Gli occhi di Monna Lisa. Vedi l’arte e vedi quanto di stupendo abbia creato l’uomo

Luigi Oliveto

07/03/2024

Il romanzo di Thomas Schlesser, “Gli occhi di Monna Lisa”, è diventato un caso editoriale. Già pubblicato in una ventina di paesi, è ora in libreria anche in Italia, edito da Longanesi, con la traduzione di Federica Merati. L’autore, che ha al suo attivo diversi scritti dedicati a pittori e artisti, è uno storico dell’arte, docente all’École polytechnique e direttore della Hartung-Bergman, fondazione sorta per assicurare la conservazione e valorizzazione di opere, archivi e patrimonio architettonico. Come è intuibile dal titolo, pure il romanzo parla di arte, ma lo fa incrociando l’esistenza di una famiglia che si trova a vivere una situazione di forte preoccupazione e sconcerto. Una famiglia francese come ce ne sono tante. La madre Camille lavora in un’agenzia interinale e nel tempo libero si dedica ad attività di volontariato; il padre Paul, con alle spalle un primo matrimonio finito male, è un piccolo rigattiere dagli alterni guadagni, “affascinato soprattutto dalla cultura americana degli anni Cinquanta: jukebox, flipper, poster...; la figlia Lisa ha dieci anni, naturalmente va a scuola ed ha due amichette del cuore, Jade e Lili. C’è poi il nonno materno Henry Vuillemin, un ottantenne dal fisico massiccio, apparentemente scorbutico, che, rimasto vedovo, vive da solo con i suoi molti libri d’arte impilati fino al soffitto. Un uomo affascinante, era stato fotoreporter di guerra. Nel 1982, mentre in Libano stava lavorando a un reportage per l’agenzia France-Presse, un falangista lo aveva aggredito con un coltello ferendolo a una guancia e compromettendogli l’uso di un occhio, “un’infermità che, unita alla stazza e a una magrezza che negli anni si era sempre più accentuata, aveva conferito al suo aspetto un non so che di soprannaturale.” La routine della famiglia piomba nell’angoscia il giorno che, all’improvviso e per più di un’ora, la piccola Lisa perde la vista, dice di essere rimasta completamente al buio. Eseguiti tutti gli accertamenti oftalmologici e neurologici non si giunge a nessuna conclusione, salvo che suggerire di rivolgersi a uno psichiatra infantile. Sconvolti all’idea che il fenomeno si ripeta e la bambina resti cieca a vita, i genitori altro non possono fare che intraprendere il percorso della psicoterapia. Ma nonno Dadé – così lo chiama la nipotina – è di tutt’altro avviso. Se disgraziatamente Lisa fosse diventata cieca, urgeva che lei vedesse subito quanto di più stupendo l’uomo abbia creato. Quindi, ogni mercoledì, fingendo di accompagnarla dallo psichiatra, la conduce a visitare il Louvre, il Museo d'Orsay, il Beaubourg. Ciascuna visita dedicata soltanto a un’opera. Sono cinquantadue le opere che cadenzano il romanzo fornendo, attraverso di esse, una grammatica della bellezza, uno scandaglio dell’animo umano che sullo specchio dell’arte sa mostrarsi in tutte le sfaccettature. Prima guardano in silenzio, poi il nonno racconta, la bambina ascolta, chiede, accoglie in sé il germe di ciò che un giorno le si rivelerà come l’universalità dei sentimenti. Ecco allora il commovente viaggio nello stupore di due persone, di due generazioni così distanti così vicine. Nonno e nipote – l’inverno e la primavera della vita – si legittimano reciprocamente dinanzi alla vita stessa. In nome dell’arte e della bellezza, l’uno consegna all’altra un viatico per il futuro.
 
