La vita e il sicuro approdo di Wallace Stegner

Luigi Oliveto

04/04/2019

Metti due coppie di amici – amici da una vita, nel vero senso della parola – che, ormai vecchi, si ritrovano nel luogo che li aveva visti giovani e uniti in un sodalizio ricco di umanità, cultura, sentimenti. Tanto da dire: “Eravamo la conferma di chissà quale fede trascendentale secondo cui dal tetto dell’anima cosmica piove su tutti”. E’ ciò che racconta Wallace Stegner nel romanzo “Verso un sicuro approdo”, scritto nel 1987 prima di morire, ora pubblicato in Italia da Bompiani. La storia comincia con gli anziani coniugi Morgan (Larry e Sally) che lasciano la casa di riposo nel New Mexico per andare, appunto, a far visita ai loro vecchi amici Sid e Charity Lang. Un viaggio a ritroso nel tempo (35 anni delle loro esistenze). Un viaggio nella memoria, nelle esperienze condivise. A promuovere questa reunion è Charity, malata terminale, donna di grande personalità e ascendente, amorevolmente despota, a differenza del marito Sid, fascinoso ma vittima della propria inettitudine. Larry aveva raggiunto notorietà come scrittore; Sid, per quanto dotato, non era stato sorretto da volontà. L’angelica Sally, ancor prima di invecchiare, aveva dovuto affrontare seri problemi di salute; e poi Charity, da sempre un monumento di forza di volontà e in possesso di un carisma che nemmeno in prossimità della sua fine sembra spegnersi. Il legame delle due coppie, i tanti momenti vissuti insieme, sono ripercorsi ora – nella quiete e nella lucidità della vecchiaia – come una grande esperienza di humanitas. Nel ricordare un loro viaggio in Italia, Larry, la voce narrante, dice in proposito: “Nonostante le nostre perdite, non eravamo affatto una generazione perduta. Non inseguivamo nessun Dada Nada su e giù per le strade di Firenze, nei musei e nelle chiese e per le decine di borghi e città sulle colline, bensì qualcosa di umanizzato, qualcosa di relativo al pensiero e all’ordine, e dunque alla speranza; qualcosa che, come non smettevamo di ripeterci, era il sogno dell’uomo”. Insomma, è trascorsa una vita che meritava di essere vissuta; e fortunatamente se ne è avuta tutta la consapevolezza. Non a caso Stegner pone in esergo al suo libro i versi di Robert Frost da cui ha tratto anche il titolo: “Potrei dare ogni cosa al Tempo – tranne / Ciò che ho trattenuto per me. Ma perché dichiarare / Le cose proibite che mentre i doganieri dormivano / Ho portato verso un sicuro Approdo? Perché lì io sono / E ho tenuto ciò da cui non mi posso separare.”
 
