L’amore è un sogno della nostra infanzia. Lo racconta Domenico Starnone

Luigi Oliveto

11/11/2021

L’ultimo romanzo di Domenico Starnone, “Vita mortale e immortale della bambina di Milano” (Einaudi), pare il racconto di un seducente (talvolta inquietante) rito iniziatico. Di iniziazione alla vita, all’amore, alla consapevolezza della morte, al doloroso scarto tra vagheggiamento e realtà. Questo sperimenta Mimì, il bambino – poi adulto – invaghito della bambina del palazzo di fronte (la bambina di Milano) che sul balcone s’atteggia a “ballerina di carigliòn”, azzarda fare piroette sul parapetto e “quant'era bella la sua figurina contro i vetri luccicanti di sole, audace nei saltelli, così esposta alla morte.” Lui la guarda continuamente dalla finestra, la sogna e fantastica di diventare un “poeta incantatore”. Del resto il maestro Benagosti lo ha preconizzato: il ragazzino è “destinato a grandi cose”. Ne è convintissima pure la nonna materna, che lo ama di un amore smisurato e che glielo manifesta gorgogliando parole in dialetto napoletano, perché solo così sa esprimersi, non certo con l’italiano preciso ed aggraziato della bambina di Milano. Quella nonna “bruttarella” e “arrugnata” ha comunque avuto il suo grande amore, il marito, morto dopo due anni di matrimonio e con il quale continua a parlare. Una siffatta frequentazione dell’oltretomba la rende particolarmente edotta in materia. Tanto da sapere l’esistenza della fossa dei morti, il cui accesso, nell’immaginazione del nipote, è dalla botola presente nel giardino sotto casa. Mimì, peraltro, come il poeta Orfeo, vuole assolutamente raggiungere gli inferi per riprendersi la sua Euridice, allorché la bambina danzante morirà annegata, mentre era in villeggiatura. Mimì cresce, frequenta l’università, studia glottologia, la lingua nitida, esatta, che parlava la bambina di Milano e quella delle fantasiose contorsioni fonetiche della nonna. Due mondi, due modi di vivere e chiamare le cose. Inevitabile non coglierne la distanza, desiderare di colmarla. Sì, Mimì diventa grande, ma per sempre segnato da quell’innamoramento precoce che si farà parametro di qualsiasi altro amore. E, in quanto ideale, mai raggiungibile con gli amori veri, di carne, inevitabilmente destinati a morire. In questo romanzo di Starnone non è l’esile trama a costituirne la tenuta, ma il racconto in sé, le parole che scandagliano, rivisitano con originalità il binomio amore-morte. E il suo tormento.
 
***
 
Tra gli otto e i nove anni mi proposi di trovare la fossa dei morti. Avevo appena imparato, nell’italiano della scuola, la favola di Orfeo che era andato a riprendersi la fidanzata Euridice, finita sottoterra a causa del morso di una serpe. Progettavo di fare lo stesso con una bambina che disgraziatamente mia fidanzata non era, ma che avrebbe potuto diventarlo se fossi riuscito a riportarla da sotto a sopra la terra, incantando scarafaggi, moffette, topi e toporagni. Il trucco era non girarsi mai a guardarla, cosa per me difficile ancor più che per Orfeo, col quale sentivo di avere parecchie affinità. Ero poeta anch’io, ma in segreto, e componevo versi di grande sofferenza se mi capitava di non vedere, almeno una volta al giorno, la bambina; che però era facile da vedere, considerato che abitava nel palazzo proprio di fronte al mio, un edificio nuovissimo di un bel celeste.
La cosa era cominciata in marzo, una domenica. Le mie finestre si trovavano al terzo piano, la bambina aveva un grande balcone con parapetto di pietra al secondo. Io ero infelice per costituzione, la bambina sicuramente no. Da me non batteva mai il sole, dalla bambina, mi pareva, sempre. Sul suo balcone c’erano molti fiori colorati, sul mio davanzale niente, al massimo lo straccio grigio che mia nonna appendeva al ferro filato dopo aver lavato il pavimento. Quella domenica cominciai a guardare il balcone, i fiori e la felicità della bambina, che aveva capelli nerissimi come Lilít, la moglie indiana di Tex Willer, un caubboi dei fumetti che piaceva a mio zio e anche a me.
Lei giocava a fare – mi sembrò – la ballerina di carigliòn, saltellando a braccia tese e dandosi ogni tanto a una piroetta. Dall’interno di casa sua la mamma le gridava raccomandazioni garbate, tipo non sudare o, che so, vacci piano con le piroette, se no finisci contro i vetri della portafinestra e ti fai male. Lei rispondeva gentile: no mammina, sono brava, non ti preoccupare. Madre e figlia si parlavano come nei libri o alla radio, causandomi una specie di languore non per il senso delle parole, che da tempo ho dimenticato, ma per il loro suono incantatore, così diverso da quello di casa mia, dove si parlava soltanto dialetto.
Passai la mattinata alla finestra, morendo dalla voglia di buttar via me stesso e migrare tutto rifatto, bello, pulito, con dolci parole poetiche di sillabario, sul balcone là di sotto, dentro quelle voci e colori, e vivere per sempre con la bambina, e ogni tanto chiederle compíto: per favore, posso toccarti le trecce.
Senonché successe, a un certo punto, che lei si accorse di me e io subito per la vergogna mi ritrassi. La cosa non dovette piacerle. Smise il balletto, diede un’occhiata alla mia finestra, poi riprese a danzare con più energia. E poiché io mi guardai bene dal tornare visibile, fece una cosa che mi lasciò senza fiato. Si tirò con una certa fatica sul parapetto, si mise in piedi e riprese a fare la ballerina muovendosi lungo la striscia stretta del davanzale.
Quant’era bella la sua figurina contro i vetri luccicanti di sole, a braccia levate, audace nei saltelli, così esposta alla morte. Mi sporsi perché mi vedesse bene, pronto a gettarmi anch’io nel vuoto, se lei fosse caduta.
 
[da Vita mortale e immortale della bambina di Milano di Domenico Starnone, Einaudi, 2021]
 
 
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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