***
 
Il giorno di Ognissanti, Lisa era di buonumore. I suoi genitori si erano dati da fare per rallegrare la cupa atmosfera di novembre; le sue amiche, Jade e Lili, si erano fermate a guardare un pezzo di Toy Story, il film di animazione in cui i giocattoli prendono vita, e a fare un po’ di chiasso. Jade, in particolare, aveva dato il meglio di sé. Era una bambina graziosa e birichina con sottili occhi a mandorla, pelle olivastra e capelli acconciati alla perfezione, animata da una particolare passione: fare le smorfie. Sapeva trasformare il viso armonioso in un palco, dove espressioni insolite e caricaturali si avvicendavano alla maniera di attori indiavolati. Lisa, felice, non se ne stancava mai.
Alle diciannove suonò il citofono. Paul strinse le labbra e inarcò le sopracciglia, mentre Camille premeva il pulsante.
«Papà?»
Era proprio Henry Vuillemin, che spaccava il minuto. Paul lo salutò prima di riaccompagnare Jade e Lili dai rispettivi genitori, lasciando soli Camille, Lisa e Henry. Dopo un’esplosione di gioia infinita, la bambina, che si era guardata bene dal raccontare alle amiche la propria disavventura, si lanciò in una spiegazione dettagliata dei sessantatré minuti del calvario e degli esami in ospedale. La madre non osò interromperla.
Mentre ascoltava Lisa parlare come un fiume in piena, Henry esaminò con una sorta di distanza clinica i luoghi in cui viveva la nipote. Persino la cameretta, nonostante fosse curata nei dettagli, gli pareva estremamente triste. La carta da parati con le ghirlande di fiori, i soprammobili a forma di cuore o di animale tempestati di paillettes, i peluche rosa e marroni, i poster grotteschi di divi appena usciti dall’adolescenza, i gioielli in plastica, gli arredi da principessina dei cartoni animati... i colori aciduli di quella mercanzia lo soffocavano. In mezzo a quel caos grondante cattivo gusto e irrimediabile superficialità si intravedevano soltanto due scorci di bellezza: una robusta lampada industriale americana degli anni Cinquanta a braccio mobile, scovata da Paul, che l’aveva regalata a Lisa per la sua piccola scrivania e, sopra il letto, in una cornice, la locandina di una mostra che riproduceva un quadro. Aveva colori straordinariamente tenui e freddi e raffigurava una donna nuda di profilo che si protendeva in avanti, seduta su uno sgabello coperto da un telo bianco con la caviglia sinistra appoggiata sul ginocchio destro. In un angolo si leggeva: Musée d’Orsay Paris – Georges Seurat (1859-1891).
A parte quelle eccezioni, Henry osservò con tristezza che l’infanzia, per comodità, trabocca di cose futili e orribili. E quella di Lisa, malgrado un ambiente benevolo, non faceva eccezione. La bellezza, la vera bellezza artistica entrava nella sua vita quotidiana solo clandestinamente. Una cosa del tutto normale, pensò Henry: l’affinamento del gusto e lo sviluppo della sensibilità sarebbero arrivati dopo. Il problema – e quel pensiero gli toglieva il respiro – era che Lisa aveva quasi perso la vista, e se i suoi occhi si fossero spenti per sempre nei giorni, nelle settimane e nei mesi a venire, tutto ciò che avrebbe conservato nella memoria sarebbero stati quegli oggetti pacchiani e inutili. Una vita intera al buio a tentare di ricostruire il peggio che il mondo ha da offrire, senza scampo per i ricordi? Era assurdo. Terrificante.
Con grande disappunto della figlia, Henry si mostrò taciturno e distante per tutta la cena. Quando finalmente Lisa andò a letto, Camille alzò con un gesto deciso il volume del sassofono di Coltrane, che proveniva da un vecchio jukebox cromato, per coprire le loro voci e assicurarsi che la piccola non sentisse nulla.
«Papà, al momento sembra che Lisa stia prendendo bene», esitò sulle parole da usare, «... quello che è appena successo. Ma il medico consiglia di rivolgersi a uno psichiatra infantile. Potrebbe essere un po’ strano per lei, perciò mi chiedevo se fossi disposto ad accompagnarla, in modo da rassicurarla...»
«Un medico dei matti? È davvero ciò che le impedirà di diventare cieca?»
«Non è questo il punto, papà!»
«Penso di sì, invece, e lo sarà finché non oserai chiederlo al medico! Dottor...?»
«Si chiama Van Orst ed è molto bravo», rispose Paul impacciato, cercando di inserirsi nella conversazione.
