concede e tradisce il marito. Nella fantasia dello scrittore, Maria “nasce di casa Bandinelli, battezzata con l’acqua della Fonte Gaia. Ma è piuttosto malinconica, di natura; e tanto dolce. La storia del suo matrimonio, anche, è poco allegra. Quel Ferres non è simpatico punto”. Sarà sempre attraverso gli occhi dell’eterea Maria che D’Annunzio offre uno spaccato della città: “Rivedrò la Loggia del Papa e la Fonte Gaia e il mio bel Duomo bianco e nero, la casa diletta della Beata Vergine Assunta, dove una parte dell’anima mia è ancóra a pregare, accanto alla cappella Chigi, nel luogo che sa i miei ginocchi”. Così come, alla donna di casa Bandinelli, affiderà alcune impressioni “forti e durevoli” sull’arte senese: “Quei lunghi corpi snelli come steli di gigli; quei colli sottili e reclinati; quelle fronti convesse e sporgenti; quelle bocche piene di sofferenza e di affabilità; quelle mani affilate, ceree, diafane come un’ostia … e tutte quelle attitudini nobili e gravi o nel ricevere un fiore da un angelo o nel posar le dita sopra un libro aperto o nel chinarsi verso l’infante o nel sostener su’ ginocchi il corpo di Gesù o nel benedire o nell’agonizzare o nell’ascendere al Paradiso…”.

La cruda terra senese
- Del resto D’Annunzio aveva avuto modo di transitare da Siena diverse volte. In una di queste sue visite, il 15 luglio 1915, soggiornò all’albergo Continental e un malizioso cronista non mancò di annotare che il Vate vi era stato visto entrare in compagnia di “due bruni giovani”, quasi a insinuare una variante sui gusti sessuali del grande tombeur de femmes. Mentre sarà nella primavera del 1916 che, viaggiando in automobile diretto al fronte, dovrà fare sosta a Radicofani perché il radiatore della vettura bolliva oltre misura. Lo raffreddò con l’acqua della Fonte Grande. Il giorno dopo, da Padova, telegrafò a un amico: “Com’erano belle, ieri sera, le crete di Radicofani”. Giusto una citazione delle crete senesi la troviamo anche tra le righe della “Beffa di Buccari”. Nella prosa enfia e impettita con cui il poeta-combattente descrive le diverse provenienze geografiche dei marinai che fecero l’impresa, a un certo punto dice: “Un altro è di Montalcino, alto svelto e duro come una torre della sua rocca. E, stando egli in piedi con una berretta di podestà, scopro dietro di lui la cruda terra senese, vedo lo sfondo della Val d’Orcia mutola e severa, con le sue crete, con le sue rupi, con i suoi cerri, con i suoi cipressi, con i suoi casseri, con le sue pievi, con le sue badie, con le sue grance, e la virtù civica inerpicata e abbarbicata sul monte comunale ardervi l’ultimo stendardo della libertà e infrangervi l’ultimo conio della moneta che porta l’Assunta e la Lupa romana”. Queste le parole di colui che fece della parola (del suo abile uso) non uno strumento, ma un fine. Il critico Francesco Flora convenne, a torto o a ragione, che “ognuno di noi .... riconosce in D’Annunzio un alto familiare che arricchì la nostra vita di miti poetici e di alate illusioni”. Indubbiamente le suggestioni del suo linguaggio poetico si congiunsero con molte espressioni della letteratura novecentesca, futurista, crepuscolare, ermetica, arrivando a sfiorare persino Montale.

Luigi Oliveto

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Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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