Mattia Signorini e la piccola pace del Natale 1914

Luigi Oliveto

22/12/2022

Ad avere la consapevolezza dei paradossi, dei drammi che le guerre comportano non sono coloro che le dichiarano o ne ordinano le azioni dalle cupe stanze di comando. Quella consapevolezza appartiene a chi le guerre è costretto a viverle sul campo, in terribile prossimità con paura, morte, sofferenza fisica e interiore. Sempre a loro è dato sperimentare sentimenti che nell’essere umano (e meno male) resistono anche in situazioni estreme e di abbrutimento. Moti d’animo che generano scelte, gesti, piccoli o grandi che siano. La storia di ogni guerra ne fa memoria, anche se i più sono andati spersi nell’oblio. Tra gli episodi sopravvissuti nel ricordo può citarsi ciò che è stata tramandata come ‘la tregua del Natale 1914’, allorché, durante la prima guerra mondiale, in diverse zone del fronte occidentale, soldati delle truppe tedesche e britanniche schierate su fronti opposti, in barba agli alti comandi, deposero le armi, uscirono dalle rispettive trincee, seppellirono i propri morti, fraternizzarono intonando canti delle loro tradizioni, celebrarono insieme riti religiosi. Si riconobbero come persone. Questi fatti rivivono ora nel romanzo “Una piccola pace” di Mattia Signorini. Vi si racconta dell’amicizia nata in tali circostanze tra il fuciliere inglese William Turner e il soldato tedesco Carl Mühlegg. Due ragazzi artefici giustappunto di una piccola quanto breve pace che segna comunque le loro vite. Voce narrante è Carl. È lui che nel 1933, con Hitler salito al potere, decide di mettersi in viaggio insieme al figlio bambino perché desidera tornare nei luoghi delle Fiandre dove era stato soldato. Un ritorno che – come spiega al figliolo – è una promessa fin troppo rimandata, fatta ad un ragazzo (William) il quale “mi ha insegnato che quando tutto sembra cospirare contro di noi, e sentiamo di non avere più una via d’uscita, è ancora possibile compiere una scelta. In questo modo, quel ragazzo mi ha salvato”. Con scrittura nitida e partecipe Signorini narra così una vicenda che potrebbe quasi ascriversi al repertorio delle leggende di Natale. Indubbiamente una bella storia. L’orribile scenario della guerra si apre a imprevedibile esperienza di amicizia; nel caso di William pure d’amore. Morale della favola: sappiamo quanto complicati siano i processi di pace; più facile tentare certe piccole paci che portano almeno a riconoscersi come esseri umani.
 
***
 
Nel dicembre del 1933 un uomo e un bambino procedevano di buon passo lungo un sentiero di campagna.
Avevano viaggiato per tutto il giorno su un treno diretto a Bruxelles, erano saliti su un altro e infine scesi alla stazione di Ypres, un paesino che contava meno di tremila anime. In un bar il gestore aveva servito loro una merenda semplice, e aveva cercato di interpretarne, senza riuscirci, la lingua, il cui suono tuttavia gli era conosciuto. “Tedeschi,” aveva detto un avventore prima di vederli uscire.
Proseguirono fino all’ora del tramonto, quando l’uomo indicò un punto a sud e disse al bambino: “Siamo quasi arrivati. Dormiremo là”.
Abbandonarono il sentiero e scesero il pendio di erba gelata. Il bambino andava più forte, negli ultimi mesi era cresciuto di alcuni centimetri e i lineamenti del viso, da tenui, iniziavano a diventare più marcati; l’uomo portava sulle spalle una sacca di iuta non troppo pesante, il loro unico bagaglio. Davanti alla locanda sbatterono gli scarponi per pulirli dalla terra.
Il proprietario li accompagnò in una stanza in cui si trovavano un letto a due piazze e un armadio di legno. L’uomo si tolse il cappello con la mano buona e con l’altra, monca, fece un cenno al bambino, che tastò il materasso sistemandosi in punta.
Quando il sole scese del tutto prese dalla sacca una candela, la strinse e socchiuse gli occhi. Mosse appena le labbra, come se stesse recitando una preghiera, infine la poggiò accesa sulla finestra. Rimase a osservare oltre il vetro le valli, che la luce opaca della sera illuminava ormai con fatica.
Cenarono con due bretzel avanzati dal viaggio. L’uomo chiese al bambino se aveva freddo, e lo vide annuire. Gli allungò un maglione della sua misura, poi si sdraiò su un lato del letto ancora con i vestiti addosso.
L’indomani si alzarono all’alba e ripartirono, con la sazietà di un bicchiere di latte nello stomaco e due panini per il pranzo che avevano acquistato dal locandiere. Camminarono tra i prati per quasi un’ora, stretti nei loro cappotti di lana, quando, di punto in bianco, l’uomo si fermò. Il bambino allora si guardò intorno e notò l’erba lasciare spazio a gallerie di terra scura non più profonde di due metri, che si interrompevano per riprendere poco più in là.
“Ecco, il posto è questo,” disse l’uomo. “Sono passati molti anni dalla prima volta in cui ci sono stato. Ne avevo diciannove, non molti più di te. Per quasi tutto il giorno, dentro gallerie simili a quelle che vedi, stringevo tra le braccia un fucile, senza sapere se il giorno dopo sarei stato ancora vivo.”
“Ma dovevi difenderti?”
“Da uomini che non conoscevo.”
“Quanti eravate?”
“Migliaia.”
Il bambino si passò quella parola nella testa – migliaia – poi fece una smorfia.
“Non riesco a pensare un numero così grande.”
“Non ci riuscivo nemmeno io, fino a quando non l’ho visto con i miei occhi.”
“E faceva paura?”
“Molta.”
L’uomo gli spiegò che era voluto tornare perché aveva fatto una promessa che riguardava un ragazzo, e aveva già rimandato il suo viaggio per troppo tempo.
“Cos’ha fatto quel ragazzo?” chiese il bambino.
“Mi ha insegnato che quando tutto sembra cospirare contro di noi, e sentiamo di non avere più una via d’uscita, è ancora possibile compiere una scelta. In questo modo, quel ragazzo mi ha salvato.”
L’uomo gli fece cenno di sedersi. Il bambino si appoggiò con le gambe a penzoloni, battendo le suole avanti e indietro sulla parete di terra.
“Vuoi conoscere la sua storia?”
Il bambino annuì.
L’uomo si inginocchiò e passò il palmo della mano sul bordo di erba e sassi. Lanciò una fuggevole occhiata all’orologio che portava al polso e osservò il cielo azzurro, che qua e là si stava riempiendo di nubi.
“Per farlo devo cominciare dall’inizio.”
“Va bene,” disse il bambino.
“Si chiamava William Turner. Giunse in queste terre nell’autunno del 1914 con la convinzione che avevamo tutti, e cioè che la guerra sarebbe finita entro Natale. Quando arrivò, non sapeva cosa significava combattere, né cos’era un campo di battaglia.”
“Non capisco perché sia partito, allora.”
“Anche lui doveva mantenere una promessa.”
Il bambino gli si fece accanto.
“E qual è questa promessa, papà?”
 
[da Una piccola pace di Mattia Signorini, Feltrinelli, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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