«Papà, aspetta», riprese Camille. «Ascoltami. Paul e io faremo tutto il possibile per assicurarci che non accada nulla a Lisa, mi hai sentito? Ma ha dieci anni e non possiamo far finta che non sia successo niente. Il medico sostiene che il suo equilibrio psicologico ha la priorità. Quindi, ti chiedo solo se pensi di potertene occupare, perché so che Lisa si fiderà di te. Hai capito, papà?»
Henry aveva capito benissimo. Ma proprio in quel momento, in una frazione di secondo fu colto da un’illuminazione, da un’idea apollinea che tenne per sé. Non avrebbe portato sua nipote da uno psichiatra, certo che no... Al contrario, le avrebbe fatto seguire una terapia di altra natura, una cura capace di compensare l’indigestione di brutture a cui la sua infanzia era stata sottoposta.
Lisa, che aveva piena fiducia in lui e lo stimava come nessun altro adulto, lo doveva accompagnare nei luoghi dove si custodisce ciò che il mondo ha di più bello e umano da offrire: doveva seguirlo nei musei. Se, per disgrazia, la bambina fosse diventata cieca per sempre, avrebbe potuto godere di un serbatoio mentale da cui attingere a una grande bellezza visiva. Era proprio quello il piano del nonno: una volta alla settimana, seguendo un rituale immutabile, avrebbe preso per mano Lisa e l’avrebbe portata a contemplare un’opera d’arte – una soltanto – prima in un lungo silenzio, affinché la delizia infinita dei colori e delle linee potesse entrare nella mente della nipote, poi con le parole, perché la bambina riuscisse a comprendere, al di là del semplice piacere visivo, come mai gli artisti ci parlano della vita e quanto la illuminano.
Aveva in mente qualcosa di meglio dello psichiatra, per la sua piccola Lisa. Prima il Louvre, poi il Museo d’Orsay e infine il Beaubourg... Lì, sì, proprio lì, in quei luoghi dedicati alla conservazione delle opere più audaci e meravigliose dell’umanità, avrebbe trovato una medicina per la nipote. Henry non era uno di quegli amanti dell’arte che si accontentano in astratto della levigatezza della carne dipinta da Raffaello o del ritmo di una linea scandita dai carboncini di Degas. Amava le caratteristiche quasi incendiarie delle opere. «L’arte o è pirotecnica o è vento!» diceva a volte. E amava il fatto che, nella sua interezza o in un dettaglio, un quadro, una scultura o una fotografia fossero in grado di accendere il senso della vita.
Quando Camille gli chiese aiuto, Henry fu investito da centinaia e centinaia di immagini: i volumi rocciosi sullo sfondo della Gioconda; la scimmia scolpita dietro lo Schiavo morente di Michelangelo; l’espressione allarmata del bimbo con i riccioli biondi nel Giuramento degli Orazi; gli strani reni gelatinosi nell’Agnello di Goya; e poi le zolle di terra nell’Aratura nivernese di Rosa Bonheur; la firma a mo’ di farfalla che Whistler usa nel ritratto della madre; la traballante cappella absidale della chiesa di Van Gogh... Ma anche i colori di Kandinskij, le fratture di Picasso o l’oltrenero di Soulages. Era un continuo sgorgare di segni che lo chiamavano, che domandavano di essere ammirati, ascoltati, compresi e amati. Come un contrattacco alle ceneri che minacciavano gli occhi di Lisa.
Henry fece un ampio sorriso.
«Va bene, mi prenderò cura di Lisa tutti i mercoledì pomeriggio. D’ora in poi sarò io, e soltanto io, a occuparmi del suo supporto psicologico. Sarà una cosa tra noi due e nessun altro. Siamo intesi?»
«Troverai uno psichiatra valido, papà? Chiederai consiglio ai tuoi vecchi amici?»
«Siamo d’accordo su come andranno le cose? Me ne occuperò io, senza domande, senza interferenze da parte di nessuno.»
«Ma non sceglierai uno psichiatra infantile a caso, mi hai capito? Dovrai stare molto attento.»
«Ti fidi di me, tesoro?»
«Sì», replicò Paul con un tono così autoritario da cancellare qualsiasi esitazione di Camille. «Lisa ti ammira e ti rispetta, ti vuole bene come a nessun altro, quindi sì, ci fidiamo di te.»
A quelle parole ferme Camille non aggiunse altro, limitandosi ad annuire con tenerezza. L’occhio sano di Henry brillò di un luccichio umido, mentre il sassofono di Coltrane increspava le pareti. Lisa, intanto, dormiva nella cameretta, vegliata da Georges Seurat.
 
[da Gli occhi di Monna Lisa di Thomas Schlesser, trad. di Federica Merati. Longanesi, 2024]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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