Notturno francese. Quando anche un treno sbagliato può risultare quello giusto

Luigi Oliveto

23/02/2023

È una indagine sui sentimenti, quella architettata da Fabio Stassi nel suo ultimo romanzo “Notturno francese” (Sellerio). C’è il tema del viaggio, dell’andare alla ricerca di sé e del volersi fare trovare, dei distacchi e dei ricongiungimenti, delle sliding doors che si aprono e chiudono ai casi della vita, dei libri che leggiamo e che, in definitiva, sono loro a leggere noi. Il protagonista, Vince Corso, vive a Roma. È un biblioterapeuta (alla bisogna consiglia libri per curare guai e paturnie). È pure detective di enigmi letterari. Sta partendo per raggiungere la fidanzata che lavora a Napoli e trascorrere con lei il fine settimana. A Roma-Termini sale però sul treno sbagliato. Due identici convogli dell’alta velocità fiancheggiano lo stesso marciapiede e lui sale su quello diretto a Nord. Ovviamente trova già occupato il posto indicato nella prenotazione. Vi siede un uomo che richiama lo chansonnier Léo Ferré, già in età avanzata (non solo libri, ma anche molta musica si interseca alla vicenda narrata da Stassi). Con atteggiamento suadente gli dice che può accomodarsi sulla poltrona di fronte, l’unica libera in tutto lo scompartimento. Quando Vince si accorge dell’errore vorrebbe rimediare, ma sarà lo stesso vecchio dall’aspetto colto e misterioso a insinuare: “forse lei non lo sa ancora, ma potrebbe essere arrivato il momento di fare questo viaggio”. E questo viaggio verrà fatto. Genova, Nizza, Marsiglia, ad indagare su ciò che da sempre lo arrovella: scoprire l’identità di suo padre. In punto di morte la madre gli aveva infatti rivelato che era stato concepito a Nizza il 27 luglio 1969, dopo una notte d’amore con uno sconosciuto in una camera del lussuoso Hotel Le Negresco di cui lei era all’epoca dipendente. Al mattino, sparito nel nulla, aveva solo dimenticato (dimenticato?) sul comodino tre libri rilegati in blu. Saputa la verità, Vince, per cinque anni, tutti i giorni aveva inviato una cartolina senza destinatario indirizzata all’hotel dove, seppure fugace, era stata registrata la presenza di suo padre. Ora il viaggio intrapreso è una puntigliosa, trepidante indagine su quell’uomo e sui sentimenti che quell’enigma sollecita. Da un indizio all’altro visita alberghi e pensioni della Costa Azzurra nei quali la madre aveva lavorato, ne consulta i vecchi registri (all’Hotel Le Negresco vede appese le proprie cartoline inviate un tempo). Non sempre rintraccia quel che cerca, trova talvolta ciò che non cercava. Incontra persone, esistenze, destini i più diversi. In questo andare e cercare accade che autori e personaggi di libri smarginino dalle pagine fin dentro la sua storia. E poi i luoghi; reali, metaforici, evocanti. Come il cimitero di Sète, la città natale di Paul Valery, che forse proprio in quel camposanto destinato alla sepoltura di marinai e viandanti, trovò ispirazione per il “Cimitero marino” (“S’alza il vento!… Affrontiamo la vita! / Sfoglia il mio libro quest’aria infinita …”). L’indagine di Vince Corso non sarà vana. Alla fine qualcuno verrà ritrovato. Anche un treno sbagliato può risultare quello giusto.
 