***
 
Fluttuando attraverso una confusione di sogni e ricordi, guizzando come una trota attraverso i cerchi di risalite precedenti, emergo. I miei occhi si aprono. Sono sveglio.
Dev’essere così che vedono i malati di cataratta a cui dopo l’operazione tolgono le bende: ogni dettaglio nitido come visto per la prima volta eppure familiare, conosciuto da prima del tempo della cecità, mentre le cose che si presentano alla vista e alla memoria si fondono come in uno stereoscopio.
È molto presto. La luce non è più di una penombra che filtra dai bordi delle veneziane. Eppure vedo, o ricordo, o entrambe le cose, le finestre senza tende, le travi nude, le pareti di tavole su cui non è appeso nulla, a parte un calendario che credo fosse già qui l’ultima volta, otto anni fa.
Ciò che un tempo era aggressivamente spartano adesso è trasandato. Niente è stato rinnovato o aggiunto dacché Charity e Sid hanno ceduto la proprietà ai figli. Dovrei avere la sensazione di svegliarmi in un motel a conduzione famigliare dei tempi bui, ma non è così. Ho trascorso troppe belle giornate e nottate in questo cottage per lasciarmi deprimere.
Questa stanza, quando i miei occhi si adeguano alla penombra e alzo la testa dal cuscino per guardarmi intorno, ha addirittura qualcosa di meravigliosamente rassicurante, un certo calore perfino nella desolazione. Associazioni, forse, ma anche il colore. Negli anni, il pino incompiuto di soffitti e pareti è maturato in un intenso color miele, come per l’effetto del calore di chi ne aveva fatto un rifugio per gli amici. Lo prendo come un auspicio; e anche se rammento a me stesso la ragione per cui siamo qui, non riesco a scrollarmi di dosso il senso di amata familiarità provato svegliandomi.
L’aria è familiare quanto la stanza. Un olezzo di topi tipico delle case vacanze, più una vaga, non sgradevole reminiscenza di moffette sotto il pavimento, però avvolti e pervasi della qualità pungente dell’aria a duemila metri. Illusione, certo. Quello che sa di altitudine è latitudine. Il Canada è solo a una ventina di chilometri a nord, e lo strato di ghiaccio che ha lasciato i segni del suo passaggio sull’intera regione non se n’è andato davvero, si è solo ritirato. Nell’aria qualcosa, anche ad agosto, dice che tornerà.
Di fatto, potendo dimenticare di essere mortali – e allora la cosa era più facile qui che in tanti altri luoghi –, si potrebbe davvero credere che il tempo sia circolare, e non lineare e progressivo come la nostra cultura è determinata a dimostrare. Dal punto di vista geologico siamo fossili in divenire, da seppellire e un giorno tornare a esporre per lo sconcerto di creature del futuro. Sul piano geologico o biologico, come individui non siamo degni di attenzione. Ciascuno di noi si discosta ben poco dagli altri, ogni generazione replica la precedente, ciò che edifichiamo perché ci sopravviva è poco più resistente di un formicaio, e molto meno delle barriere coralline. Qui tutto rinvia a se stesso, si ripete e rinnova, e il presente si distingue appena dal passato.
Sally dorme ancora. Scivolo fuori dal letto e a piedi nudi attraverso il freddo pavimento di legno. Il calendario, quando gli passo accanto, insiste a non essere quello che ricordo. Dice con precisione che siamo nel 1972, nel mese di agosto.
Quando la apro, la porta scricchiola. Aria pungente, luce grigia sul lago grigio, cielo grigio tra le tsughe, le cui cime svettano ben al di sopra della veranda. Più di una volta, nelle scorse estati, io e Sid abbiamo tagliato alcuni di quegli alberi cresciuti come erbacce perché nel cottage degli ospiti entrasse più luce. Ci siamo limitati ad abbatterne qualche esemplare, senza mai scoraggiare la specie. Le tsughe amano queste sponde scoscese. Come altre specie, si aggrappano al loro territorio.
Torno in casa a prendere i vestiti dalla sedia, gli stessi che indosso dal New Mexico, e mi vesto. Sally continua a dormire, sfinita dal lungo volo e dalle cinque ore di macchina da Boston. Una giornata troppo pesante per lei, ma di spezzare il viaggio non ne ha voluto sapere. Era stata convocata e non avrebbe perso tempo.
Rimango per un attimo ad ascoltare il suo respiro, chiedendomi se posso arrischiarmi a uscire e lasciarla sola. Ma lei è profondamente addormentata, e dovrebbe restarlo ancora per un po’. Nessuno si farà vivo, a quest’ora. Questa prima porzione di mattina è mia. Esco in veranda in punta di piedi e rimango lì, esposto a quello che, stando ai miei sensi, potrebbe essere tanto il 1938 quanto il 1972.
Nella tenuta dei Lang dormono tutti. Niente luci attraverso gli alberi, niente odore di fumo di legna nell’aria. Imbocco il sentiero nei boschi spugnosi, supero la legnaia fino alla strada e qui incontro il cielo, che schiarisce debolmente a est, e la stella del mattino salda come un lampione. Giù sotto le tsughe pensavo fosse coperto, ma qua fuori vedo la conca del cielo chiara e tersa.
I piedi mi portano su per la strada fino al cancello, e oltre. Subito al di là del cancello la strada biforca. Ignoro la strada per la Costa e prendo lo stretto sterrato che sale lungo il fianco della collina sulla destra. John Wightman, il cui cottage sorge alla fine della strada, è morto quindici anni fa. Non avrà da ridire perché cammino nei suoi solchi. È una strada che ho percorso centinaia di volte, un’incantevole galleria sperduta tra gli alberi, stamattina affollata di uccelli e timide bestiole fruscianti, la mia strada preferita in assoluto.
[…]
Stavolta non siamo tornati a Battell Pond per diporto. Siamo venuti qui per affetto e solidarietà famigliare, come membri adottivi del clan, e perché eravamo attesi e desiderati. Ma adesso non riesco a provare malinconia, non più di quando mi sono svegliato nel vecchio e trasandato cottage per gli ospiti. Anzi, al contrario. Mi chiedo se mi sia mai sentito più vivo, più presente di spirito e in pace con me stesso e con il mio mondo di quanto mi senta per qualche istante sulle pendici di questo colle mentre guardo il sole alzarsi possente e fiducioso, e sotto di me scorgo il paese immutato, il lago come una polla di mercurio, le gradazioni di verde del fieno e dei prati e degli aceri da zucchero e dei boschi di abeti neri, e tutto ciò si solleva e si scalda mentre le ombre si accorciano. Questo è stato, questo è il luogo dove nei nostri anni migliori l’amicizia aveva dimora e la felicità il suo quartier generale.
 
[da Verso un sicuro approdo di Wallace Stegner, trad. Maurizia Balmelli, Bompiani, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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