I sogni non svaniscono all’alba

Gianni Manghetti

28/10/2016

La mattina erano tutti in piedi, vecchi e nuovi arrivati. Gent e il Declarante si erano sistemati in un angolo della scuola, e Gent, a differenza dell’amico, non era riuscito a dormire, tanto era stato forte e insistente il russare che alcuni corpi facevano, come se avessero voluto liberare tutta l’aria che di giorno avevano ingoiato sui campi. Furono caricati sopra lo stesso furgone, lui fu uno dei primi a salirvi. Guardò le facce degli altri, vi lesse solo il suo stesso desiderio: quello di poter dormire. Tutti a capo chino. In silenzio. Non ci volle molto per arrivare al campo: una lunga pianura dove le file delle piante sembravano dei soldati di piccola statura. I miei nemici pensò Gent, nemici da abbattere. Dovevano strappare le piantine e scuoterne i frutti, piccoli e a grappolo, cresciuti tra le foglie. Dovevano scuoterle dentro grandi cassoni, distribuiti, qua e là, sul campo: come degli avamposti sul fronte. A tutti loro – quelli dei pomodori – fu ordinato da ‘quelli del padrone’ di mettersi in riga di fronte ai ‘nemici’: ognuno davanti alla propria fila. Per tutti le stesse regole d’ingaggio. Ognuno con il proprio cassone, dentro cui scaricare il raccolto. Ognuno pagato in base al numero dei cassoni riempiti. Ognuno per sé. Più cassoni riempi, fino all’orlo, più sei pagato. Pronta cassa a sera, alle cinque, quando venivano i camion a caricare il raccolto o a metà giornata, per quelli che smettevano alle due. È chiaro? E solo pomodori dentro. Nient’altro. È chiaro? Solo pomodori.

Ognuno per sé. “E Dio con nessuno?”, si chiese Gent. No, Dio stava di sicuro dalla parte di quelli che buttavano dentro i cassoni anche la piantina e le foglie. Vuoto per pieno. Sì, Dio doveva stare dalla parte loro, almeno finché ‘quelli del padrone’ non se ne accorgevano, pensò ancora. O facevano finta di non vedere? No, perché Gent, che più volte fu tentato di mettere alla prova Dio, vide bene che, a metà mattinata, un paio di zingari furono buttati fuori dalla riga. “A casa, via”. Gent emise appena un gorgoglio con la bocca e fece un mezzo sorriso, in realtà più simile a una smorfia. “Dio non è dalla parte di quei due zingari”, concluse. Al fronte, la prima volta. Il sole ancora basso. L’aria tiepida. Piegarsi. Tirare su le piantine, a strappo. Due passi di corsa, scrollo nel cassone. È facile. Tre passi, di corsa, e via. Dieci passi, ancora di corsa, e via. Corpi in avanti e indietro. In silenzio. No, laggiù qualcuno fischia. Non si capisce che cosa fischi. È intonato, ma non è un blues. È aria che è meglio tenersi nei polmoni. Gent non fischia. Dopo mezz’ora, il primo cassone è fatto. Via verso il nuovo. A torso nudo, stavolta. Troppo sudore. Non conviene. Il sole è cattivo. Non è quello africano. Di nuovo serve la camicia, anche se è già fradicia. Il vento umido non la smette di soffiare. La polvere si appiccica sui corpi. Gent non corre più verso il cassone. Cammina, con le piantine strappate. Le mani gli cambiano di colore. Prima rosse. Per poco. Poi nere. Di un nero sudicio: un composto fatto del verde delle foglie e della terra ferrosa. Un colore diverso dalla sua pelle africana che in Sudan luccicava al sole. Il nero delle mani è sporco: dà prurito. E voglia di
toglierlo via. Ma l’acqua serve solo per bere. Sorsate dai bottiglioni, messi qua e là, come munizioni da usare. Acqua che, subito dopo, cola sul petto, scende sui jeans e bagna le mutande. C’è anche la schiena nel corpo umano. Quella reclama una pausa. Non basta stirarsi e tirarla. Continua a chiedere altre pause. E ci sono anche i polsi. Reclamano, anche loro. E non si può nemmeno stirarli. Fanno male e basta. Li massaggia, ma quel nero sudicio entra ancor più nei pori. E il prurito aumenta.

La riga iniziale di ‘quelli dei pomodori’ non è più una riga. La posizione a testuggine si è spezzata subito dopo il primo cassone. I vecchi avanzano di più – hanno creato come un rombo. Loro davanti e gli altri più indietro. Sanno muoversi meglio. Uno strappo secco, solo uno. Sanno anche scrollare meglio i pomodori. Fanno prima. E sanno nascondere bene l’erba e le foglie nel cassone. Mai vicino all’orlo. Gli zingari pensavano di essere furbi. I vecchi non erano furbi, ma intelligenti altroché se lo erano. Avevano più giorni sulle spalle e l’esperienza aveva loro insegnato come funzionava quel mondo. Sapevano come, dove e quando rischiare. Mai sul primo cassone – il più controllato. Meglio sugli ultimi, a fine giornata, controllati di meno. Il Declarante lavorava più svelto di lui, constatò Gent. Lavorava in silenzio. Ogni tanto si fermava, si guardava intorno, fissava lo sguardo sul rosso vivo dei pomodori che, a grappoli, numerosi e pieni, si erano fatti strada tra le foglie verdi, come spinti a mostrare tutta la forza e la potenza del sole che racchiudevano. Era un buon raccolto, quell’anno – con tutto quel rosso dal luccichio abbagliante –, come se ne erano visti pochi in precedenza.
 
Estratto del capitolo 8 (pp. 71-75)
 
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Gianni Manghetti

Gianni Manghetti

Gianni Manghetti viveva a Roma. Aveva circa trent’anni quando, con moglie e figli, decise di andare a vivere in una borgata assieme ad altri amici e a un prete di frontiera. Vi rimase per tutti gli anni Settanta. Nel frattempo collaborava sulla politica bancaria con Luciano Barca al Dipartimento Economico del PCI. Tra i suoi saggi sul mondo della finanza ama ricordare “L’Italia delle banche” (coautore Luciano Barca) e tra i suoi romanzi “Il destino nasce giovane”. Ha insegnato finanza agli studenti universitari ed economia aziendale ai futuri ragionieri. Ha diretto l’Organo di Vigilanza sulle assicurazioni (governo Prodi) e presieduto la Task force internazionale per la stesura dei principi di vigilanza assicurativa. È stato Presidente della Cassa di risparmio di Volterra, là dove era nato e aveva vissuto la propria infanzia e giovinezza. Con primamedia editore ha pubblicato “Nomi nella cenere” (2012); “Lacrime...

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