Il vecchio al mare. D’ottobre in spiaggia a reinventarsi la vita

Luigi Oliveto

04/04/2024

La vecchiaia è una bizzarra stagione. Ha fiato corto per pronunciare la parola futuro; e per dirsi viva, stipa nel presente mucchi di ricordi, cianfrusaglie di tempo andato. Offre tuttavia qualche opportunità, come quella di un certo libertarismo verso le cose della vita o, ancora meglio, la totale anarchia dei sentimenti. Può succedere, allora, che anche il passato si spieghi a noi (riviva) in un nuovo racconto, per grazia della consapevolezza che la senescenza comporta e in virtù di quell’anarchia che prima dicevamo. Un po’ di tutto questo sembra accadere a Nicola, l’ottantaduenne protagonista dell’ultimo romanzo di Domenico Starnone, “Il vecchio al mare”. L’anziano signore, in un caldo autunno del suo autunno esistenziale, decide di affittare una casa al mare. Ogni giorno, in rigoroso assetto balneare (pantaloncini e camiciola) va in spiaggia, armeggia per un po’ con le sue cose, bisticcia col vento, sistema la sedia pieghevole, legge, talvolta passeggia, insegue ombre e ricordi. Con taccuino e matita scrive, prende appunti: “Nel corso della mia vita ho fatto di tutto, proprio di tutto, per smania di racconto”. Quando non legge o scrive, guarda Lu, una ventenne appassionata di canottaggio, che appena può raggiunge il mare, svelta mette in acqua il kayak, prende a pagaiare inscenando un bello spettacolo di tenacia e armonia. A Nicola la vista della ragazza evoca la madre che lui ha perduto troppo presto. Si chiamava Rosa, faceva la sarta e, ancora più delle sue clienti, teneva a mostrarsi bella ed elegante – fosse anche solo per recarsi a fare la spesa – tanto da mandare in bestia un marito geloso. Tra Rosa e Lu non c’è alcuna somiglianza, ma forse perché Lu lavora come commessa in una boutique, sono i vestiti a suscitare in Nicola una sovrapposizione emotiva. A lui piacciono i vestiti femminili, perché gli piacciono le donne, come subito accendino una propensione alla vita. Perciò apprezza la presenza di Lu, la vista delle sue clienti che scelgono abiti in un festoso andirivieni di colori e fruscii. C’è poi il piccolo figlio di Lu, con cui fantasticare sulla caccia alle piovre giganti. E c’è il piccolo mondo di una località di mare dove niente succede. Per l’ottuagenario che lì è arrivato dopo un’esistenza di sconclusionata vitalità, è una situazione che bene si presta a ripensare – anzi, reinventare – una madre morta giovane, la propria infanzia, gli amori, le inseguite felicità, ciò che ormai è andato. Quindi “trovare le parole giuste per dare un senso a ciò che mentre vivi viene giù a vanvera”. Farlo con la verità e l’inganno di cui la scrittura è portatrice.
 