***
 
[…]
Non saprei dirti nemmeno come passai il resto della mattina. Faceva così caldo, che non sembrava un giorno di fine estate. Prima mi concessi un secondo caffè a un tavolino del bar pasticceria D’Amore, a via dello Statuto. Poi, verso mezzogiorno, mi cucinai un uovo in padella, ascoltando le notizie del giorno dalla mia vecchia radiolina a transistor.
Non era successo niente di rilevante: le temperature erano stabilmente sopra la media, i sindacati minacciavano uno sciopero dei trasporti e la polizia aveva stroncato un traffico di farmaci illegali e pericolosi. Poco dopo consegnai Django a Gabriel, lo avrebbe accudito lui, quel weekend. Chiusi l’appartamento e mi diressi verso la stazione.
Il Frecciarossa partiva alle 14:10 dal binario 6. Ero in anticipo di oltre mezz’ora, così entrai in uno dei chioschi dal lato di via Cavour a comprare una scatola di pasticche Leone. Due giganteschi cartelloni elettronici illuminavano da un capo all’altro l’intera galleria gommata di Termini proiettando a intervalli regolari la pubblicità di un nuovo gestore telefonico sugli occhi abbacinati di una moltitudine di passeggeri.
Accesi una sigaretta e persi qualche altro minuto davanti alla vetrina di un negozio di borse per scegliere quale avrei regalato a Feng al ritorno, se mi fosse rimasto qualche soldo dall’insperato arretrato che avevo ricevuto per delle supplenze di cinque anni prima.
Quando si avvicinò l’ora della partenza, mostrai il biglietto ai funzionari delle ferrovie che controllavano gli accessi al primo binario e mi diressi alle scale del sottopasso in fondo. Lo spazio vuoto amplificò il rumore del trolley. Nella luce gialla del corridoio sotterraneo controllai ancora una volta su un display il numero del treno, poi risalii in superficie.
Non so se fu all’uscita da quella scala che mi svagai o se il mio passo era già sbagliato dalla mattina. Due convogli identici, rossi e grigi, con la classica punta affusolata, aspettavano il fischio dei rispettivi capitreno da entrambi i lati del marciapiede.
Mentre mi avviavo verso la mia carrozza, un altro Frecciarossa in entrata provocò un leggero spostamento d’aria che mi costrinse a voltarmi. Quando tutto tornò normale avevo già raggiunto la prima motrice: misi un piede sul gradino e salii sulla vettura 9.
Il vagone era già pieno di viaggiatori. Una signora con un vistoso cappellino bianco cercava di riporre la valigia nella rastrelliera e aveva bloccato il corridoio; dietro di lei, altri passeggeri protestavano con voci scontrose; nell’attesa, un militare dall’espressione assorta ripiegò con cura la giacca della divisa e la appoggiò su un sedile.
La mia poltrona era esterna, in fondo alla carrozza. Ne fui contento, perché lontano dal finestrino mi sento più libero di muovermi, anche se poi non mi alzo mai. Nell’avvicinarmi, notai però che una mano stringeva quello che avrebbe dovuto essere il mio bracciolo.
La misi a fuoco pochi metri più avanti: era una mano ossuta e screziata di macchie, con la pelle increspata in qualche punto. Aprii lo zaino che trascinavo sopra al trolley. Sì, un signore molto in là negli anni sedeva dove avrei dovuto sedere io.
Per non metterlo a disagio, decisi di mostrargli la prenotazione che avevo stampato dal computer, senza dire nulla. Con mia sorpresa, l’uomo sollevò il borsello che nascondeva tra le gambe e ne cavò un biglietto identico. Restammo per un lungo istante in silenzio.
Il vecchio aveva due grosse ciocche di capelli bianchi ai lati delle tempie, la testa completamente calva. Somigliava a Léo Ferré alla fine della carriera: delle rughe profonde gli incidevano fronte e guance, gli occhi erano piccoli, la carnagione olivastra. Anche quando sorrideva, sembrava triste.
Superato il primo imbarazzo, mi indicò il sedile di fronte a lui, l’unico libero di tutto lo scompartimento. Non saliva più nessuno, era quasi l’ora della partenza e risolvemmo così il piccolo incidente.
 
[da Notturno francese di Fabio Stassi, Sellerio, 2023]
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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