***
 
Stavo andando in spiaggia, avevo dormito poco per il vento forte. Come si guasta facilmente il tempo e, col tempo, un ginocchio, la schiena, tutto. Il mare faceva un gran rumore, il cielo appoggiava sull’acqua piccoli squarci d’azzurro incalzati da nuvole nere. Premevo il cappello in testa con la sinistra, avevo la sedia pieghevole in spalla e un borsone a tracolla, con la destra mi tenevo al corrimano della scala di legno che taglia la duna. Pensavo ai fatti miei quand’ecco che tutto si è fermato: il vento, il mare, gli arbusti, il battito del cuore e delle ciglia, le rugginose vibrazioni del filo spinato che recinge le proprietà private sia a destra che a sinistra. Mi sono confuso, forse stavo di nuovo male, e in quell’attimo di immobilità disorientata l’unica cosa a muoversi è stata una figurina dai contorni d’oro: non un corpo, non una piroetta di polvere, non un guizzo di luce ma una presenza che è corsa lungo il legno del gradino e si è infilata nella sabbia poco più avanti. Ho pensato: so esattamente che cos’è, e forse ne conosco il nome anche se ancora non ce l’ha.
Dopo, il vento ha ripreso a soffiare, il mare a scaraventarsi verso riva con strisce di schiuma, il filo spinato a vibrare, gli arbusti a piegarsi come per asciugarmi il sudore. M’è venuto da tossire, non mi passava più. Sono sceso affannato giù per il resto dei gradini, fino alla spiaggia, e mi sono fermato a qualche metro di distanza dal margine della sabbia nera d’acqua. Ho provato ad aprire la sedia, che però al solito non voleva aprirsi, sicché per armeggiare con tutt’e due le mani mi sono tolto il cappello che il vento voleva strapparmi dalla testa, l’ho bloccato a terra con i sandali, mi sono sbarazzato del borsone. Piegato in due, sbuffando ansia e sofferenza, ho finalmente sistemato la sedia in faccia al mare e al vento. Ma mentre riprendevo il cappello la sedia s’è rovesciata, e in quel momento di stizzoso disappunto è successo di nuovo: ho rivisto la figurina scintillante d’oro correre sulla rena asciutta schivando abilmente le lingue d’acqua più invadenti.
A questo punto ho fatto una sciocchezza. Forse perché prima la sorpresa mi aveva annichilito, ora ho voluto reagire e mi sono messo a correre per acciuffare quel minuscolo vivo capriccio di fil di rame, come se potessi davvero correre, come se potessi davvero acciuffarlo. Tutta colpa della testa indebolita. Ho avuto uno scatto in avanti che mi sono immaginato potente, ma di fatto la gamba destra s’è sollevata appena – la metà della metà di quanto volevo – e non parliamo della sinistra. Sono seguiti tre o quattro balzi inconsistenti, poi, appena ho sentito la pesantezza del corpo e l’agilità con cui invece la figurina filava verso la foschia del mattino, verso la striscia scura del molo, verso una giovane donna in compagnia di un ragazzino che forse raccoglieva conchiglie, mi sono sentito ridicolo. Il cuore aveva palpiti disordinati, i capelli troppo lunghi mi accecavano, sono tornato alla sedia, al borsone, al cappello. Mi è sembrato che l’ultimo getto di vita mi fosse stato aspirato dal petto con un tubo di gomma come la benzina da un serbatoio.
Devi calmarti, mi sono detto. Ho massaggiato piano l’alluce del piede destro, da qualche tempo mi duole, l’unghia s’è annerita, si sta scollando. Quindi mi sono concesso un lungo sospiro, ho estratto dalla borsa il quaderno, mi sono calcato per bene il cappello in testa e ho scritto di ciò che mi era successo, senza badare più al mare, ai granelli di sabbia che spinti dal vento caldo mi stavano smerigliando le caviglie.
[…]
Passo il resto della mattina leggendo I lavoratori del mare. Quando mi annoio, chiudo il libro e scrivo. È scrittura d’esercizio – minuscoli movimenti cavillosamente annotati, sensazioni insignificanti, frasi monche del parlato – che qualche volta mi è stata utile, ne ho cavato un dettaglio, un gesto, un borbottio.
Per questi appunti uso da sempre la matita e la gomma, da bambino i frammenti grigi attorcigliati sul foglio mi piacevano molto, avevano un buon odore, cancellavo spesso e con accanimento. Oggi mi ripugnano, li spazzo via col palmo della mano, spesso nemmeno cancello più. Se fino a due o tre anni fa avrei cercato ancora, con cura maniacale, formule vivaci per ciò che mi passava davanti agli occhi, insistendo poi con la gomma se non mi riusciva, adesso ogni parola mi sembra falsa già prima che la scriva, ogni metafora supponente. Scarabocchio comunque per ore, senza ripensamenti. Mi riprometto di cancellare in seguito (i granelli di sabbia che spinti dal vento caldo mi stanno smerigliando le caviglie: diosanto, smerigliando, da vecchi si scrive peggio che da giovani), ma so già che me ne dimenticherò. Mi pare che tutto nella scrittura perda ormai sostanza con troppa facilità – i pescatori, le canne da pesca, le meduse, il filo di insetti, gli oggetti smarriti che piangono, Evelina – e a tratti mi innervosisco, a tratti incongruamente mi sento più leggero, come se finalmente mi fossi sbarazzato di un’ansia inutile.
Intanto il mare diventa di una pasta nerastra, le onde sembrano lunghe crepe bianche, è tornato il vento. Questa mia permanenza – sono tredici giorni che vivo in una casa sulle dune – è piena di bruschi mutamenti di luce, di colore, d’umore. Ora per esempio mi sento rinfrancato, l’acqua pare pece viola, ribolle fino al bordo della scogliera. I colori si inseguono, si urtano. Un cane fucsia corre velocissimo verso destra, abbaia chissà perché. Di lato, sulla sinistra, compare una ragazza che sembra intorno ai vent’anni, stringe una corda con le due mani. La corda le sega una spalla scurissima di sole, trascina una canoa rossa verso riva, il vento le fa aderire il prendisole blu ai seni piccoli, alla pancia.
Che bella parola lucente è prendisole, mia madre ne indossava al mare uno biancoceleste, se l’era cucito lei stessa. Tutto quello che metteva addosso lo componeva con le sue mani fantasiose, era sarta, nel 1954 aveva persino messo su per qualche mese un negozietto che chiamava butík. Ma cuciva per sé anche più di quanto cucisse per le sue clienti, e sicuramente si faceva bella più di tutte le donne che la pagavano perché le facesse belle. Anche solo per comprare il pane o la frutta usciva dalla nostra casa di poveri come una ricca attrice del cinema, e sembrava un’altra madre, sia col cappotto, che aveva il collo di astrakan, sia con la gonna stretta o a campana, sia col prendisole. E forse era davvero un’altra, o almeno così mi pare adesso, colpa delle lenti appannate dalla salsedine, dei nervi ingrommati, delle cataratte. Nuotava a rana ma mai dove non toccava, il collo lungo e teso, il mento alto, la bocca chiusa per non bere acqua salata, le orecchie piccole con esili lobi. In spiaggia perdeva spesso qualcosa che le pareva prezioso, frugava inutilmente nella sabbia, si disperava, e allora tutti noi figli l’aiutavamo a cercare.
Naturalmente so bene che la ragazza della canoa non ha un prendisole simile a quello di mia madre, anzi, a guardar bene, non ha nemmeno un prendisole, è in due pezzi blu. Sto soltanto incollando qualche brano sempre più incerto di memoria su questa figura di giovane donna con canoa. Ma va bene così, a farlo mi sento sempre meglio, lascio che il cane fucsia scorrazzi e la ragazza spinga in acqua lo scafo, vi balzi dentro, affronti le onde con colpi eleganti di pagaia. Mia madre macché, non ha mai remato in vita sua e al massimo è venuta con me un paio di volte in una barca affittata per un’ora, io sedici anni, lei trentacinque, al sole diventava scurissima. Tuttavia fingo che ora, almeno per qualche istante, la giovane donna in canoa – a pensarci non è la prima volta che la vedo – sia proprio colei che mi metterà al mondo.
Lo faccio, devo ammettere, trattenendo il respiro. Sono parecchi decenni che colloco mia madre in luoghi dove lei non c’è né potrebbe essere – il cornicione di un palazzo all’alba, il soppalco di una vecchia casa –, ormai lo so fare con disinvoltura. Ma è la prima volta che riesco a irraggiarla in un organismo vivo, a confonderla – entrambi i verbi non sono giusti, forse anche la sintassi, devo pensarci, ne troverò altri o costruirò le frasi in altro modo – con un corpo che non ha niente a che fare con il suo se non perché a occhio e croce ha l’età di quando mio padre, una volta, se n’è innamorato, l’ha amato, ne ha vissuto la voce e il respiro non per come veramente si manifestavano ma per come lui ha sperato, ha temuto che fossero. E lei – lei, lei, lei – negli anni che sono seguiti s’è sentita incalzata, modellata dalle furie del marito – dove vai, chi vedi, perché ti vesti così, tu non sai la merda che c’è nella testa degli uomini, pensano solo a fottere –, e alla fine forse s’è rassegnata a diventare il ricettacolo delle paure, dei sospetti senza mai certezze, che lo tormentavano; o forse s’è vestita elegante, attraente, per atterrirlo, per umiliarlo, e così vendicarsi.
Mia madre per un po’ è parte della canoa, della ragazza, ma mi pare agitata, ha paura, mi agito anch’io. Allora la poggio con cautela sulla striscia di sole che attraversa l’acqua, è un movimento della fantasia che governo meglio. Nell’imbarcazione rossa resta solo la ragazza, che va verso l’orizzonte con una determinazione senza sforzo, come se il mare del pomeriggio non ribollisse chiassosamente. Pare così potente e decisa nei movimenti che a me – di gesti fiacchi, le palpebre a tal punto debilitate che faccio fatica a tenere gli occhi non dico aperti ma socchiusi – sembra pronta per traguardi impossibili. Dà colpi di pagaia puliti, compare e scompare tra le onde, non riesco a tenerle dietro, è già lontana.
 
[da Il vecchio al mare di Domenico Starnone, Einaudi, 2024]
 
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Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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